Umanesimo in Freire
Paulo Reglus Neves Freire (Recife, 19 settembre 1921 – San Paolo, 2 maggio 1997) è stato pedagogista e filosofo della prassi.
Prassi paideutica
La filosofia autentica è sempre prassi, ovvero azione paideutica. Solo la verità libera dall’oppressione della menzogna e dell’inganno.
Nel nostro tempo, sotto il segno del capitale, è la menzogna a guidare le Accademie. Si nega la verità e si presenta la filosofia come vuoto ciarlare. Nell’immaginario comune la filosofia è diventata il vuoto sfinimento della parole che non solleva tempeste, ma diviene parte della pianificazione della conservazione.
Paulo Freire [1] è stato filosofo della prassi, o meglio dell’emancipazione paideutica, in quanto la filosofia è azione intenzionale che ha la chiarezza del suo fine: la liberazione dell’essere umano dalle tossine sociali che impediscono la sua piena fioritura. Solo la buona aratura da tenersi con la forza razionale del concetto può condurre gli oppressi, in primis, e l’umanità tutta verso la liberazione. La libertà non è cieca e bieca affermazione narcisistica e ossessione compulsiva all’accumulo; la libertà è l’eccellenza della natura umana. Per sua essenza e natura l’essere umano è un animale sociale e razionale, per cui la libertà è intersoggettività. Dove le soggettività possono fare esperienza dell’intersoggettività il logos e la razionalità etica si strutturano in un processo che consente alle soggettività di umanizzarsi nella relazione.
L’oppressione nega l’incontro, ha timore della libertà e del logos, ne pianifica la neutralizzazione. La chiacchiera e il calcolo sostituiscono il logos. Nell’impero della chiacchiera non vi è politica ma solo adattamento. Non si deve avere una forma, si deve assumere la forma che il potere ordina e desidera. Essere fluidi significa essere niente.
Le soggettività nell’intersoggettività non solo imparano a conoscersi, ma la relazione è la condizione per la creatività e per la critica filosofica con la quale sciogliere i nodi e le contraddizioni che gravano sulla possibilità di porre in atto la libertà.
La pedagogia per competenze a cui assistiamo nel nostro tempo è la chiara materializzazione dell’oppressione. Il mercato è al centro di ogni azione, pensiero e formazione, di conseguenza il soggetto è l’oggetto che deve negarsi per sopravvivere. Si richiede il quotidiano olocausto di sé per avere in cambio la sopravvivenza nell’abbondanza per pochi e la sopravvivenza nella precarietà per le moltitudini non più comunità o popoli, ma esseri generici e modellabili obbligati ad adattarsi. Solo il mercato è libero, è reso autonomo dall’alienazione generalizzata, sovrasta i sudditi minacciandoli. In qualsiasi momento la caduta è possibile, non si può che “procedere in avanti” e abituarsi alla normalità del male. L’abisso è il compagno quotidiano dei sudditi che servono silenziosamente il mercato divenuto ipostasi feroce che tutto saccheggia, in quanto si nutre delle loro sofferenze. Emanciparsi significa capacità di discernere le parole del capitalismo.
Umanitarismo e umanesimo
Paulo Freire distingue l’umanitarismo dall’umanesimo. L’umanitarismo è il male che si camuffa di bene, è il paternalismo verso gli aggiogati. Il dominio a volte, si mostra generoso con le sue false beneficienze, al fine di apparire libero da colpe e responsabilità verso lo stato di miseria in cui versano i subalterni. Si usano parole buone per commettere malvagità inaudite. Si bombarda in nome dei diritti civili; si sconquassano nazioni per esportare la democrazia; si inneggia alla libertà per mettere in catene i lavoratori e liberare le merci. L’umanesimo è altro, è filosofia della prassi, non vuole dominare o persuadere, è processo di autodeterminazione comunitaria, ci si salva solo con la parola condivisa. L’umanesimo è libertà, l’umanitarismo è oppressione:
“La pedagogia dell’oppresso, che cerca la restaurazione della intersoggettività, si presenta come pedagogia dell’Uomo. Può raggiungere questo obiettivo, perché è animata da una generosità autentica, umanistica e non umanitaristica. Al contrario, la pedagogia che, partendo dagli interessi egoistici degli oppressori (egoismo camuffato con apparenze di generosità), fa degli oppressi gli oggetti del suo umanitarismo, mantiene e incarna l’oppressione” [2].
