Fondazioni Universitarie: un pericolo che viene da lontano

Sono nove le Fondazioni Universitarie in Italia. Tra i soci fondatori anche Istituti bancari ed enti pubblici.
Accorgersi solo ora della progressiva privatizzazione delle università è un errore. Si tratta di un processo che fonda le sue radici in una serie di atti normativi: la legge 168 di istituzione del MURST e di fuoruscita dal sistema della pubblica istruzione; la revisione degli ordinamenti didattici; la cancellazione del diritto allo studio con l’abolizione del presalario e con la progressiva chiusura delle case dello studente; la Finanziaria del 1994 che introduce il finanziamento a budget per le Università, ne vincola la spesa per il personale al 90% dell’ammontare dei finanziamenti, sancisce l’abolizione della pianta organica nazionale e riduce quelle di Ateneo; la legge 29 del 1993 che stabilisce la privatizzazione del rapporto di lavoro dei cosiddetti “non docenti”; il primo contratto nazionale di lavoro privatizzato del 1994 -1997; le autonomie didattiche e i nuovi percorsi formativi; il regolamento attuativo dell’art.59; l’articolo 29 della finanziaria 2002. Emerge, dunque, un percorso lineare e sostanzialmente coerente con i propositi di privatizzazione delle “riforme” Ruberti, denunciati dagli studenti della “Pantera” alla fine degli anni ottanta.
Ma per quale motivo le Fondazioni?
La risposta la troviamo nell’art. 1 del DPR 254 del 2001 che individua la Fondazione come strumento di riorganizzazione del sistema universitario e di privatizzazione dell’istruzione pubblica, e definisce in dettaglio le attività e i servizi che potranno essere esternalizzati alle fondazioni; sono, praticamente, tutte quelle attualmente svolte dalle Università: dall’acquisto di beni e servizi, agli uffici tecnici, centri di calcolo, centri informatici e altri servizi messi in campo in questi anni come incubatori e acceleratori d’impresa ecc. ecc., compresa l’attività formativa (master) e inoltre i servizi per il diritto allo studio fin qui gestiti dalle Regioni.
Per la comprensione del problema può essere utile rileggere la dichiarazione del leghista Flavio Rodeghiero. “Allo stato attuale - scrive il parlamentare - tra l’ambiente universitario e quello privato non esistono stabili rapporti di collaborazione. I recenti sviluppi normativi - continua Rodeghiero - hanno individuato nelle Fondazioni Universitarie i nuovi strumenti cui le Università dovranno ricorrere per favorire la nascita ed il consolidamento di tali rapporti, nonché per ampliare le fonti del loro finanziamento.....Attraverso la Fondazione sarà possibile realizzare opere e finanziare spese che attualmente - conclude il parlamentare - sono precluse o intralciate dai regolamenti di contabilità dell’Università”. Poco convincente appare il parlamentare leghista quando afferma che “la ricerca di fonti di autofinanziamento” non significa, per lo Stato, rinunciare “al suo impegno per assicurare e garantire un completo e sufficiente alto livello di formazione universitaria”. In realtà si prepara l’uscita dello Stato dalla gestione universitaria.
E chiarificatore appare un articolo pubblicato su “Il Sole 24 Ore” nell’ottobre del 2003. “I servizi informatici, la gestione delle biblioteche - scrive Luca Perfetti di Urbino - potrebbero essere tranquillamente conferiti, con i beni ed il personale relativo, in società partecipate in misura maggioritaria dalle università. Altrettanto dicasi, sul modello della Consip spa, per gli approvvigionamenti, e sul modello di patrimonio dello Stato Spa, per la proprietà degli immobili”. Si otterrebbe, per l’articolista, un duplice scopo: dimettere i servizi non funzionali alle attività istituzionali e valorizzare gli altri.
