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La controstoria è fatta di ribelli

Una delle necessità non più rimandabili, in un momento storico caratterizzato dalla cultura della cancellazione-riscrittura della storia, “è ridare voce” a testi che hanno scritto la controstoria dell’Occidente

di Salvatore A. Bravo - domenica 5 maggio 2024 - 359 letture

Controstoria

Una delle necessità non più rimandabili, in un momento storico caratterizzato dalla cultura della cancellazione-riscrittura della storia, “è ridare voce” a testi che hanno scritto la controstoria dell’Occidente. La storia presentata da manuali e dai media ufficiali ha il loro focus sui “grandi”; la storia sembra essere il campo di battaglia di eroi, manager e imprenditori che con la loro azione hanno condotto i popoli verso la libertà. In tale cornice ideologica il popolo e i ceti subalterni sono solo soggetti passivi che attendono di essere agiti. È il modo più efficace per eternizzare il presente e santificare l’uomo-imprenditore. La restante parte dell’umanità è solo un mezzo nelle fatali mani dei “grandi”. Si addestrano le classi subalterne del nostro tempo a diventare plebi che attendono la soluzione dei “grandi”. Devono adattarsi ad una realtà, in cui sono solo materia grezza che attende il Demiurgo-imprenditore.

La controstoria, invece, pone in evidenza senza dogmatismi o idealizzazioni che la storia è lo spazio e il tempo della resistenza di popoli e dei gruppi oppressi. Le sconfitte sono imputabili al deficit politico. Nessun progetto di cambiamento è realizzabile senza un’organizzazione stabile e una chiara visione dei fini politici da realizzare. Capire le ragioni della lotta e delle sconfitte è la modalità con cui comprendere gli errori del presente e, specialmente, significa non cadere nella trappola del fatalismo. Uomini e donne che ci hanno preceduto hanno lottato e il loro sacrificio non è stato vano, se la loro testimonianza ci è d’ausilio per resistere al pessimismo che la montante ideologizzazione della storia sta mettendo in atto.

Il testo di Eric J. Hobsbawm, I Ribelli : Forme primitive di rivolta sociale, ricostruisce i movimenti di resistenza evidenziando che il popolo e gli oppressi nella storia sono stati protagonisti. Le sconfitte non cancellano la traccia di libertà di coloro che hanno lottato per la giustizia. Il solco resta, è il segno che la storia nel suo grembo cela esperienze che possono insegnare a noi contemporanei a non piegarci alle verità-menzogne di sistema, ma ad ascoltare i fermenti che scorrono in essa:

“C’è solo una risposta a queste obiezioni: è ormai tempo che movimenti del genere trattato in questo libro non vengano più considerati semplicisticamente come una serie incoerente di curiosità individuali, quasi un’appendice storica, ma siano approfonditi come fenomeni di importanza generale e di peso considerevole nella storia moderna. Quanto Antonio Gramsci disse dei contadini dell’Italia meridionale del 1920 si adatta a molti gruppi sociali e regionali del mondo moderno. Essi sono «in perenne fermento ma incapaci, come massa, di dare una espressione unitaria alle proprie aspirazioni e ai propri bisogni»” [1].

Mob

Nel testo di E.J. Hobsbawm i ribelli sono innumerevoli come le esperienze che mettono in campo per mutare le condizioni sociali. Una delle modalità di opposizione è il mob, ovvero assembramenti improvvisi nei quali si chiedeva a piena voce di non essere carne da cui estrarre profitto, specie, con una tassazione iniqua. I mob diffusi in Inghilterra come in Francia e in Italia meridionale si caratterizzavano per la velocità con cui si materializzavano, ciò non significa che essi fossero privi di idee politiche, mancavano piuttosto di organizzazione stabile, per cui l’autocoscienza collettiva era solo parziale e ciò contribuiva alla sconfitta del movimento. Le manifestazioni avevano in comune l’eterna aspirazione alla giustizia che nessun sistema politico e nessun capitalismo del controllo potrà mai eliminare. Dove vi è umanità, c’è la richiesta di riconoscimento e di giustizia:

