Sei all'interno di >> :.: Primo Piano | Movimento |

Chiapas 10 anni dopo

Sono tornato in Chiapas dopo una assenza di tre anni dedicati a Porto Alegre e al Movimento. Sono tornato per il 1°Gennaio 2004, cioè per i 10 anni dall’ insurrezione zapatista del 1994 che tutti consideriamo l’inizio del Movimento stesso...

di Sergej - mercoledì 10 marzo 2004 - 4507 letture

di Emilio Molinari

Sono tornato in Chiapas dopo una assenza di tre anni dedicati a Porto Alegre e al Movimento. Sono tornato per il 1°Gennaio 2004, cioè per i 10 anni dall’ insurrezione zapatista del 1994 che tutti consideriamo l’inizio del Movimento stesso. Sono tornato con il ricordo di quel lontano 1994 quando in quattro, primi ed unici parlamentari, (il sottoscritto, Giovanni Russo Spena, Nichi Vendola, Claudio Fava) sbarcammo a S. Cristobal de las Casas occupata dall’esercito messicano e con la memoria dei successivi viaggi da osservatore di un laboratorio di nuove idee: la violenza, la lotta armata, la critica al potere, l’uniformità dei pensieri unici (capitalista o comunista), l’ identità, la fine del soggetto unico rivoluzionario, il territorio e i municipi autonomi, i progetti di cooperazione, un impianto politico vivo che mi ha permesso e con me a molti compagni, di ritrovare le ragioni di una nuova militanza, di cogliere con anticipo i mutamenti di fase che portarono a Seattle e a Porto Alegre. Un ritorno non celebrativo e nemmeno teso a ripercorrere o rinverdire la storia e le idee zapatiste. Queste le conosco bene, sono ormai nel pensiero politico del Movimento, nella storia, nei libri, nel mito collettivo. No! Sono tornato con Michele Nardelli, un altro inquieto viaggiatore di strade balcaniche, mossi entrambi dal bisogno di vedere oggi, nei fatti, nella realtà dei villaggi indigeni cosa è diventata l’esperienza Zapatista, come si sono concretizzati i "loro" e "nostri" assunti, in che contesto materiale si collocano le nuove prospettive delle Caracoles, cosa possiamo fare per loro e cosa possiamo raccogliere da loro, noi, come Movimento.

Ma, molto probabilmente, sono tornato per capire cose che da tempo non capisco, alle quali nessuno finora ha saputo darmi risposte convincenti: Perché dopo aver dato l’input decisivo al Movimento, gli zapatisti (ma anche la sinistra messicana) sono sostanzialmente spariti dalla scena internazionale? Perché si sono chiusi nella dimensione locale, estraniandosi dalla dinamica costitutiva dei Forum Sociali Mondiali che hanno catalizzato migliaia di giovani e messo in moto forze, intelligenze e passioni sorprendenti? Quanto questa estraneità al Movimento ha favorito o ha invece limitato la crescita dello Zapatismo, e anche della sinistra messicana (pensiamo al Brasile e a Lula)? Quanto il volontario "silenzio della selva" ha favorito o abbia invece confinato la stessa la stessa questione locale? Perché dopo tanto silenzio, mentre si sviluppavano movimenti e Forum Mondiali, Marcos riprende a parlare al mondo?.. ma della questione basca e del magistrato Garzon? Quale è il senso di questo, per me clamoroso ed inspiegabile, scollamento dalla sensibilità, dalla realtà del mondo e dall’ Europa in particolare? Perché sui muri di S. Cristobal dominano le scritte dell’Eta e di Batasuna? Che senso ha tracciare paralleli tra la condizione indigena nel Chiapas e quella dei baschi in Europa? Come si può pensare alla questione basca come la grande ferita aperta dell’Europa, quando sono ancora accesi i fuochi e i dolori delle guerre balcaniche e la sponda sud del mediterraneo rischia di incendiare il mondo? Con quali occhi e quali orecchie la "selva zapatista" ha guardato e sentito in questi ultimi anni, ciò che succedeva nel mondo e in Europa?.... Chi sono stati gli interlocutori e gli informatori privilegiati degli zapatisti? Non c’è stato per caso, un monopolio esclusivo dell’interlocuzione e della rappresentanza nel mondo, da parte dell’area della cosiddetta Disobbedienza? E questa unica rappresentanza non è forse stata limitante sia per presentare lo zapatismo nel mondo, sia per ricevere dal mondo informazioni adeguate sulla realtà ed infine sono esistite, per movimenti diversi dalla Disobbedienza, le possibilità e le modalità di poter discutere con gli zapatisti... di confrontarsi, di dire, comunicare, e non solo ascoltare?

