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Il grido silenzioso di J.

J. è una ragazza di 25 anni. È una dei 58 superstiti al naufragio del 6 novembre avvenuto a 30 miglia dalla costa libica. Due giorni dopo sono sbarcati a Pozzallo.

di Redazione - mercoledì 22 novembre 2017 - 5633 letture

J. è una ragazza di 25 anni. È una dei 58 superstiti al naufragio del 6 novembre avvenuto a 30 miglia dalla costa libica. Due giorni dopo sono sbarcati a Pozzallo.

Al porto la incontro insieme a tutto il team di Emergency. A fatica riesce a scendere la scaletta che dalla nave porta alla banchina: con il nostro mediatore le andiamo incontro e, sostenendola, la accompagniamo dai nostri medici per prestarle un primo soccorso.

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J. non mangia da tre giorni, il suo sguardo è spento e dai suoi occhi si possono leggere tutto il dramma che ha vissuto e la sua disperazione. J. in quel naufragio non era sola: c’era con lei la sua amata bambina di tre anni, che teneva per mano sul gommone, ma che nei momenti del naufragio in mare si è staccata ed è scomparsa dalla sua vista.

Durante la visita sto accanto a lei e le chiedo se ha male da qualche parte. Dopo avermi indicato la gola le chiedo se ha sbattuto o se ha ricevuto dei colpi e lei, con un filo di voce, mi dice: “Ho male perché ho gridato”. Le lacrime silenziosamente iniziano a rigarle il volto. La stringo forte in un abbraccio.

Mi è sembrato di sentire dal vivo le parole scritte nel libro dell’Esodo. Tremila anni dopo assistiamo a un altro esodo, che porta con sé altre storie di schiavitù, di fame, di lavori forzati, di sofferenza, di miseria, di oppressione. C’è un altro grido che sale, il passaggio di un altro mare nel quale perdono la vita gli oppressi, non ci sono carri e cavalli che inseguono ma motovedette della guardia costiera libica che sperona. A noi che salviamo i loro corpi, che curiamo le loro ferite del corpo e dell’anima, non resta che raccontare le loro storie.

Accompagniamo J. in Pronto Soccorso per un controllo più approfondito. La raggiungo dopo due giorni al centro di Pozzallo e la trovo rannicchiata sul letto, in posizione fetale, con gli occhi aperti, che fissa la porta. Mi siedo a terra e le chiedo: “Come stai oggi?”. Lei mi riconosce, mi indica la sua mano e dice: “Come ho potuto perdere mia figlia? La tenevo sempre per mano”. J. si sente persa. Mi racconta che già in Libia avrebbe voluto tornare al suo Paese, ma non le era stato possibile. Ora non vuole vivere in Italia senza la sua adorata bambina.

J. spera ancora che sua figlia sia stata salvata dalla guardia costiera libica e sia ora in Libia. Anche noi lo speriamo, oltre ogni ragionevolezza, e nel frattempo continuiamo a starle accanto, stringendole le mani e cercando di sostenerla psicologicamente.

— Alessandro, psicologo di Emergency


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