“Il fatto che il mob sia un fenomeno prepolitico non significa necessariamente che esso sia privo di idee politiche esplicite o implicite. È vero che spesso si insorgeva «senza alcuna idea», vale a dire, in generale, contro la disoccupazione e per una diminuzione del costo della vita - dato che, nell’epoca preindustriale prezzi da carestia e disoccupazione tendevano normalmente a coincidere - e, di conseguenza mercati, commercianti, e tributi locali come, ad esempio, i dazi, ne costituivano, in tutti i paesi, gli obiettivi naturali e quasi immutabili. I napoletani, che, durante la rivoluzione del 1647, cantavano:

Sui viveri non ci fu mai gabella
non ci fu mai né dazio né dogana

esprimevano un’aspirazione alla quale quasi tutte le classi indigenti delle città avrebbero fatto eco” [2].

L’assembramento è sempre vissuto come una minaccia dai potenti. La folla che si unisce per delle comuni richieste ha già in questo la consapevolezza di essere la maggioranza e che i dominatori sono solo un numero minimo a confronto di essa. L’autocoscienza di essere forza politica potenziale è espressa nello stare assieme e nell’organizzare le richieste che corrispondono a comuni necessità e richieste. Nei mob, fenomeni di resistenza e di ribellione cittadina, manca la continuita nel tempo delle manifestazioni e la capillare organizzazione che consente di elaborare progetti politici a lunga scadenza:

“Nelle sue manifestazioni, infatti, si ritrovavano in genere almeno due - o forse tre - altre idee. In primo luogo il mob chiedeva di esser preso in considerazione. In genere, il mob non insorgeva soltanto per protesta, ma perché sperava, così facendo, di ottenere qualche cosa. Esso presumeva che la rivolta avrebbe impressionato le autorità, e che forse le avrebbe indotte a fare qualche concessione immediata; poiché il mob non era un puro e semplice assembramento di persone raccolte a caso per il perseguimento immediato di un fine particolare, ma una entità permanente in quanto riconosciuta, benché di rado fosse stabilmente organizzata come tale” [3].

Limiti dei mob

Nelle grandi città il contatto diretto con i sovrani e le corti sviluppa una relazione di dipendenza. Tale relazione naturalmente diventa un limite ai processi di consapevolezza del popolo, il quale chiede alle classi dirigenti protezione. Le richieste popolari con i mob incontrano il loro limite nella consapevolezza polita, i rivoltosi si percepiscono come dipendenti dai potenti. Non vi è stato un percorso strutturato di consapevolezza di classe, pertanto la rivolta ha ambiguità che pongono le condizioni per il suo fallimento. Con i mob si contesta il tradimento delle classi dirigenti che dovrebbero paternalisticamente proteggere i sussunti ed invece li saccheggiano:

“Gli esempi più caratteristici di questa tradizione cittadina sono rappresentati da città come Roma, Napoli, Palermo, e forse anche Vienna o Istanbul, grandi città fino da tempi remoti, che sempre furono governate da un principe. In tali città il popolino viveva con i suoi governanti in uno strano rapporto, in cui confluivano in parti uguali elementi di parassitismo e di ribellione. Il loro modo di pensare, se tale è la definizione esatta, può essere enunciato con chiarezza nel modo seguente. È compito del sovrano e della sua aristocrazia provvedere al sostentamento del popolo, sia col fornirgli lavoro, ad esempio proteggendo gli artigiani locali, spendendo generosamente e facendo elargizioni come si conviene a un principe o a un gentiluomo, sia attirando nuove fonti di lavoro e di lucro, come, ad esempio, il movimento dei turisti e dei pellegrini. Ciò è tanto più necessario, in quanto questi centri di corti principesche non sono, in genere, delle città industriali, essendo spesso troppo grandi perché le industrie locali forniscano lavoro sufficiente; infatti, come spesso è stato osservato, le più grandi città preindustriali erano in genere così vaste in quanto centri amministrativi e residenza di una corte. Naturalmente, come nel caso di Roma, il popolino poteva spingersi fino ad avversare l’industrializzazione, poiché i suoi componenti la consideravano al di sotto della loro dignità di cittadini, e preferivano non avere un’occupazione fissa” [4].

