Étienne de la Boétie “Discorso sulla Servitù Volontaria” (Chiarelettere)
Può un testo del Cinquecento aiutarci a capire cosa sta accadendo oggi? E’ il caso del “Discorso sulla Servitù Volontaria”.
Bisogna rendere pubblico elogio alla Chiarelettere per la lodevole iniziativa di ricordarci due brevi testi che, pur appartenendo ad epoche lontane rispetto alla nostra, hanno il pregio di illuminarci sulle condizioni del presente. Un presente non proprio rassicurante…
Il libricino – ma quanto è potente strumento di libertà di espressione un simil formato! – contiene due brevissimi scritti. Uno del Cinquecento, ossia il “Discorso sulla Servitù Volontaria” di Étienne de la Boétie. L’altro da afferire all’Illuminismo, cioè il “Saggio sull’Arte di Strisciare” di Paul H.D. d’Holbach. Stranamente questi due testi, così si possono considerare, sono accomunati da un unico fil rouge. Comprendere come mai gli uomini cedano alle lusinghe del potere per ridursi in stato di servitù o cortigianeria. Averli resi disponibili assieme è dimostrazione di un’eccelsa iniziativa culturale.
Argomento di straordinaria contemporaneità visto quanto sta succedendo in Italia dove stiamo vivendo un’età dell’oro per particolari manifestazioni di genuflessione nei confronti dei potenti. Uno dei lasciti devastanti sul piano etico e sociale del Berlusconismo oserei aggiungere. Nel corso della lettura siamo accompagnati alla scoperta di quei meccanismi che determinano l’arroganza del potere da un lato e fenomeni di squallido servilismo dall’altro. Ciò succede allorquando la tenuta etica di una società è davvero compromessa. Quando i meccanismi che dovrebbero sovrintendere a un regolare funzionamento sono mal operanti, o peggio rimossi.
La lettura ci farà comprendere che la servitù (per Étienne de la Boétie) o la cortigianeria (per Paul H.D. d’Holbach) non nascono per caso, ma, anzi, si originano in base a un preciso scambio di favori fra il potere e chi lo subisce. E’ strumentale a chi ha il potere poiché ciò gli permette di continuare a farlo senza problemi o disturbi. Lo è anche per chi è sottomesso al potere perché mediante la servitù o la cortigianeria riesce a ritagliarsi delle occasioni di favore e prestigio. In breve, assistiamo a un do ut des dei più classici. La libertà allora cos’è? Prendere coscienza di sé ed essere risoluti nell’uscire da questo circolo vizioso.
La domanda che sorge spontanea è questa. Siamo sicuri che tutte le colpe siano del potente di turno? Non c’è interesse da parte del popolo a che ci sia una tale situazione in modo da vivacchiare di piccoli favori, ruberie, ipocrisie e malafede? Le colpe non sono del potente che ha ragione a comportarsi così, ma del popolo che permette tutto questo. In fondo cos’è questo popolo che continua a pretendere in pubblica piazza virtù e che nel privato è aduso alla servitù e alla cortigianeria? Cosa vuole, insomma, questo popolo?
Se la situazione in Italia è di emergenza etica e morale lo dobbiamo anche perché ci siamo riempiti la bocca di espressioni ipocrite come “la volontà della maggioranza”, “la società civile” o “il bene del popolo”. Espressioni che hanno nascosto nel corso degli anni un cancro etico e sociale che alla fine ha corroso il nostro paese in un vortice senza eguali di clientelismo e corruzione.
Liberiamoci dalle catene della servitù e della cortigianeria per essere realmente liberi! Étienne de la Boétie affermava "Siate risoluti a non servire più, ed eccovi liberi". Nulla quaestio…
Chi è Étienne de la Boétie?
Nasce il 1º novembre del 1530 a Sarlat, piccola città del Périgord non lontana dal capoluogo della regione, Périgueux. In giovane età rimane orfano e viene allevato dallo zio, curato di Bouilhonas, il quale lo avviò agli studi. Era, in questo periodo, vescovo di Sarlat un cugino della famiglia Medici di Firenze, Niccolò Gaddi, il quale era anche strettamente legato alle esperienze dell’Umanesimo italiano e intendeva fare della propria diocesi una sorta di Atene del Périgord. Fu attraverso questo ambiente culturale che Étienne conobbe le idee repubblicane dell’antichità classica, idee che influerenzeranno il suo pensiero maturo.
