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TV: la banalità di un pessimo film

"Gli anni spezzati" offendono il buon senso e la storia. Personaggi ridotti a macchiette e nessuna seria ricerca storica. Solo semplificazioni da "Settimana Enigmistica"

di Adriano Todaro - martedì 14 gennaio 2014 - 3742 letture

Dopo aver visto, il 7 e 8 gennaio scorso, "Gli anni spezzati", il mio pensiero è corso alle figlie e alla moglie di Pino Pinelli, l’anarchico milanese che, nella notte fra il 14 e 15 dicembre 1969, ha avuto un "malore attivo" ed è "cascato" dal quarto piano della questura di Milano.

La verità processuale non dice che è stato sbattuto giù. La verità storica e il buon senso rifiuta il fatto che in un piccolissimo ufficio di metri 3x4, con dentro sei poliziotti più suppellettili vari (scrivania, libreria ecc.), Pino Pinelli abbia potuto far finta di aprire la finestra per prendere aria e si sia lanciato nel vuoto. Nell’ufficio c’era Calabresi (secondo la versione della polizia non era presente. Era uscito poco prima), il tenente CC Lo Grano, Mainardi, Panessa, Caracuta, Mucilli. Le versioni della polizia saranno a dir poco ridicole, un’offesa all’intelligenza degli italiani. Una di queste versioni (poi scomparsa), fu quella che un poliziotto, nel tentativo di salvare Pinelli afferrandogli le gambe, gli rimase in mano la scarpa. Una tesi più che ridicola, vergognosa. Aldo Palumbo, giornalista di “nera" dell’Unità, uscendo in quel momento dalla sala stampa vide per primo il corpo di Pinelli: inutile dire che le scarpe le aveva tutte e due ai piedi.

Sì ho pensato alle figlie e alla moglie Licia. Ho pensato alle figlie e spero che non abbiamo visto lo scempio che il servizio pubblico ha mandato in onda. Ho pensato a loro perché proprio in occasione dell’anniversario della strage, ho partecipato alla manifestazione di domenica 15 dicembre 2013. Arrivati in piazza Fontana, in un piccolo comizio improvvisato, hanno parlato Silvia e Claudia Pinelli. Non lo fanno spesso e vedevo in loro, mentre parlavano, un grande sforzo. Una ha citato anche Pietro Valpreda ricordando che "è stato incarcerato per tre anni, ingiustamente".

Poi, quando sono scese dal camioncino che fungeva da palco, sono andato a parlare con loro. In quel momento una delle figlie di queste ormai signore, in pratica la nipote di Pino Pinelli, ha abbracciato la mamma ed è scoppiata in un pianto dirotto.

Ho pensato alla dignità che ha sempre mostrato Licia, quel suo non apparire mai, quel riaffermare con la sua non presenza che quella era "Una storia quasi soltanto mia" come ha scritto in un bellissimo libro assieme a Piero Scaramucci.

Spero veramente che non abbiano visto questa specie di stucchevole soap opera malriuscita, uno sceneggiato che dal primo fotogramma all’ultimo non sta in piedi. Pino Pinelli è rappresentato come una macchietta (l’attore, guarda un po’, nella vita vera si chiama Calabresi!) e vedere il loro marito, padre, nonno che non hanno mai conosciuto, descritto in quel modo grottesco,deve essere stato una violenza ulteriore e gratuita.

Di ricerca storica non c’è nulla. Si riduce il tutto ad una semplificazione della storia delle lotte sociali. Un po’ di filmati d’epoca che vanno sempre bene per riempire il tempo e giustificare le spese di produzione, il rifacimento di alcuni episodi di quegli anni, un po’ di fiamme a Milano-centro e il gioco è fatto. Un’operazione furbetta ma non per questa riuscita. I dialoghi poi, sono di una banalità raramente sentiti. Quando all’inizio Calabresi parla alle nuove reclute dice che loro sono lo Stato e che hanno "un privilegio" di cui non debbono abusarne. In quegli anni la polizia (e non solo in quegli anni, l’ultima puntata di "Presadiretta" è sintomatica) ne ha fatte di tutti i colori.