Sono solo domande, certamente presuntuose.Che però, io mi pongo da tanto tempo. E dopo 10 anni di rispettoso impegno per il Chiapas forse. Basta, mi fermo qui, perché una cosa va detta subito. Dieci anni sono tanti, tantissimi se trascorsi in resistenza, nelle condizioni di miseria, di militarizzazione, di aggressioni paramilitari e di ricatto economico, di isolamento, in cui hanno vissuto e vivono tutt’ora i "poblitos" indigeni del Chiapas. Dieci anni sono tanti e siccome gli Zapatisti sono ancora li, vivi, attivi, attaccati ai loro territori, ai loro villaggi, capaci di progettare percorsi, mobilitare migliaia di persone e comunicare emozioni, dice padre Pablo Romo: "è già di per sé, una vittoria, un miracolo". È verissimo, eppure sento che non basta.

Giro nei villaggi e nei municipi, ascolto i dirigenti delle giunte del buon governo, parlo con compagne e compagni che da anni impegnano parte della loro vita lavorando ad Oventic o alla Realidad ed emerge una realtà molto complessa e molto contraddittoria. Il governo autonomo delle Caracoles attrae. Nelle comunità il modo zapatista di distribuire il poco che si produce, di fare scuola, sanità o di amministrare "giustizia e onore", è un esempio di onestà ed equità che dà risultati, sposta consenso, conquista anche i non zapatisti. E questo è un elemento forte, visibile. D’altro canto però, dopo 10 anni, la situazione nei territori zapatisti è durissima. I tempi delle Caracoles sono lunghi, il formarsi di una economia alternativa è incerto, il costituirsi di un "personale" politico, civile ed amministrativo indigeno ed autonomo, richiede tempi altrettanto lunghi.

Mentre la povertà incalza ed è sempre più pesante, portata con grande dignità, ma pesante, così come insopportabilmente pesante e il ricatto dei finanziamenti governativi, accompagnato dalle minacce dei paramilitari, dei militanti dei partiti ufficiali e dall’ormai onnipresente esercito, stabilmente e organicamente insediato nel Chiapas, non solo in funzione antizapatista. Alla fine, l’unità della comunità si logora, si divide, molti accettano i soldi del governo e si staccano dallo zapatismo, si rendono neutrali, altri, spesso i giovani, si allontanano dai villaggi, vanno altrove a lavorare, alcuni cercano addirittura di emigrare negli USA. Così, mi risulta troppo facile per noi disquisire sul valore universale delle Caracoles, delle giunte del buon governo, del rifiuto dei finanziamenti governativi e mi sembra una operazione tutta intellettuale il teorizzare di territori liberati, di spazi autogovernati, di comunità e municipi autonomi ( o in altri contesti di "nuovi municipi" ecc.), c’è il rischio che ci inventiamo semplicemente un linguaggio, delle rappresentazioni virtuali, senza mai misurarsi con le sfide reali. E quindi mi si accumulano ancor più stringenti domande: come si possono realizzare le ipotesi politiche di cui tanto parliamo e scriviamo, proprio dove le stanno sperimentando? Quale "economia autonoma" può sorreggere la vita della gente nei villaggi zapatisti? Può vivere una comunità producendo solo il proprio fabbisogno?

Opzioni autonome di questa natura implicano ripiegamenti nel locale o invece chiedono più forti proiezioni internazionali e collocazioni organiche dentro al Movimento Alternativo Mondiale? Far vivere una simile esperienza è una sfida rivolta anche al Movimento? I cambiamenti sono rapidi e consistenti, mancavo dal Messico da tre anni e l ’ho trovato profondamente cambiato, più americano, più uniforme, ho la sensazione che il Nafta abbia lavorato in profondità nelle coscienze di molti giovani messicani, il cui sogno è andare negli USA e parlare inglese. La nostra tensione attorno al Chiapas è calata d’intensità e oggi questa realtà mi sembra più lontana di prima.

Il presidente Fox e il governatore Salazar non sono dei fascisti, non sono nemmeno dei Berlusconi, sono solo chiusi nella gabbia neoliberista, hanno perciò tradito ogni aspettativa, lasciando marcire le cose, così: i paramilitari non sono stati disarmati, l’esercito non è stato ritirato ma reso stabile, lo sfruttamento delle risorse della selva, come il legname, si è sviluppato senza ostacoli da parte delle autorità ed incentivato dalla miseria, il danaro pubblico è stato profuso al solo scopo di rompere le solidarietà delle comunità. E intanto sullo sfondo prende corpo la vera prospettiva che si riserva al Chiapas, agli indigeni e ai loro territori. La prospettiva del Plan Puebla Panama, ovvero quella di diventare una zona militarizzata e industrializzata senza vincoli fiscali, sindacali, ambientali, un area di libero profitto, in grado di fermare in Messico la migrazione del sud america verso gli USA: una maquilladora.