Dopo gli studi collegiali gli si prospettò l’occasione di far carriera nella magistratura; così Étienne si iscrisse alla Facoltà di Diritto dell’Università di Orléans. La Facoltà di Diritto ad Orléans offriva un punto di vista sugli studi giurisprudenziali molto originale e all’avanguardia per l’epoca; di tale punto di vista si avvantaggiò tutto il pensiero e l’attività politica di La Boétie; ebbe infatti occasione di conoscere le opere di Lorenzo Valla, Andrea Alciato, Angelo Poliziano. Ad Orléans insegnava, inoltre, Anne du Bourg il quale applicava e insegnava con estrema originalità l’interpretazione grammaticale delle espressioni giuridiche, l’analisi semantica dei termini e incoraggiava la riflessione sulla filosofia del diritto e l’esame critico dei testi giuridici.
La Boétie si laurea in giurisprudenza il 23 settembre del 1553 e, subito dopo, il 13 ottobre, ottiene la licenza reale che gli apre l’accesso alla carica di Consigliere al Parlamento di Bordeaux, carica che ottiene il 17 marzo 1554.
Tre anni dopo l’accesso alla carica di Consigliere di La Boétie, nel 1557, toccherà a un altro grande pensatore francese diventare Consigliere al Parlamento di Bordeaux: Michel de Montaigne; in questo modo i due avranno occasione di conoscersi e sviluppare quella celebre amicizia che Montaigne descriverà nei suoi Essais. I due sviluppano la loro amicizia in un clima politico estremamente travagliato: il Parlamento di Bordeaux viene infatti coinvolto nei disordini seguiti agli scontri religiosi e al diffondersi della Riforma protestante nel Midi aquitano. Inizialmente il Parlamento si schiera col lealismo realista e attraverso di esso passarono numerose condanne a morte, tra le quali, nel 1559, anche quella del vecchio professore di Étienne de La Boétie: Anne du Bourg. Etienne benché cattolico, aveva avvertito profondamente l’influenza del suo maestro.
È in questa situazione politica e sociale che, nel 1560, La Boétie si vede affidare un incarico segreto di riconciliazione religiosa presso Caterina de Medici (la quale era reggente al trono di Francia per Carlo IX, allora bambino di dieci anni). L’incarico fu organizzato sotto il pretesto di una ambasciata presso il potere centrale per discutere della paga dei magistrati della città. I motivi per cui un incarico di tale delicatezza venisse affidato ad un consigliere così giovane e, tutto sommato, abbastanza oscuro, stanno, senza ombra di dubbio, nel fatto che La Boétie fosse l’uomo giusto al momento giusto per una tale incombenza: occorre ricordare che il giovane Étienne si era intellettualmente formato sotto Nicolò Gaddi, parente della reggente, ed aveva perciò una naturale predisposizione all’essere ben visto dalla corte reale francese. Inoltre proprio il fatto che La Boétie non si fosse fatto particolarmente notare durante tutta la sua attività di Consigliere al Parlamento di Bordeaux pareva essere indice, nonostante la sua fede cattolica, di una posizione di disaccordo con la politica repressiva attuata fino a quel momento dal Parlamento nei confronti dei non cattolici.
Nell’eseguire il suo incarico, Étienne conobbe e divenne amico del cancelliere Michel de l’Hospital, l’esecutore, per così dire, materiale della politica di tolleranza religiosa e pace sostenuta da Caterina de Medici. Il cancelliere incaricò il giovane di farsi interprete della nuova linea di tolleranza, i cui punti salienti erano contenuti nell’ordinanza degli Stati Generali di Francia (Orléans il 31 gennaio 1561), presso il Parlamento di Bordeaux, che come abbiamo visto fino ad allora aveva seguito una politica filocattolica repressiva. Svolto tale compito, l’Hospital gli affidò l’incarico di mediatore di alcuni scontri religiosi avvenuti nella zona dell’ Agenais; il suo ruolo fu essenziale nel raggiungere una soluzione pacifica di compromesso sostanzialmente soddisfacente per entrambe le parti.