Il capitalismo è settarismo, in quanto si sottrae al pensiero critico. Le leggi del capitalismo sono oggetto di una accettazione dogmatica che sconfina nell’adorazione religiosa. Il settarismo non solo è ripiegamento aconcettuale, ma inaugura il tempo mitico della superstizione. Il capitalismo è percepito come fosse fuori del tempo, non ha genealogia, non ha inizio e non ha fine, pertanto lo si “deve” semplicemente servire con la liturgia quotidiana del sacrificio di sé. La resilienza è la virtù del settarismo capitalistico, si deve cambiare se stessi e non le condizioni sociali ed economiche avverse.
L’essere umano non è più soggetto ma oggetto, deve pensarsi come “cosa” con l’obbligo di mutare forma:
“Il settarismo castra gli uomini, perché si nutre di fanatismo. La radicalizzazione invece è sempre creatrice, perché si nutre di criticismo. Mentre il settarismo è mitico, e perciò alienante, la radicalizzazione è critica, e per questo liberatrice. Liberatrice perché, facendo leva sulle radici delle scelte che gli uomini hanno iniziato, li impegna sempre più nello sforzo di trasformare la realtà concreta, obiettiva. Il settarismo, proprio perché mitico e irrazionale, falsifica una realtà che quindi diventa impermeabile alla trasformazione” [3].
Al settarismo bisogna contrapporre la radicalizzazione critica. Quest’ultima è rottura del tempo mitico con il concetto. Il radicalismo non è solo ricerca della verità è risemantizzazione del tempo, è capacità di porre problemi per risolverli. La filosofia è radicale perché dialogica, ma il concetto non individua solo le contraddizioni, esso è risposta comunitaria alle contraddizioni che lacerano le vite che rovinano sotto la gravità dello sfruttamento psichico e fisico.
La radicalizzazione è libertà, in quanto le soggettività sono chiamate ad essere pienamente protagoniste della storia. Responsabilità storica e prassi sono gli attributi che connotano la radicalizzazione. Al settarismo bisogna contrapporre la radicalizzazione filosofica che non conosce padrini e accompagna verso l’uscita dalla gabbia d’acciaio del settarismo.
Umanizzazione-disumanizzazione
L’essere umano non può solo umanizzarsi, ma può anche disumanizzarsi. Umanizzazione e disumanizzazione sono potenzialità dell’essere umano. All’essere umano “conviene” umanizzarsi, poiché è nella sua natura l’umanizzazione. L’oppressione per realizzare il dominio deve disumanizzare, deve rendere il soggetto un oggetto incapace di ascoltare la razionalità etica ed empatica che lo caratterizza. La disumanizzazione è lo scopo di ogni forma di oppressione. La cattiva paideutica della disumanizzazione insegna agli oppressi la grammatica del dominio, al punto che essi non concepiscono che relazioni di potere. Il dominio opera tagliando ed espungendo la consapevolezza che un altro modo di vivere non solo è possibile, ma è necessario per vivere umanamente:
“Umanizzazione e disumanizzazione, nella storia, in un contesto reale, concreto, obiettivo, sono possibilità degli uomini come esseri inconclusi e coscienti della loro inconclusione. Ma anche se tutte e due costituiscono una possibilità, solo la prima ci sembra costituire la vocazione dell’uomo. Vocazione negata, ma affermata dentro la sua stessa negazione. Vocazione negata nell’ingiustizia, nello sfruttamento, nell’oppressione, nella violenza degli oppressori. Ma affermata nell’aspirazione alla libertà, alla giustizia, alla lotta degli oppressi per il recupero della loro umanità rubata” [4].
Umanizzare significa porre in atto l’aretè dell’essere umano: senza libertà e razionalità l’essere umano è solo una pallida copia della sua natura razionale.
