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Engels e la condizione operaia

Il comunismo è l’uscita dalla violenza. Rileggere Friedrich Engels e i classici del comunismo è gesto con cui ritrovarsi già nel presente nel tempo nuovo della speranza; leggere ed ascoltare le parole di Engels è uno dei modi possibili per rientrare nella nostra storia e pensare all’alternativa.

di Salvatore A. Bravo - mercoledì 15 gennaio 2025 - 393 letture

Friedrich Engels e la condizione operaia

Friedrich Engels nel 1845, a soli 24 anni, descrisse la condizione di sfruttamento della classe operaia in Inghilterra con un testo La situazione della classe operaia in Inghilterra che nel nostro tempo andrebbe riletto per la sua attualità. L’indagine empirica e razionale coniuga l’oggettività dei dati con il giudizio etico. L’indagine di Engels è oggi, ancora viva e vera, poiché lo sfruttamento generalizzato è tornato ad essere l’ordinaria normalità del nostro quotidiano. Il capitalismo neoliberale, mentre volge lo sguardo verso il transumanesimo e l’I.A (l’Intelligenza Artificiale), mostra il “suo cuore di pietra”, senza equivoci e fraintendimenti come nell’Ottocento. Lo sguardo libero dagli abbagli degli slogan ci restituisce la verità sulla condizione lavorativa e umana di tanti.

Contingenze storiche e una sinistra liberale complice consentono al capitale di mostrarsi nella sua verità regressiva e disumana senza infingimenti: lo sfruttamento è diventato un “dato di fatto” ormai naturalizzato, per cui lo si accetta al punto che, malgrado la sua evidenza, non pochi lo ignorano. Vi è un nucleo del capitalismo che resta sempre eguale nella sua lunga storia, esso resta inalterato, poiché è la sostanza che lo muove e lo nutre. La descrizione-denuncia di Engels lo mostra con rara chiarezza e, pertanto, il tempo che ci separa dal pensatore tedesco, ci permette di ritrovare ciò che nel nostro tempo il capitale in modo sempre più manifesto produce con i suoi effetti letali. Il capitalismo non è semplice sfruttamento, ma esso disumanizza lo sfruttato riducendolo a mezzo per la produzione del plusvalore. Allora come oggi i nuovi proletari vivono processi di alienazione che li offendono nella psiche come nel corpo. La violenza è il carattere dominante ed eterno del capitalismo; è la sua verità che Engels visse e denunciò , ed è ancora fra noi in forme antiche e nuove. Allo sfruttamento di tanti corrisponde una ristretta oligarchia che governa con la violenza legalizzata. La legalità scissa dalla giustizia è il volto “legale” del capitalismo che convive con forme di illegalità, sempre più diffuse e ignorate, orientate verso il “consumo di esseri umani e di risorse”:

“Già abbiamo sopra osservato come l’industria centralizzi la proprietà nelle mani di pochi. Essa esige grandi capitali con cui innalza colossali stabilimenti e perciò rovina la piccola borghesia artigiana e con cui si fa soggette le forze della natura per cacciare dai mercati i singoli operai. La divisione del lavoro, l’utilizzazione della forza-idraulica e specie del vapore e della meccanica, sono le tre grandi leve, con cui l’industria, dalla metà del secolo passato, lavora a scardinare il mondo. La piccola industria creò la classe media, la grande industria creò la classe lavoratrice e portò sul trono i pochi predestinati della classe media, ma solo per rovinarli un giorno con tanta maggior sicurezza. Frattanto, nondimeno, è un fatto non negabile e facilmente spiegabile, che la numerosa piccola classe media del «buon tempo antico» è distrutta dall’industria e disciolta da una parte in ricchi capitalisti e dall’altra in poveri lavoratori. Ma la tendenza centralizzatrice dell’industria non si ferma a ciò. La popolazione si centralizza tanto come il capitale; naturalmente, poiché nell’industria l’uomo, il lavoratore, viene soltanto considerato come una parte del capitale a cui il fabbricante per compenso, poiché il lavoratore gli si dà da sfruttare, concede interessi sotto nome di salario” [1].

