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Dizionario del terzo millennio

Quello che ancora ci ostiniamo a chiamare "potere" dovremmo cominciare a chiamarlo follia - come fece a suo tempo Erasmo da Rotterdam.

di Pina La Villa - mercoledì 21 aprile 2004 - 5115 letture

16 Aprile 2004

Potere: il significato della parola è usurato e quindi ambiguo, come avvine per tanti altri termini. Togliendo qualche incrostazione si possono forse scoprire alcune cose interessanti.

Potere è arrivato a significare, nel senso comune, arbitrio, comando, affermazione sugli altri.

Ma "potere" è una parola astratta che nasce dall’infinito del verbo che indica invece la possibilità che abbiamo, in una data situazione, di fare qualcosa. La domanda è : cosa posso fare? Indica, paradossalmente, un grande rispetto per se stessi, per gli altri, per le cose. Non cosa VOGLIO O DEBBO, ma, realisticamente, concretamente e rispettosamente, cosa POSSO fare.

Divagazione. Lo yoga, per esempio, insegna cosa possiamo fare col nostro corpo, nel rispetto dei suoi tempi, dei suoi ritmi, della sua malattie e dei suoi difetti, spesso causati da disattenzione nostra nei suoi confronti.

Anche tornando al significato politico della parola "potere" immaginiamo di mantenere questo significato. Immaginiamo il "potere" che fa solo quanto è in grado di fare - secondo la costituzione, secondo le regole, secondo i contrappesi previsti. E spinge in avanti, cioé spinge la società a realizzare le proprie potenzialità, ascoltando tutti i segnali, stando attento alle situazioni di sofferenza, per vedere appunto cosa "può" fare per superarle. Il "potere" non ha quindi, o non dovrebbe avere, nulla a che fare né con l’arbitrio, né col comando, né tantomeno con l’imposizione e la sopraffazione.

Quello che ancora ci ostiniamo a chiamare "potere" dovremmo quindi cominciare a chiamarlo follia, stupidità, arroganza - come fece a suo tempo Erasmo da Rotterdam. E quando sentiamo le frasi "un uomo di potere", "gli uomini potenti", "ha il potere di cambiare le cose", "ha il potere di dare la felicità" etc. etc. dobbiamo solo provare a sostituire alla parola potere la parola arroganza. (il significato della parola arroganza alla prossima puntata).

Tempo fa, su "Sofia", una rivista di filosofia fatta a Verona e ispirata al pensiero della differenza, un dibattito su potere e autorevolezza in cui le pensatrici mostravano tutto il loro malumore nei confronti del potere, cercando di sostituirlo col termine "autorevolezza". Ma non fecero che camuffare con una parola nuova la sostanza pressoché identica del concetto. Nell’autorevolezza vedevano la figura materna, il cui "potere" consiste nella cura e che non vuole gli sia riconosciuto il comando, la responsabilità delle azioni che fa, delle decisioni che prende, ma solo l’autorevolezza, cioé in pratica quelle capacità manipolatorie che da secoli sono state considerate appannaggio delle donne. In pratica dalla padella alla brace. Paterno o materno il potere inteso come manipolazione è sempre deleterio.

17 aprile 2004

"Il team per la rielezione di Bush ha raccolto 140 milioni di dollari. Gli stati Uniti in vendita al miglior offerente" (Time, Robert Fedorchek)

18 aprile 2004

La ragazza si sottrae al suo sguardo e si allontana. La vede da dietro, mentre si avvia verso lo spogliatoio. Indossa il karategi bianco con la cintura verde-arancio, nere le pantofole, neri i capelli, una massa di lunghi capelli ricci, raccolti in parte con una molletta azzurra sulla nuca, che lascia però il resto dei capelli allargati sulle spalle. Lo sfondo è quello di un corridoio, con quadri alle pareti. A sinistra una pianta, una panca, la macchinetta del caffé e delle bibite, un cestino dei rifiuti, bianco e acciaio. A destra una porta in legno, e una specie di lastra di plastica ondulata, un pezzo di un’altra porta. La ragazza ha in mano due fogli, uno bianco e uno rosa, contengono i risultati della prova appena sostenuta, per passare a cintura verde. C’è riuscita? E come? La foto, così com’è, riesce a dirlo?

Questa foto ha bisogno delle altre scattate poco prima, durante l’esame? Forse si, ma probabilmente no. I fogli e la direzione del cammino della ragazza, verso lo spazio pubblico di quello che si vede essere un luogo pubblico, fanno già capire che l’evento è successo e l’evento non può essere altro che una prova di karate, una gara o un saggio. La foto presuppone le altre , e può indurne a ricostruire la storia anche qualcuno che non le ha viste. Potrebbe immaginare altre figure come quella della ragazza, altre ragazze e altri ragazzi, che combattono. Potrebbe immaginare una vittoria? Forse si.

19 aprile 2004, ore 8.19

Smettere di fumare, amarsi un po’. Lo dice Fabio Volo, nel libro "E’ una vita che ti aspetto", I Miti Mondadori 2003. Francesco, voce narrante, protagonista del libro, impegnato in un proprio percorso di crescita, raccontato in maniera divertente ma non senza profondità, parla col suo medico, Giovanni. E’ ormai a buon punto sulla strada della liberazione personale, della conquista di se stesso. La nuova tappa che il medico gli consiglia è quella di smettere di fumare, sia le canne che le sigarette. Dice il medico a Francesco: "Ricordati che fumi perché non sai cosa vuol dire fumare. Perché non conosci niente del tuo corpo e nemmeno quanto il tuo corpo influenzi il tuo pensiero, il tuo sentimento, il tuo modo di percepire il mondo. Non è per paura di un tumore che devi smettere, ma per amore della vita. Per una serie di cose invisibili che perdi e non sai di perdere".(p. 131)

20 aprile 2004

Nube densa e persistente che avvolge la testa, dall’interno, annebbia la vista, dà la sensazione del capogiro continuo. Impossibilità di concentrarsi, ogni rumore, ogni parola, ogni pensiero diventa pesante, fastidioso, e come essere sul punto di capire, di pensare, di ascoltare e poi non farcela: difficile togliere via il filtro della nube densa. Come un velo che scherma tutto. Potrebbe essere il fumo, l’alcool, i disturbi della cervicale. Ma volendo fare un po’ di letteratura potrebbe essere anche il rifiuto del mondo, della responsabilità di ascoltarlo, questo frastuono confuso e violento, continuo.

21 aprile 2004

Non avrei mai creduto di provare disagio a vedere un telegiornale insieme ai miei figli. Un tempo, dicono, erano i film con scene romantiche o di sesso a dare questa sensazione. Io l’ho provata sentendo alcuni servizi giornalistici di Raidue o la retorica che sta accompagnando la vicenda degli ostaggi italiani in Iraq.


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