Ormai Étienne de La Boétie è diventato uno dei referenti di spicco della politica di conciliazione religiosa della reggente e del suo cancelliere e questo fu ancora più visibile nella pubblicazione della Mémoire sur l’Edit de Janvier, in cui La Boétie prende decisamente posizione a favore della politica di tolleranza religiosa della reggente Caterina dei Medici. In questo testo, inoltre, denuncia i pericoli connessi agli scontri religiosi e dall’altro l’inutilità e la dannosità della repressione violenta: occorre fermare gli scontri in modo non violento, pena la lacerazione dello Stato. La strada per la pacificazione nazionale consisteva, a suo avviso, nello strutturarsi di un “cattolicesimo riformato” in cui poter operare la riconciliazione tra i protestanti cattolici fedeli alla chiesa di Roma.
Nel dicembre 1562 egli è nuovamente protagonista di un tentativo di pacificazione, peraltro riuscito. Sarà questa la sua ultima azione politica rilevante e non perché la sua carriera politica fosse in discesa, anzi, stava cominciando ad assumere un ruolo politico di una qualche rilevanza; però, pochi mesi dopo, improvvisamente si ammalò. Il 14 agosto 1563 egli redasse il suo testamento nominando l’amico Montaigne, che era accorso al suo capezzale, suo esecutore testamenterio.
Il 18 agosto, Étienne de La Boétie morì tra le braccia dell’amico invocandone il nome e pronunciando la frase: «Mon frere! Me refusez-vous doncques une place?» (Fratello mio! Mi rifiutate dunque un posto?). Queste estreme parole invocanti un riconoscimento, appunto un place, nel tempio della gloria sconvolsero a tal punto il sensibile animo di Montaigne, antagonista della vana gloria, da generare in lui l’enorme riflessione filosofica che si tradurrà poi nella stesura dei celebri Essays, iniziati dieci anni dopo la morte dell’amico.
Chi è Paul H.D. d’Holbach?
Nato ad Edesheim nel Palatinato, piccolo stato tedesco ubicato sulla riva sinistra del Reno, da una famiglia di modesti borghesi, Paul Heinrich Dietrich vi ricevette il battesimo l’8 dicembre 1723, probabilmente a pochi giorni dalla nascita, la cui data esatta resta comunque inacclarata.
Più che i genitori, dei quali non si hanno che scarse notizie, per l’educazione e l’avvenire del futuro philosophe fu decisivo lo zio materno, Franz Adam von Holbach. Costui, emigrato in Francia, si era notevolmente arricchito con fortunate speculazioni finanziarie, riuscendo ad entrare nei ranghi della nobiltà nel 1720 (sotto la Reggenza di Filippo II di Borbone-Orleans, dopo la morte di Luigi XIV) e a divenire, otto anni più tardi, barone dell’Impero. Non avendo figli, alla sua morte, avvenuta nel 1753, Franz Adam Holbach lasciò gran parte della sua fortuna e anche il titolo nobiliare al nipote, a cui da tempo aveva preparato un avvenire in terra di Francia. Lo aveva infatti condotto una prima volta a Parigi già a dodici anni, successivamente ne aveva favorito la formazione iscrivendolo alla Facoltà di Diritto dell’Università di Leida.
L’ambiente olandese, protestante ma all’epoca, dopo gli accesi contrasti tra arminiani e gomaristi del secolo precedente, più tollerante, influenzò il futuro illuminista e materialista, favorendone non approccio non provincializzante e anticonformistico. A Leida Paul Heinrich, madrelingua tedesco, insieme alle pandette e al diritto romano apprese l’inglese e perfezionò la conoscenza del francese, lingua quest’ultima che finì col divenire in seguito la sua abituale. La conoscenza dell’inglese, oltreché facilitargli importanti contatti personali, gli servì per ampliare il raggio delle sue letture e per le traduzioni di Thomas Hobbes e dei deisti inglesi. Alcune amicizie con inglesi (tra cui bisogna annoverare il poeta Mark Akenside e il futuro uomo politico John Wilkes risalgono agli anni universitari trascorsi a Leida.