La nuova schiavitù

Gli irlandesi emigravano nell’Inghilterra con il consenso della politica e delle classi dirigenti. Erano in tal maniera usati per abbassare i salari degli inglesi, i quali erano costretti a remunerazioni funzionali ai bisogni dei capitalisti. Il tenore di vita si abbassava per gli aggiogati, mentre l’aristocrazia del capitale affondava nel lusso e nel privilegio. L’emigrazione massiccia reintroduceva la schiavitù in modo informale. Migranti e operai minacciati dalla servile competizione erano costretti ad accettare condizioni di vita inaudite e insostenibili. Assistiamo oggi ad un fenomeno simile. I migranti sono accolti in nome di un falso umanesimo per essere sfruttati e per essere usati come arma di ricatto salariale contro i lavoratori indigeni. La sinistra liberal, ancora una volta, è complice dello sfruttamento indifferenziato: inneggia all’emigrazione e usa i diritti civili come sovrastruttura per celare la verità che tutti conoscono e vivono: il lavoro è sfruttamento. I tagli sociali spingono verso la povertà anche la classe media e nel contempo si afferma una nuova e perversa definizione dell’umanità: il denaro fa l’essere umano. Coloro che non hanno risorse ragguardevoli sono disumanizzati e sono offerti al cannibalismo del mercato. Ancora una volta F. Engels ci fa cogliere la verità del nostro tempo mediante lo sfruttamento spietato degli irlandesi:

“Per divenire meccanico (mechanic è in inglese ogni lavoratore occupato alla fabbricazione delle macchine) e operaio industriale, l’irlandese dovrebbe in primo luogo accettare la civiltà inglese ed i costumi inglesi, in breve, divenire inglese. Ma dove si tratta di un lavoro semplice e poco esatto, che dipende più dalla forza che dall’abilità, in tale caso l’irlandese è capace quanto l’inglese. Perciò pure questi rami di lavoro sono abbandonati dagli inglesi; i tessitori a mano, i manuali, i facchini, gli artigiani, sono nella massima parte irlandesi, e l’affollarsi di questa nazione ha contribuito moltissimo all’abbassamento del salario e della classe lavoratrice. E se anche gli irlandesi, penetrati nelle altre branche di lavoro, dovessero divenire più civilizzati, rimarrebbero tuttavia sempre abbastanza dipendenti dalla vecchia economia per influire — accanto all’influenza che sarebbe prodotta dalla vicinanza degli irlandesi — in modo degradante sui compagni di lavoro inglesi. Poichè, se quasi in ogni grande città un quinto od un quarto degli operai sono irlandesi o figli di irlandesi cresciuti nella sporcizia irlandese, non farà meraviglia che la vita dell’intera classe operaia, i suoi costumi, la condizione intellettuale e morale, tutto il suo carattere abbiano preso una parte importante di questa natura irlandese; si potrà intendere come la condizione del lavoratore inglese deplorevole per l’industria moderna e per le sue conseguenze, sia divenuta ancor più degradante” [2].

La sostanza storica del capitalismo

Il sistema si regge e sopravvive, poiché la competizione e la lotta di tutti contro tutti, è lo strumento egemonico che le classi dirigenti usano non solo per favorire la produzione, ma anche per frammentare i sussunti nella disperazione competitiva. Se pensiamo al nostro tempo il linguaggio come i comportamenti rientrano nella categoria della selezione continua. L’odio è diventato il sentimento che brucia l’Occidente. Si odia il collega come il migrante; si compete con il vicino di casa e con il compagno di sempre. Il sistema capitalistico lavora per neutralizzare sul nascere la coscienza di classe e ogni forma di solidarietà e di pensiero. La guerra sociale è la normalità del male dell’occidente. Il saccheggio reciproco è l’ovvio non pensato e non compreso che infetta le relazioni:

“Da ciò ne viene pure, che la guerra sociale, la guerra di tutti contro tutti, è qui apertamente dichiarata. Come il singolo Stirner, le persone si considerano a vicenda come soggetti da usare, ognuno sfrutta l’altro, e ne viene che i più forti calpestino i più deboli, e che i pochi potenti, cioè i capitalisti, attirino tutto a sè, mentre ai molti deboli resta appena da vivere. E ciò che vale per Londra vale anche per Manchester. Birmingham e Leeds, vale per tutte le grandi città. Dappertutto barbara indifferenza, durezza egoistica da una parte e miseria senza nome dall’altra dapertutto guerra sociale, la casa d’ognuno in istato d’assedio, dapertutto reciproco saccheggio sotto la protezione della legge, e tutto ciò così impunemente, così manifestamente, che ci si spaventa innanzi alle conseguenze del nostro stato sociale, come appare qui scopertamente e ci si meraviglia solo che continui ancora tutta questa vita folle. Siccome in questa guerra sociale, il capitale, il possesso diretto od indiretto dei mezzi di sussistenza, sono l’arma con la quale si lotta, è evidente che tutti gli svantaggi di un tale stato ricadono sul povero. Nessuno si cura di lui; spinto nel confuso turbinio, egli si deve aprire una via come può. Se è così fortunato da trovar lavoro, cioè se la borghesia gli fa la grazia di permettergli di arricchirla, riceverà un salario che gli permetterà appena di tener l’anima unita al corpo; se non trova lavoro, può rubare se non teme la polizia o soffrire la fame, ed anche in questo caso la polizia curerà che morendo d’inedia non disturbi troppo la borghesia. Durante il mio soggiorno in Inghilterra, da venti o trenta persone sono morte precisamente di fame nelle circostanze più rivoltanti, e alla visita dei cadaveri di raro si trovò un giuri che avesse il coraggio di constatar ciò in modo chiaro. Le testimonianze potevano essere le più decisive, la borghesia, tra la quale si sceglieva il giuri, trovava una scappatoia per poter sfuggire al terribile verdetto «morto di fame». In tali casi la borghesia non può dire la verità; essa pronuncerebbe la propria condanna. Inoltre molti muoiono di fame indirettamente — molto più direttamente — poiché la mancanza di sufficienti mezzi di sussistenza produce malattie mortali, poiché la detta mancanza produce in coloro che ne sono vittime un indebolimento tale del corpo, che malattie le quali per altri sarebbero leggere, divengono per essi gravissime e mortali. Gli operai inglesi chiamano ciò un omicidio sociale ed accusano la società intiera di commettere tale delitto. Hanno essi torto?” [3].