E continua: “negli stessi termini a ‘società veicolo’ delle università potrebbero essere affidati la formazione e l’aggiornamento, diversi dalla didattica universitaria. Servizi che, in virtù del controllo dell’Università sulle società, potrebbero essere affidati direttamente e senza gara secondo gli schemi degli appalti in house”. Una valutazione errata del problema secondo la quale la libertà di ricerca e di insegnamento verrebbero salvaguardate. Al ridursi del finanziamento statale si potrebbe, infatti, essere costretti a sopperire con la ricerca di fondi privati, che in Ingegneria porterebbe ad un totale asservimento a logiche di profitto immediato (l’Università come centro di progettazione a basso costo). Non a caso già oggi l’industria italiana non investe nulla su ricerca e sviluppo che comporti un, sia pur minimo, rischio.
Un futuro a tinte fosche per il personale tecnico amministrativo. L’opzione ‘Fondazione’ comporterà il trasferimento, alla nuova struttura di diritto privato, del personale universitario, la loro fuoriuscita dal sistema contrattuale pubblico e delle Università senza garanzie né certezze di stabilità di lavoro e un primo massiccio taglio agli organici degli atenei. La già accesa competitività degli atenei diventerà una vera e propria guerra per la sopravvivenza in cui le Università più grandi e ricche potranno ‘galleggiare’ rinunciando a gran parte delle loro funzioni e mettendo nelle mani dell’impresa il potere di orientare didattica e ricerca pubblica; mentre le piccole potranno solo tentare di associarsi in Fondazioni per non affondare nella palude del degrado e della dequalificazione. Toccherà alla contrattazione sindacale individuare il contratto collettivo a cui riferire i rapporti di lavoro dei lavoratori esternalizzati alle Fondazioni; e dovrà farlo nell’intervallo che va dalla costituzione delle Fondazioni alla scadenza del contratto collettivo di lavoro di provenienza.
Il secondo ordine di problemi riguarda l’effettiva necessità di spostare questi lavoratori fuori dal contratto Università sapendo le conseguenze: perdita dei diritti e di sicurezza del lavoro, oppure trasferimento ad altro contratto collettivo privato peggiorativo dei trattamenti o, peggio ancora, a un contratto collettivo di fondazione, sul modello dei contratti delle Università private.
Il terzo ordine di problema riguarda i nuovi assunti delle fondazioni che non potranno certo essere abbandonati ai contratti di lavoro individuali o a contratti con trattamenti inferiori e/o con minori diritti di quello dell’Università. Allora perché il governo vuole fare queste operazioni? “La motivazione ufficiale - scrive l’avvocato Balsi - si basa sull’equazione ‘privato=efficiente’, dove la misura dell’efficienza è esclusivamente finanziaria. La motivazione vera più verosimile è che non si possono operare drastici tagli alle tasse solo sulla base di un recupero di efficienza dello Stato, a parità di servizi. L’unico modo- conclude Balsi - è tagliare ambiti in cui opera lo Stato, voci di bilancio tout-court e, dunque, servizi”.
Finora sono nove le Fondazioni universitarie. Tra non molto, nel gruppo dei ristretti, entrerà, anche, la Scuola Normale di Pisa. Fortunatamente ancora poche rispetto al numero di Atenei esistenti sul territorio. La ricostituzione dell’asse Moratti-Tremonti dovrebbe, però, ridare fiato e vigore ad un vecchio, e mai abbandonato, disegno filosofico.
Sono gli stessi che, il 1° marzo 2002, scrissero l’articolo, a due mani, “Ricerca, un impegno del governo” comparso su “Il Corriere della Sera”. Tra “gli obiettivi della riforma” i due rappresentanti governativi inserivano “il principio della trasformazione di strutture dell’amministrazione pubblica in società per azioni e in fondazioni. Un processo - scrivevano - che sarà avviato nei prossimi giorni, a partire dalla graduale trasformazione (dove possibile e dove voluta) delle Università in fondazioni”.
Se il feeling tra i due è ancora forte, assisteremo ad una impennata del processo di privatizzazione delle Università e alla trasformazione delle stesse in Fondazioni.
Vincenzo Greco
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