Dopo gli studi presso l’Università di Leida, trascorse il resto della sua vita in Francia. Divenne amico di Denis Diderot e fu uno dei maggiori collaboratori dell’Encyclopédie, alla quale contribuì, per lo più in modo anonimo, con centinaia di voci in diversi campi e discipline (la prevalente segretezza della sua partecipazione all’Encyclopédie è però soprattutto dovuta al suo contributo su molte voci riguardanti la politica e la religione). Il suo salotto fu tra i più vivaci dell’epoca e gli incontri che vi si svolgevano attiravano molti tra gli uomini di cultura più in vista del tempo.
Stabilitosi a Parigi nel 1749, dopo la fine della guerra di successione austriaca, vi ottenne la naturalizzazione francese il 10 settembre di quell’anno. Pochi mesi dopo, il 2 febbraio 1750, sposò la figlia di una cugina, anch’essa beneficata dallo zio Franz Adam Holbach e appartenente a una famiglia di ricca borghesia francese anch’essa nobilitata di recente. Il matrimonio con Basile-Geneviève d’Aine, questo il nome della sposa, contribuì a radicare ulteriormente in Francia d’Holbach. Nel 1753, come detto, aveva ufficialmente assunto il titolo di barone d’Holbach.
Per concorde testimonianza degli amici si trattò di un matrimonio d’amore, fatalmente funestato dalla morte precoce (avvenuta a soli 25 anni, il 27 agosto 1754) di Basile-Geneviève, che l’anno precedente aveva partorito al neo-barone un figlio, François-Pierre-Nicolas. Alessandro Verri, in una lettera da Parigi al fratello, raccolse voci che collegavano l’ateismo filosofico di d’Holbach a quest’esperienza luttuosa. «Mi vien detto che l’origine del sistema filosofico del Barone e del suo calore in sostenerlo venga originalmente dall’aver veduto morire la prima sua moglie […] fra gli orrori di un’eternità di tormenti… D’allora in poi è divenuto ateista furiosissimo…». Anche se un sistema filosofico non traduce mai soltanto il vissuto soggettivo del suo autore, indubbiamente l’esperienza della precoce e tribolata scomparsa della consorte può aver contribuito ad accrescere e ad alimentare i dubbi di d’Holbach circa la bontà divina e il significato del suo provvidenziale intervento nelle vicende umane.
Holbach convolerà a seconde nozze già nell’ottobre del 1756, unendosi con la sorella minore di Basile-Geneviève, Charlotte-Suzanne d’Aine, forse non solo per sfuggire alla solitudine e reagire al dolore, ma anche nell’intento, rivelatosi presto vano, di trovare una nuova compagna il più possibile simile alla moglie defunta. Dalla seconda moglie Holbach ebbe un figlio (nato nel 1757) e due figlie (nate entrambe nel 1759, l’una all’inizio e l’altra alla fine dell’anno). Pur senza mai giungere a una definitiva rottura, dalle notizie desumibili dai «pettegolezzi» di Diderot nella sua corrispondenza con Sophie Volland, il secondo matrimonio del barone conobbe momenti di gelosia, di freddezza e noncuranza.
L’unico grande amore era stato quello tributato alla prima moglie. Del resto, dalle testimonianze rimasteci, il carattere di d’Holbach non era un carattere facile. Anche nei confronti di un grande amico come Diderot fu spesso «intrattabile», facendo non di rado scontare a chi godeva della sua proverbiale ospitalità i suoi improvvisi malumori, le sue ubbie di malato immaginario, ma anche, come nota Sebastiano Timpanaro, l’amarezza che nasceva «dallo sdegno che provava nello studiare la storia umana troppo piena di dolori e misfatti, “di atrocità dell’uomo e della natura”».