La descrizione della concorrenza effettuata da F. Engels non può lasciare indifferenti, in essa echeggia la solitudine senza speranza del nostro presente. I grandi proclami con annesse campagne pubblicitarie contro la violenza servono a celare soltanto l’ordinaria brutalità del capitalismo. La violenza è lo spirito del capitalismo, essa è la sua sostanza storica senza la quale il capitalismo non esisterebbe. Il capitalismo non è riformabile, vi sono modulazioni diverse della violenza, ma essa rimane e permane sempre, perché è la sua perversa natura:

“La concorrenza è l’espressione più completa della guerra dominante di tutti contro tutti nella moderna società borghese. Questa guerra, guerra per la vita, per l’esistenza, per ogni cosa, quindi in caso di necessità una guerra per la vita e la morte, non esiste soltanto tra le classi diverse della società, ma inoltre tra i singoli individui di queste classi; ognuno è sulla via dell’altro ed ognuno cerca quindi di soppiantare tutti coloro che sono sul suo cammino e di porsi al loro posto. I lavoratori si fanno concorrenza tra loro, i borghesi fanno altrettanto. I tessitori meccanici concorrono contro i tessitori a mano, il tessitore occupato o mal pagato contro quello occupato o meglio pagato e cerca di soppiantarlo. Ma questa concorrenza dei lavoratori, degli uni contro gli altri, è per essi il lato più triste delle odierne condizioni, l’arma più acuta contro il proletariato nelle mani della borghesia. Quindi gli sforzi dei lavoratori per sopprimere con le associazioni questa concorrenza; quindi il furore della borghesia contro queste associazioni ed il suo trionfo per ogni sconfitta toccata ad esse. Il proletario è senza appoggio: egli non può vivere da sé stesso un solo giorno. La borghesia si appropria il monopolio di tutti i mezzi di sussistenza nel significato più esteso della parola. Il proletario può solo ricevere quello che gli abbisogna da questa borghesia, la quale per la forza dello stato viene protetta nel suo monopolio. Il proletario è adunque legalmente e di fatto lo schiavo della borghesia; essa può disporre della vita e della morte di lui. Gli offre i mezzi d’esistenza, ma per un equivalente, per suo lavoro; gli lascia ancora persino, l’apparenza, come se egli trattasse per sua libera volontà, con consenso libero, senza restrizioni, come se l’uomo maggiorenne concludesse con essa un contratto” [4].

Il comunismo è l’uscita dalla violenza. Rileggere Friedrich Engels e i classici del comunismo è gesto con cui ritrovarsi già nel presente nel tempo nuovo della speranza; leggere ed ascoltare le parole di Engels è uno dei modi possibili per rientrare nella nostra storia e pensare all’alternativa. Il capitalismo è fenomeno storico, tramonterà, ma sta a noi dare la direzione verso cui riorientarci. Ciascuno di noi può contribuire a tenere accesa la fiaccola del comunismo e della critica sociale. Non ci sono solo i gesti eroici, ma vi è anche l’impegno quotidiano, affinché “il male” non conquisti ogni spazio al punto da oscurare la prassi della speranza. In un momento critico della nostra storia, in cui il neoliberismo sembra aver vinto e omologato ogni prospettiva politica, sta a noi dimostrare che la “sinistra comunista c’è”.

[1] Friedrich Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, tradotto direttamente dall’originale tedesco da Vittorio Piva (†1907) e trascritto da Leonardo Maria Battisti, giugno 2018, II. Il proletariato industriale.

[2] Ibidem, V, L’immigrazione irlandese

[3] Ibidem, III, Le grandi città

[4] Ibidem, IV, La concorrenza


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