Fermare la gente con le armi e con l’offerta di un lavoro in luogo, sottopagato, senza tutele e diritti sindacali ed umani, una zona nella quale si può disporre di ingenti risorse di acqua, di petrolio, legname, di strade e manodopera locale per le industrie tessili e di assemblaggio. Una zona dove già si sostiene dovrà vincere la concorrenza delle maquilladoras cinesi. Dove le abili mani delle tessitrici indie potranno trovare finalmente un moderno impiego, dove con il lavoro si realizzerà l’ integrazione e l’emancipazione, liberando finalmente i territori per lo sfruttamento delle ricchezze naturali, nell’interesse superiore dello sviluppo. Una soluzione "definitiva" per i Maya del Chiapas e del Guatemala Basta guardare. E vedrete che questa prospettiva, terribile nella conclusione, è già in atto e si prefigura come una vera e propria seconda colonizzazione, con la rapina dei territori indiani e l’immissione di questi ultimi in forme di lavoro schiavizzato. E guardate che questa non è una soluzione perseguita dalla sola destra messicana o dagli USA, è perseguita anche da settori di una certa sinistra, da una certa idea di sviluppo e di progresso, è soprattutto praticata dall’Unione Europea in virtù dei trattati commerciali con il Messico e dagli accordi intrapresi dai governi dei maggiori paesi europei. Tutto ciò riguarda anche noi. Ecco, in questo mie considerazioni sul Chiapas ho continuato a porre più che altro delle domande, sopratutto al movimento e agli zapatisti, ma anche a quanti hanno operato in questi anni in Chiapas senza visibilità, domande alle quali non posso e non voglio dare risposte se non appunto a questa ultima.

Sì, cosa succederà al Chiapas, alle Caracoles, ai municipi Autonomi e allo zapatismo è cosa che riguarda anche noi, riguarda tutto il movimento in tutte le sue espressioni. Se questo esperimento concreto, non teorico, di autogoverno dei territori dovesse fallire sotto il peso di mille difficoltà, sarebbe una sconfitta per tutto il Movimento dei Movimenti. Da molto tempo sono convinto che questo nostro Movimento è in crisi, soffre di viscerale autoreferenzialità in alcune sue componenti, di protagonismo, soffre di incapacità nel formulare obbiettivi ed articolarsi sul territorio, ha un estremo bisogno di aprire delle vertenze globali e locali, concrete, ha bisogno di ottenere dei risultati positivi visibili, ha bisogno di sperimentare da qualche parte del mondo la fattibilità delle cose che dice, sostiene e teorizza.

Ha bisogno di provare a far convergere tutte le forze di cui dispone, le diverse esperienze e componenti associative, cooperative, politiche, istituzionali. Moltiplicare le sinergie, metterle alla prova su di una esperienza vera, per esaltarne gli sviluppi e le potenzialità, per imparare, per insegnare, per affermare un modello di partecipazione. come una Caracoles collettiva. Ecco, voglio fare degli esempi: la gestione dell’acqua e dei servizi idrici locali, ha questa valenza e ha questo grado di maturazione. Ma anche il Chiapas se si pensa, per la dimensione dell’esperienza, per la dimensione degli investimenti, è alla portata dell’insieme delle forze del Movimento, se solo quest’ultimo decidesse di far convergere gli sforzi e le esperienze di tutti. Perché? Perché "Lì" è in atto un esperimento nostro, "Lì" si può vincere, "Lì" possiamo farcela assieme: associazioni pacifiste e di solidarietà, municipi gemellati. cooperazione decentrata, associazioni del commercio equo solidale, microcredito, banche etiche, ambientalismo ecc.

"Lì" è un nostro banco di prova nel quale non solo possiamo contribuire a mutare quella realtà, ma mutiamo noi stessi e la nostra realtà delle nostre comunità. Non so cosa pensano gli zapatisti di tutto ciò, anche perché in 10 anni non ho ancora capito come ci si può confrontare con loro. E non so nemmeno quali volontà sinergiche è in grado di mettere in campo questo nostro Movimento, so che il Chiapas ci coinvolge tutti e che può ancora, come 10 anni fa, darci nuovi stimoli ed impulso per superare difficoltà che stiamo attraversando.


L’articolo di Emilio Molinari è apparso su: GRANELLO DI SABBIA (n°123), Bollettino elettronico settimanale di ATTAC, Giovedì 26 febbraio 2004


- Ci sono 0 contributi al forum. - Policy sui Forum -