A Parigi d’Holbach aveva conosciuto Friedrich Melchior Grimm, un attivo intellettuale che, tramite la sua Corréspondance Littéraire, forniva ai potenti «illuminati» d’Europa periodiche informazioni sulla vita parigina e sulle sue correnti artistiche e culturali. Era un,efficace diffusore delle idee degli enciclopedisti ma, soprattutto, aveva incontrato colui che sarebbe divenuto il suo amico più inseparabile, Denis Diderot, che lo coinvolse subito pienamente nell’impresa dell’Encyclopédie, della quale, nel 1751, era appena uscito il primo volume. Dal 1751 e fino al compimento della grande opera, d’Holbach scrisse per l’Encyclopédie centinaia di articoli contrassegnati nel secondo volume dalla sigla «– . –» e, più tardi, siglati da un solo trattino, ma anche molti altri articoli né firmati, né siglati, tuttora non tutti identificati con certezza (cfr. nelle indicazioni bibliografiche le voci Vercruyssen, Lough, Minerbi-Belgrado).
Nel primo periodo dell’Encyclopédie, ossia fino alla forzata sospensione del 1759, d’Holbach si impegnò nella redazione di voci dedicate alla chimica, alla mineralogia e alla geologia, utilizzando i suoi talenti di studioso e la sua padronanza delle lingue in un’opera di divulgazione dei risultati acquisiti, in particolare dai mineralogisti e chimici tedeschi (specialmente Georg Ernst Stahl). Se la chimica del flogisto di Stahl era destinata a ricevere un colpo mortale dalle scoperte di Lavoisier, dai suoi studi di chimica e mineralogia d’Holbach desunse comunque impulsi importanti per la strutturazione del suo materialismo, nel quale movimento ed energia risultano coessenziali alla materia al punto che non è né necessario, né possibile concepirli come «impressi» a una materia passiva e inerte da un agente spirituale o divino, come continuavano a ritenere, sia pure in modi assai diversi, cartesiani e newtoniani à la page. La materia in d’Holbach, come già in John Toland e Diderot, è di per sé «materia actuosa», ovvero materia viva e fonte essa stessa dell’energia che muove il cosmo e gli elementi che lo compongono.
Quando nel 1759, a seguito dello scandalo destato dalla pubblicazione dell’opera apertamente materialistica e antireligiosa di Claude-Adrien Helvétius De l’esprit, intervenne un generale inasprimento della censura e il potere politico revocò l’autorizzazione a pubblicare l’Encyclopédie, Diderot, abbandonato da D’Alembert, poté trovare in d’Holbach, oltreché in Louis de Jacourt un collaboratore non solo deciso a sostenerlo nella sua caparbia volontà di portare a compimento l’impresa enciclopedica, ma anche intenzionato a radicalizzarne l’orientamento materialistico e antireligioso.
Per reagire agli attacchi da cui erano investiti i philosophes sui fronti più diversi (dai pulpiti al palcoscenico, ai parlamenti, alle gazzette in mano a giansenisti e gesuiti), d’Holbach utilizzò una duplice strategia in grado di eludere l’accentuata repressione della libertà di stampa che la monarchia assolutista e le fazioni clericali erano momentaneamente riuscite ad imporre. Da un lato fece del suo «salotto» un punto di incontro, di discussione e confronto tra diplomatici e intellettuali di stanza o di passaggio a Parigi, dando inizio ai suoi famosi ricevimenti, il giovedì e la domenica all’ora di pranzo nella sua casa di rue Saint-Roch – oggi ubicata al numero 8 di rue de Moulins – o, nei periodi di villeggiatura, nel suo castello del Grandval, presso Sucy, a poche miglia da Parigi. D’altro lato scelse la strada delle pubblicazioni clandestine che permettevano di esprimere senza censure né autocensure il proprio pensiero in tutta chiarezza. Promosse dunque la pubblicazione di testi anonimi o pseudonimi, attribuendo per lo più il libro stampato clandestinamente, e con falsa indicazione di tempo e luogo di edizione, ad autori già defunti da tempo.