Il popolo non era sovrano, ma conosceva la sua forza persuasiva, pertanto premeva sui sovrani e affini, affinchè ponessero in essere il loro sacro dovere di governare per il benessere del popolo. I dominatori d’altra parte dominavano, ma erano sottoposti alla perenne minaccia che contraeva i processi di deresponsabilizzazione e derealizzazione dei sovrani. Vi era una relazione diretta tra le due parti, poiché il potere era identificato in figure con le quali si era in contatto per tradizione, si stabiliva un legame di dipendenza figliale. Il legame era, dunque, ambivalente, si dipendeva e si minacciava. Il popolo era un soggetto politico immaturo, ma nel medesimo tempo il mob svelava le potenzialità antisistema in esso presenti, che le corti dovevano scongiurare con il rapido intervento:

“Purché, dunque, il sovrano compisse il suo dovere, la plebe era pronta a difenderlo con ardore. In caso contrario, continuava a fare sommosse finché quel dovere non fosse stato adempiuto. Di tale meccanismo erano ben conscie ambedue le parti; e finché il normale attaccamento del popolo alla città e ai governanti non fu sostituito da un altro ideale politico, o finché il mancato adempimento del loro dovere da parte dei governanti fu soltanto temporaneo, ciò non fece sorgere gravi problemi politici, a parte qualche sporadica distruzione di proprietà. La perpetua minaccia di ribellioni faceva sì che i governanti controllassero i prezzi, dessero lavoro ed elargizioni, e prestassero ascolto al loro fedele popolo anche su altre questioni. Poiché le rivolte non erano dirette contro il sistema sociale, l’ordine pubblico poteva rimanere, rispetto a quello odierno, straordinariamente rilassato” [5].

La sovranità rappresentava il popolo, il popolo si identificava con essa e con la Chiesa. L’ambiguità si palesa maggiormente, qualora il regno sia minacciato, in questi casi il popolo si stringeva intorno al re, perché rappresentava essi stessi. Il corpo del re era il corpo del popolo:

“In primo luogo, il sovrano (o una istituzione come la Chiesa) simbolizza e rappresenta in un certo senso il popolo e il suo modo di vivere, così come può apparire ad una pubblica opinione incolta. Può essere malvagio, corrotto o ingiusto, o piuttosto, tale può essere il sistema di governo che rappresenta; ma finché la società sulla quale esercita il potere rimane stabile nelle sue tradizioni, esso rappresenta la norma di vita. Questa legge, tranne che in circostanze particolarmente fortunate, non è certo molto favorevole alla massa del popolo; carestia, epidemie, pestilenze, guerre, assassini, morti improvvise, miseria e ingiustizia sono sempre presenti o in agguato dietro l’angolo; pure, questo è il destino dell’uomo. Tuttavia, se questo ordine stabilito, per quanto duro e ingrato, veniva a essere minacciato dall’esterno o dall’interno, il popolo, a meno che il sovrano avesse causato o tollerato in una misura maggiore del consueto la miseria, le ingiustizie e i lutti (e a meno che, secondo il detto cinese «il mandato del cielo fosse scaduto»), gli si stringeva intorno, in quanto egli rappresentava, in un senso simbolico e quasi magico, «loro stessi» o almeno la personificazione dell’ordine sociale” [6].

Flash mob

Il mob rappresenta una fase prepolitica della ribellione. Esso è scomparso, ma è tra di noi con la formula del flash mob. Differente nelle motivazioni e nell’organizzazione è espressione del vuoto politico del nostro tempo. Non si tratta solo dell’assenza di una reale rappresentanza politica, il vuoto attuale si caratterizza per forme di contestazione mediante assembramenti veloci per protestare contro i diritti negati violati.

