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Attualità e inattuabilità dell’azione politica di Pio La Torre

«Se si vuole assestare un colpo decisivo alla potenza della mafia occorre debellare il sistema di potere clientelare attraverso lo sviluppo della democrazia, promuovendo la smobilitazione (sic!) unitaria dei lavoratori, l’autogoverno popolare e la partecipazione dei cittadini al funzionamento delle istituzioni democratiche».

di francoplat - mercoledì 4 maggio 2022 - 5823 letture

Era il 1976 quando questa osservazione veniva vergata sulla “relazione di minoranza” della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia, firmata dai deputati La Torre, Benedetti, Malagugini, Terranova e dai senatori Adamoli, Chiaromonte, Lugnano e Maffioletti. I firmatari di tale documento operavano un distinguo rispetto l’analisi, a loro giudizio, più morbida presente nella relazione di maggioranza del collegio presieduto dal senatore democristiano Luigi Carraro. La morbidezza, per così dire, era relativa al mancato riconoscimento della genesi della mafia come fenomeno strettamente correlato alle classi dirigenti. «Tale compenetrazione – si legge nella relazione di minoranza – è avvenuta storicamente come risultato di un incontro che è stato ricercato e voluto da tutte e due le parti (mafia e potere politico). (….) La mafia è dunque un fenomeno di classi dirigenti».

Non è forse retorico osservare come, circa cinquant’anni fa, fosse già chiaro agli analisti più coraggiosi, o meno compromessi con le consorterie mafiose, la vicenda di lunga durata dell’esperienza di Cosa nostra in Sicilia, della sua perdurante vitalità garantita dalle strette connessioni tra ceto dirigente e associazioni criminali. Così come era chiaro a quegli stessi analisti che la risposta possibile non potesse che giungere da un forte richiamo alla sollevazione democratica, al recupero del governo dal basso, dell’autogoverno popolare. Parole che potevano risultare adeguate a quel contesto storico, che suonavano intelligibili, per quanto intorbidite dalle tensioni politiche e sociali degli anni Settanta, ma che oggi appaiono come sbiadite, lontane, sfocate; si potrebbe dire, almeno per qualcuno, nostalgiche. Parole che dovrebbero essere, invece, ricollocate al centro del dibattito politico in questa graduale implosione delle democrazie. Di quella italiana, di sicuro.

Pio La Torre era, come si è visto, uno dei firmatari di quel documento. Lo scorso 30 aprile si è celebrato il quarantennale del suo omicidio insieme al compagno di partito Rosario Di Salvo, a Palermo, mentre stavano per raggiungere la sede del PCI di Via Turba. Assassinio per il quale, nel 2007, la Corte d’Assise di Palermo ha emesso l’ultima di una serie di sentenze che ha individuato in Giuseppe Lucchese, Nino Madonia, Salvatore Cucuzza e Pino Greco gli esecutori materiali e in Totò Riina, Bernardo Provenzano, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Antonino Geraci i mandanti dell’omicidio.

Ricordare Pio La Torre all’interno del martirologio dell’antimafia nazionale può apparire come l’ennesima, stanca e rituale commemorazione del passato; un altro grano del rosario, una litania nota e mandata a memoria, automatica. Eppure, la sua vicenda pubblica, tratteggiata con affetto dal figlio Franco ne “L’antimafia tradita. Riti e maschere di una rivoluzione mancata” (Zolfo editore, 2021), merita di essere rispolverata, disancorata dalla tragica fine in sé e rivisitata come esperienza umana attuale, attualissima.

Nato nel 1927 in una borgata palermitana, Altarello di Baida, da una famiglia di contadini poveri, Pio La Torre matura presto la passione per la politica, orientata dall’interesse per i bisogni delle frange più deboli, quelle contadine, e, più in generale, per la giustizia sociale. Iscrittosi al Partito comunista italiano nell’autunno del 1945, partecipa alla stagione delle lotte contadine nella Sicilia del secondo dopoguerra, subendo anche un arresto che lo tiene in prigione per oltre un anno. Negli anni Cinquanta e Sessanta, somma all’impegno sindacale quello politico locale – dalla segreteria regionale della Cgil all’assemblea regionale siciliana per il PCI – sino all’elezione in Parlamento nel 1972, dove entra a far parte delle Commissioni Bilancio e programmazione e Agricoltura e Foreste, della Commissione parlamentare per l’esercizio dei poteri di controllo sulla programmazione e sull’attuazione degli interventi ordinari e straordinari nel Mezzogiorno, ma soprattutto della Commissione antimafia.

È in questa cornice che elabora, insieme ad altri deputati e senatori, la relazione sopra citata, alla quale aggiunge una proposta di legge, “Disposizioni contro la mafia”, volta a integrare la precedente legge 575/1965 e a introdurre nel codice penale un nuovo articolo, ossia il 416 bis. Com’è noto, si tratta dell’ingresso, in un impianto legislativo deficitario in tal senso, del reato di associazione mafiosa – punibile con la pena da tre a sei anni per i membri, destinata ad alzarsi da quattro a dieci nel caso del gruppo armato – e, inoltre, della confisca obbligatoria dei beni riconducibili direttamente alle attività criminali perpetrate dagli arrestati.