Se il procedimento non costituiva ovviamente una novità ed esisteva in tutta Europa, in particolare in Olanda, Inghilterra e Francia, una vera e propria tradizione di «letteratura clandestina», nuova fu la coerenza e la determinazione con cui il barone perseguì il suo intento di distruzione del pregiudizio e dell’oscurantismo, il suo proposito di riforma antireligiosa e, sul terreno politico, la sua proposta antiassolutistica. Questa strategia implicava evidentemente un sacrificio della propria fama in vita: di molte opere di d’Holbach si è saputo solo dopo la sua morte e di altre si continua a discutere se siano integralmente sue o da lui solo promosse e ispirate e redatte invece dai suoi collaboratori, gli adepti di quella che venne chiamata la coterie d’Holbach, la «consorteria» segreta del barone che vide in Jacques-André Naigeon il suo elemento più attivo, quasi, o senza quasi, fanatico nell’odio anticlericale.
Se il problema della costituzione di un corpus integrale delle opere di d’Holbach resta tuttora irrisolto, il problema attribuzionistico non merita di essere sopravvalutato. Anche se alcune sue pagine fossero state effettivamente ritoccate da Diderot o fossero state redatte da Naigeon, la sostanza della posizione ideologica di d’Holbach non cambia.
La rinuncia all’egotismo d’autore è del resto in d’Holbach scelta deliberata. Lo attesta senza ombra di dubbi la sua lettera del 27 aprile 1765, scritta nell’imminenza della ripresa della pubblicazione dell’Encyclopédie: «Le sigle in fondo agli articoli scompariranno e ciò sarà vantaggioso almeno per quelli che, come me, non possono avere che un’esistenza collettiva nella Repubblica delle Lettere».
L’anonimato fu dunque il prezzo che d’Holbach si risolse a pagare per non vedersi costretto a contrabbandare l’ateismo sotto finte professioni di fede teista. Dev’essere però sottolineato che da un certo momento in poi, quando si è concentrato sugli aspetti morali della sua filosofia, d’Holbach ha attenuato la sua professione di ateismo, arrivando addirittura a proporre ai cristiani di far propri alcuni principi etici da lui proposti.
Per la stampa e la diffusione clandestina dei «pasticcini» sfornati dalla sua «boulangérie» – così scherzosamente chiamava la «panetteria» holbachiana Diderot, in quanto sia lui, sia il barone avevano curato l’edizione di opere postume di Nicolas-Antoine Boulanger – d’Holbach poteva giovarsi dell’aiuto del fratello minore di Naigeon, «controllore dei viveri» a Sedan. Suo tramite i manoscritti inviati a tipografi olandesi, una volta stampati, venivano fatti rientrare in Francia ricorrendo agli espedienti più vari.
Se all’interno dell’amministrazione nell’ultimo periodo del regno di Luigi XV non mancavano connivenze e possibili complicità, tali comunque da permettere che l’edizione completa dell’Encyclopédie, nonostante ogni ostacolo, giungesse alla fine in porto, non bisogna dimenticare che il partito clericale manteneva intatta la sua forza, sia dai pulpiti, sia nei parlamenti, nei tribunali e sulle gazzette.
Chi veniva scoperto in possesso di libri holbachiani subiva severe condanne. Il ritrovamento di due copie del Cristianesimo svelato – il libro con cui d’Holbach aveva inaugurato la sua strategia clandestina – costò, nell’ottobre del 1768, la tortura e nove anni di carcere a un garzone di spezieria che ne aveva trattenuta una per sé e data l’altra al suo padrone, cinque anni di carcere al venditore clandestino e il manicomio a vita alla moglie di costui, ritenuta complice.
Diversa era la funzione del «salon». I ricevimenti del barone non erano conciliaboli riservati ai soli materialisti e atei. Ospitavano ambasciatori e diplomatici dei più diversi stati europei, philosophes e intellettuali di diverse tendenze, dal cristianesimo rivissuto illuministicamente sulla falsariga del «cristianesimo ragionevole» di John Locke, al deismo di stampo volterriano, all’aperto materialismo ateo. Intellettuali di prima grandezza, ma certo non seguaci di Diderot e d’Holbach, come David Hume, l’abate Ferdinando Galiani, Cesare Beccaria, Benjamin Franklin, l’abbé Raynal, Adam Smith, Laurence Sterne, David Garrick poterono discutervi i più vari argomenti scientifici, filosofici e letterari in un contesto di grande apertura ideologica.