L’umanizzazione è processo paideutico lento e difficile, è un parto comunitario, in quanto non si nasce a nuova vita da soli. Il dominio è necrofilo, favorisce i processi di negazione di umanizzazione, in quanto gli esseri umani che nascono a nuova vita sono liberi. Da tale maieutico parto non si torna indietro, pertanto il dominio deve pianificare la pedagogia della negazione:
“Perciò la liberazione è un parto. Un parto doloroso. L’uomo che nasce da questo parto è un uomo nuovo, che diviene tale attraverso il superamento della contraddizione oppressori/oppressi, che è poi l’umanizzazione di tutti. Il superamento della contraddizione è il parto che dà alla luce questo uomo nuovo non più oppressore, non più oppresso: l’uomo che libera se stesso” [5].
L’animale non umano, è disumano perché non pensa l’agire, è incapsulato all’interno di se stesso, non distingue se stesso dall’ambiente. L’essere umane è libero, perché pone il problema del “che fare” e del suo “senso oggettivo” con i quali pensa il mondo storico per comprenderlo e renderlo conforme alla natura umana:
“Nel pensiero dialettico, azione e mondo, mondo e azione sono intimamente solidali. Ma l’azione è umana solo quando, più che un semplice fare, è un “che fare”, come quando non si stacca dalla riflessione” [6].
Liberarsi dall’oppressione
Umanizzare è compito che spetta ad ogni essere umano, è nella natura degli esseri umani umanizzarsi, pertanto nessuno è escluso dai processi paideutici di emancipazione. Non si può non constatare che il nostro tempo è il trionfo della cattiva pedagogia dell’oppressione con il tempo mitico del Paese della Cuccagna. Si disumanizza spingendo gli esseri umani fuori della storia e a sradicarsi dall’io comunitario. Il Paese della Cuccagna è la nuova gabbia d’acciaio, in cui le soggettività sono depredate del principio di realtà e di responsabilità per vivere in un eterno presente in attesa dell’abbondanza senza limiti. L’attesa passivizza e permette al modo di produzione capitalistico il saccheggio del pianeta intero.
Solo la verità e l’umanizzazione possono portare alla difficile uscita dall’attesa messianica del Paese della Cuccagna nel quale si perde se stessi e il dominio si consolida nell’oppressione. Siamo chiamati ad umanizzare e ad umanizzarci, l’essere umano solo in tal modo non perde la sua esistenza.
Ogni vero rivoluzionario deve liberare senza diventare oppressore. Se il rivoluzionario diventa oppressore è prigioniero delle grammatiche del dominio, questo è il compito più alto che attende l’umanità. I rivoluzionari non devono presentarsi come i depositari della verità, tale logica comporta il rischio di valutare il popolo come un bambino da addomesticare. Solo la relazione osmotica e comunicativa porta alla liberazione dalle forme di oppressione:
“L’umanista scientifico rivoluzionario non può, in nome della rivoluzione, avere negli oppressi degli oggetti passivi della sua analisi, dalla quale discendono prescrizioni che essi devono seguire. Ciò significherebbe cadere in uno dei miti dell’ideologia degli oppressori, quello che fa dell’ignoranza un assoluto, il che comporta l’esistenza di qualcuno che la decreta per qualcuno” [7].
L’azione rivoluzionaria non è oppressione, ma difficile processo di consapevolezza, in cui la logica del dominio è superata dalla collaborazione-nascita maieutica. Il compito che attende ogni agire paideutico è riconnettere ciò che il capitalismo presenta in modo astratto, ovvero separato, in modo da occultare la sua vera natura distruttiva e nichilista. L’Umanesimo è pensiero radicale, poiché valuta la Totalità sociale per risolvere contraddizioni e iniquità che attendono risposte non più differibili.
[1] Paulo Reglus Neves Freire (Recife, 19 settembre 1921 – San Paolo, 2 maggio 1997) è stato pedagogista e filosofo della prassi.
[2] Paulo Freire, La pedagogia degli oppressi, Ega, Torino 2004, pag. 40
[3] Ibidem, pag. 23
[4] Ibidem, pag. 28
[5] Ibidem, pag. 34
[6] Ibidem, pag. 39
[7] Ibidem, pag. 131
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