Il flash mob esprime un livello di consapevolezza più immatura rispetto al mob tradizionale. Lo spettacolo prevale sul programma e sull’obiettivo. Gli assembramenti trasformano strade e piazze in modo improvviso in un palcoscenico nel quale gli assembranti si esibiscono, mentre i passanti all’improvviso divengono spettatori dello spettacolo in fieri, il messaggio è perso nello spettacolo. Ci si concentra sull’esibizione e non certo sul “concetto”.

I “contestatori” dimostrano ancora una volta una forte dipendenza dal potere politico, essi chiedono alle classi dirigenti un intervento immediato su tematiche quali il clima o i diritti individuali. Non chiedono la trasformazione del sistema, ma dei correttivi e le stesse richieste sono amorfe. Dopo l’esibizione l’assembramento si scioglie e non ha seguito. I flash mob dunque non riescono come i vecchi mob a fare pressione reale sulle classi dirigenti, poiché la protesta è curvata sullo spettacolo, esso diventa per non pochi uno strumento di affermazione. Non sono sorretti da un processo politico di coscienza collettiva, per cui essi si disfano velocemente e il potere non li teme, ma li guarda quasi con simpatia. La società dello spettacolo alimenta queste forme immature di contestazione e le usa per affermare che il diritto alla libertà è preservato e vissuto dalle nuove generazioni. Naturalmente nessuna di queste manifestazioni-assembramenti ha favorito la prassi.

Il male “nel postmodernismo”

Ripercorrere la controstoria è esercizio di consapevolezza per concettualizzare il presente. Senza attività politica nessun cambiamento è possibile e le forme di ribellione patinate e modaiole sono solo la pallida imitazione delle forme di ribellione prepolitiche che si sono materializzate nella storia. Per tornate ad essere “Ribelli consapevoli” la storia è oggi più preziosa che mai. L’analisi della storia messa volutamente in ombra dal dominio, non può che donarci categoie per decodificare il presente e offrirci la consapevolezza del lungo lavoro politico che ci attende.

Bisogna smascherare con le categorie marxiane le false forme di opposizione che il sistema capitale favorisce per poter celare la conservazione che si annida nelle manifestazioni politicamente corrette. Riannodare le fila dei movimenti di opposizione con le loro faglie e con i loro punti di continuità significa ricostruire la storia contemporanea alla luce degli uomini e delle donne che non hanno accettato supinamente il loro tempo. La storia non è trasmissione di informazioni, essa è esperienza di libertà e di emancipazione. Riconquistare la storia e strapparla dall’oblio del totalitarismo della cultura della cancellazione significa riappropriarsi della propria umanità attraverso l’esperienza degli uomini che hanno detto “no” all’oppressione.

Nel nostro tempo l’individualità può formalmente tutto, ciò malgrado dietro la patina di libertà il soggetto può solo obbedire alle decisioni politiche ed economiche dettate da una oligarchia irraggiungibile e sfuggente. La storia dunque ci mostra e dimostra che solo la resistenza al dominio e la lotta solidale rende l’essere umano libero. La prassi necessita di un processo di consapevolezza strutturato senza il quale ogni gesto di opposizione rischia di perdersi nel nichilismo dell’impolitico.

La “narrazione minima della storia” ridotta dopo il postmodernismo ad un campo da giochi per i potentati, bisogna contrapporre il fine che scorre al suo interni, che tra regressioni e avanzamenti, resta la giustizia sociale e la libertà. La controstoria ha tra i suoi scopi la sollecitazione a ripensare la storia da una prospettiva disorganica al sistema per rilevare la finalità oggettiva dal totalitarismo liberista. La narrazione minima della storia del postmodernismo con il suo nichilismo senza prospettive inaugura l’accettazione passiva della violenza oligarchica e l’adattamento fatalistico. Se la storia non ha un senso ed è solo il campo di forza, in cui è la violenza del più forte è l’eterna e inamovibile protagonista, si trasmette ai sussunti il fatalismo della violenza e l’eternità del presente. Il postmodernismo è processo di destoricizzzazione, di conseguenza la storia non è indagata, ad essa non si pongono domande, ma si constata solo l’inesorabile sconfitta delle”grandi narrazioni”. Il postmodernismo con la sua narrazioni minima favorisce il consolidamento del capitalismo assoluto.