Quando poi nel 1765 l’ Encyclopédie poté riprendere la pubblicazione e gli ultimi dieci volumi, che nel frattempo Diderot aveva continuato a predisporre per la stampa, uscirono tutti insieme, gli articoli più notevoli di d’Holbach non riguardavano più la chimica e la mineralogia, bensì i costumi di popoli extraeuropei, «selvaggi» o comunque esponenti di civiltà diverse da quelle europee-mediterranee di cui il barone prendeva in considerazione soprattutto i diversi culti e le varie concezioni religiose. Tra i lemmi più significativi attribuiti con certezza a d’Holbach si segnalano le voci «Preti», «Rappresentanti», «Teocrazia». Dalla collaborazione alla seconda fase dell’ Encyclopédie emerge con chiarezza che l’impegno «etnologico» del barone nello studio delle religioni «primitive» mirava allo scopo di cercare in esse quel connubio di «paura e ignoranza» che costituisce ai suoi occhi il fondamento ultimo di ogni concezione antropo-teocentrica, un connubio che, a suo avviso, permaneva non scalfito nelle stesse religioni dei popoli cosiddetti civili, Cristianesimo incluso.
Dal luglio al settembre del 1765 d’Holbach compì un viaggio in Inghilterra da cui trasse spunti critici che riversò nelle sue riflessioni politiche ulteriori. L’osservazione on field [sul campo] della vita politica inglese sarà ancora alla base delle «Riflessioni sul governo britannico» contenute nel Système social, una sua opera redatta otto anni più tardi. A fronte della diffusa anglomania, propagata già dal Voltaire delle Lettere inglesi, a fronte dell’esaltazione della «libera Inghilterra», paradigma di una forma equilibrata di governo contrapposto all’oppressione tipica dei regimi assolutistici prevalenti all’epoca nell’Europa continentale, d’Holbach notava che l’equilibrio politico che avrebbe dovuto garantire un’effettiva libertà era in gran parte fittizio: monarchia, nobili e clero costituivano de facto un’unica santa alleanza e i deputati della Camera bassa, non revocabili dai loro rappresentati, finivano di norma col farsi comprare o lasciarsi asservire dal blocco reazionario.
Gli ultimi anni di d’Holbach coincisero con un progressivo deterioramento delle sue condizioni di salute e con la scomparsa di coloro che, accanto a lui, erano stati i protagonisti dell’illuminismo francese. Già nel 1777 un grave attacco di gotta e di nefrite lo aveva condotto ad un passo dalla morte. Ce lo rivela Diderot che al comune amico Grimm scriveva: «A questo pericolo aggiungete la sua mezza cultura in fatto di chimica, medicina e farmacologia e un’impazienza di carattere che gli fa provare dieci farmaci in una sola mattinata». Nel 1771 era morto Helvétius, nel 1778 il patriarca Voltaire, nel 1783 D’Alembert. Nel 1784 morì anche Diderot, l’amico più caro e fedele.
D’Holbach si spense, come detto, il 21 gennaio 1789, all’età di 66 anni. La clandestinità dei suoi scritti antireligiosi fece sì che non emersero obiezioni ed ostacoli ad esequie religiose: la sua sepoltura avvenne così nella chiesa parrocchiale di Saint-Roch, costituendo l’ultimo atto del suo diuturno anonimato, quasi una forma di nicodemismo del XVIII secolo. Negli stessi giorni in Francia si stavano svolgendo le elezioni dei «rappresentanti» agli Stati generali. D’Holbach non vide il 1789 che avrebbe trasformato la Francia e l’Europa. Ma, per quanto anonimamente, il suo contributo alla causa della rivoluzione e alla proclamazione dei diritti dell’uomo, Paul-Henri Thyri, barone d’Holbach, non aveva certo mancato di recarlo.
Notizie tecniche sui testi.
Per il “Discorso…”, titolo originale dell’opera “Discours sur la Servitude Volontaire”, traduzione dal francese di Fabio Ciaramelli pubblicata su licenza di Editrice La Rosa, Torino (“Discorso sulla Servitù Volontaria” 1995);
Per il “Saggio…”, titolo originale del saggio in appendice “Essais sur l’Art de Ramper”, traduzione dal francese di Silvia Ecclesie.
- Ci sono 0 contributi al forum. - Policy sui Forum -