La proposta di legge è figlia della profonda conoscenza della mafia siciliana da parte di Pio La Torre, a cui non è sfuggita la metamorfosi del fenomeno di Cosa nostra da struttura predatoria rurale a «mafia dalle scarpe lucide», secondo la definizione del giornalista Alfonso Madeo. Questi, con quell’espressione, si riferiva al nuovo scenario urbano delle mafie e al sacco palermitano operato, fra gli altri, da quel Vito Ciancimino che lo stesso La Torre evoca esplicitamente tra i conniventi politici. Del resto, non è il coraggio che manca al parlamentare siciliano: nel 1981, rientra nell’isola, assumendo il ruolo di segretario regionale del PCI, in un contesto locale caratterizzato dagli omicidi, in pochi anni, del giudice Terranova nel settembre 1979, del presidente della Regione, Piersanti Mattarella, e del procuratore della Repubblica Gaetano Costa, rispettivamente nel gennaio e nell’agosto 1980.

Ed è proprio nell’agosto del 1981, anno del suo rientro in Sicilia, che il governo italiano comunica l’accordo con la Nato relativo all’installazione dei missili Cruise nella base militare ragusana di Comiso. È l’ultima battaglia di La Torre: dal Circolo de “La Stampa” di Palermo lancia una petizione che raccoglie oltre un milione di firme, accompagnata da una manifestazione in marcia dal capoluogo regionale verso Comiso nell’ottobre di quello stesso anno. Il Mar Mediterraneo – è lo stesso La Torre a scriverlo in un articolo pubblicato postumo nel maggio 1982 – avrebbe dovuto essere «un mare di pace» e non una sorta di avamposto bellico nel clima teso della “guerra fredda”.

Qualche mese dopo, viene ucciso con Rosario Di Salvo. Non avrà modo di vedere annoverata la sua proposta di legge nell’impalcatura giuridica del nostro Paese pochi giorni dopo un altro assassinio eccellente, quello del generale dalla Chiesa. Non c’è dubbio, come ricorda il sito del Centro studi a lui dedicato, che «la causa determinante della condanna a morte inflittagli dalla mafia» sia il suo impegno antimafia. Forse, però, bisogna intendersi sull’accezione di antimafia e sul perimetro da assegnare alle attività che sono costate la vita al politico siciliano e al suo compagno di partito. Perché appare significativo che quelle morti siano giunte a ridosso della battaglia per Comiso e la Sicilia denuclearizzate. Ciò non stabilisce necessariamente un legame tra gli omicidi e quella battaglia, ma la successione ravvicinata degli eventi non va trascurata. Non si intende qui sostenere, per parlare chiaro, che la morte del politico siciliano abbia mandanti d’oltreoceano. Le sentenze hanno detto altro. Ma è chiaro che restare confinati alla dimensione locale impoverisce l’orizzonte mentale ideologico di Pio La Torre e la stessa azione politica coerente con quell’orizzonte.

Del resto, come è stato notato pochi anni fa in una breve sintesi della sua esperienza politica, per il dirigente comunista siciliano così come per lo stesso Enrico Berlinguer l’assassinio di Mattarella era equiparabile a quello di Aldo Moro, nel senso che dimostravano entrambi «l’esistenza di un’unica strategia terroristica, antidemocratica e reazionaria che puntava a impedire l’incontro tra comunisti e democristiani tanto nel Paese quanto nell’isola» (Dario Alessandro Librizzi, “Una biografia politica di Pio La Torre”, 2019, in “intrasformazione”, rivista di storia delle idee; documento reperibile in rete). La Torre non aveva, di fatto, una visione angusta dei processi a lui contemporanei. Il suo disegno politico era alternativo ai blocchi di potere antidemocratici, è stato ferocemente critico verso quei potentati che ledono la dignità umana e i diritti dei non potenti, è stato coerentemente democratico e volto a cercare non il consenso passivo ma la partecipazione attiva e informata delle masse. È stata una prassi politica che ha trattato il laboratorio locale siciliano come spazio pubblico di rilievo nazionale e internazionale. Proprio la sua ultima battaglia, quella pacifista per dirla in sintesi, è testimonianza di una dimensione tutt’altro che localistica.

Oggi, sappiamo benissimo quanto sia importante scrollarsi di dosso le analisi asfittiche e, al contempo, la segmentazione delle informazioni che risultano anestetizzate dal loro minimalismo. Una sorta di puntinismo cronachistico che impedisce di cogliere l’ampiezza dei fenomeni e le loro interrelazioni. Lo sappiamo benissimo noi, oggi, tra i clamori di una versione attualizzata della “guerra fredda” che qualcuno vuole ricondurre a uno scontro locale, regionale, sottraendolo al quadro più adeguato nel quale si colloca, ossia quello di un conflitto per procura tra imperi. Lo sappiamo benissimo noi, oggi, davanti a un deficit democratico radicale, al punto che una decisione centrale quale quella dell’aumento delle spese militari giunge alle orecchie assopite del cittadino italiano come una sorta di annotazione a margine, una glossa amministrativa, il codicillo di un bugiardino farmaceutico. Nell’ottundimento collettivo, con burocratica comunicazione governativa, veniamo informati di un fatto piuttosto rilevante come se fosse un dato inessenziale della nostra vita, sottratto al dibattito pubblico e derubricato da quello parlamentare.

Allora, dentro questa crisi democratica profonda e in un clima di fanatica riproposizione dell’ineluttabilità della guerra, l’impegno di Pio La Torre, la sua vita e le ragioni della sua morte non possono che diventare moniti altissimi, così alti da risultare inarrivabili e lontani. Lontane battaglie di un mondo che abbiamo perduto, quasi fiabesco, quando era possibile pronunciare l’espressione “autogoverno popolare” senza che ciò suonasse grottesco o, peggio, incomprensibile.


Su Pio La Torre si legga anche il ricordo di Luigi Boggio, pubblicato su Girodivite.



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