Il flash mob è espressione della narrazione minima: gli obiettivi sono minimi e fugaci, per cui si chiede al sistema di intervenire per sanare ingiustizie. Nessuna ricostruzione storica e strutturale dei fatti e nessuna prospettiva storica emergono da tali manifestazioni. Il modo di produzione capitalistico è così destoricizzato e può ampliare i suoi tentacoli, in quanto non incontra resistenza, critica radicare e progettualità. In questa cornice inquietante è necessario “rimettersi in sintonia con la storia” per rispondere dialetticamente ai processi in atto.

Il postmodernismo dunque contrae la storia al solo presente avulso da ogni finalità oggettiva, per cui non resta che il presente con il suo ripetersi ossessivo e nevrotico del presente. La storia è ridotta a spettacolo, a vetrina nella quale le plebi sono in vendita al compratore più forte. I popoli sono solo tragiche presenze folcloristiche.

Il presente ha il suo senso all’interno del passato e del futuro, senza tali categorie temporali il presente è solo un’estensione spazio-temporale senza profondità, è un disperato automatismo che polverizza i popoli nel suo tritacarne nichilista. A tale logica una delle risposte possibili è la controstoria che dimostra la capacità di resistenza e avanzamento degli aggiogati e l’implicita presenza di una finalità oggettiva nella storia occultata dai “padroni del tempo e dello spazio”. I nuovi padroni del pianeta ritagliano la storia, la piegano ai loro voleri e occupano gli spazi rimodellandoli alla logica del profitto.

Dovremmo riflettere sule parole di Guy Debord per capire che siamo parte di un sistema, in cui come Debord ha già detto ”il vero è solo u momento del falso”. Ripensare alla merce e storicizzarne la produzione per svelarne le forme di sfruttamento incapsulate in esse è il modo per ritornare nella storia e ricongiungerci idealmente nel presente alla corrente sotterranea che ricongiunge il presente con il passato, ma per fare questo bisogna abbandonare “la società dello spettacolo”:

“Lo spettacolo è il momento in cui la merce è pervenuta all’occupazione totale della vita sociale. Non solo il rapporto con la merce è visibile, ma non si vede altro che quello: il mondo che si vede è il suo mondo. La produzione economica moderna estende la propria dittatura estensivamente e intensivamente, Nelle zone meno industrializzate, il suo dominio è già presente con qualche mercevedette e in quanto dominio imperialistico presente nelle zone che sono in testa nello sviluppo della produttività. In queste zone avanzate, lo spazio sociale è invaso dalla sovrapposizione continua di strati geologici di merci. A questo punto "della seconda rivoluzione industriale", il consumo alienato diviene per la massa un dovere supplementare alla produzione alienata. E’ tutto il lavoro venduto di una società che diviene globalmente la merce totale, il cui ciclo deve proseguire. Per fare ciò, bisogna che questa merce totale ritorni frammentariamente all’individuo frammentario, assolutamente separato dalle forze produttive operanti come un insieme. E’ dunque qui che la scienza specializzata del dominio deve specializzarsi a sua volta: ed essa si segmenta in sociologia, psicotecnica, cibernetica, semiologia ecc., presiedendo all’autoregolazione di tutti i livelli del processo” [7].

[1] E. J. Hobsbawm, I Ribelli : Forme primitive di rivolta sociale, Capitolo I Presentazione, Piccola Biblioteca Einaudi Torino, 1966 (Primitive Rebels: Studies in Archaic Forms of Social Movements in the 19th and 20th Centuries, 1959)

[2] Ibidem, Capitolo VII: I mob cittadini.

[3] Ibidem

[4] Ibidem

[5] Ibidem

[6] Ibidem

[7] Guy Debord, La società dello spettacolo, La merce come spettacolo, paragrafo 42, Massari editore 2002 (La Société du Spectacle, 1967)


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