Ridicolo che Calabresi, con megafono, vada sotto l’albergo Commercio occupato e chieda di parlare con Valpreda. Al tempo dell’ex Commercio, Valpreda lo frequentava saltuariamente. Di solito dormiva dalla zia Rachele Torri e non era certamente un "capo". Se Gian Giacomo Feltrinelli sembra uscito dal freezer, al povero Calabresi gli sceneggiatori gli mettono in bocca delle frasi che non avrebbe mai pronunciato perché troppo intelligente. Quando, ad esempio, la recluta Claudio Boccia gli chiede chi sono gli anarchici, Calabresi risponde che c’è dentro un po’ di tutto: "pacifisti che mettono le bombe e rivoluzionari di buoni sentimenti". In questa frase c’è dentro tutta la filosofia della soap, di questo nocivo e pessimo film, c’è il sentirsi tutti buoni perché i cattivi sono "gli altri". In pratica Pinelli era bravo e Calabresi ancora di più. Gli "altri" (chi?) si sono coalizzati e i due principali protagonisti di questa vicenda sono morti. Calabresi certamente ucciso. E Pinelli? Non è dato sapere per regista e sceneggiatori della vergognosa e deleteria fiction. Non ci azzeccano neppure con l’età dei protagonisti. Calabresi, a quel tempo, aveva 32 anni; l’attore che lo impersona una cinquantina.

Tutto sommato è un film consolatorio ma proprio per questo più pericoloso. Pensate ad un giovane che non sa nulla di quegli anni. Cosa capirà dopo averlo visto? Che studenti e operai erano i cattivi, i poliziotti i buoni e che in fondo ad ogni storia c’è sempre un momento di grande consolazione. Ad un certo punto, nella prima parte del film, Calabresi e Claudio vanno a Roma in macchina. L’auto ha un piccolo guasto. I due scendono e Calabresi cerca di convincere Claudio a non dimettersi dalla polizia. Claudio ha appena scritto al padre e gli ha fatto una domanda non da poco: "Papà perché ci odiano?". Già, perché? Forse bisognerebbe domandarlo a tutti coloro che sono stati manganellati, colpiti da pallottole vaganti (qualcuno si ricorda di Soriano Ceccanti?), saltati in aria grazie anche ai servizi cosiddetti deviati, agli infiltrati che spingevano gli anarchici a compiere attentati, ai vari Merlino e compagnia bella.

Calabresi anche in questa occasione è il buon padre di famiglia, cattolico, timorato di Dio che sa comprendere le ambasce della recluta: "Per fare il nostro lavoro ‒ dice a Claudio ‒ ci vuole passione. Vedi quel contadino che si spacca la schiena su quel campo, se non avesse passione per la terra...". E la macchina da presa riprende il contadino felice di spaccarsi la schiena perché ama la terra.

Si può essere più banali di così? Qualcuno ha già fatto notare, in una scena, un manifesto con su scritto "Fiom Cisl" (?) e un altro di Casa Pound. Nel 1969, per fortuna, non erano ancora nati. D’altronde il pressappochismo impera. Come dimenticare che alcuni anni fa avevano domandato agli studenti di un liceo di Milano chi, secondo loro, avesse messo le bombe in piazza Fontana. La risposta era stata disarmante: le Brigate Rosse!

A questo melenso spot si sono prestati vari personaggi. Oltre al regista Graziano Diana compaiono i nomi di Adalberto Baldoni, Sandro Provvisionato e Luciano Garibaldi. Più che definire se sono di destra o di sinistra bisogna subito dire che non hanno nessuna dimestichezza con la seria ricerca storica. C’è chi proviene da giornali del Msi, chi da Radio città futura per finire al TG5, chi viene ricordato per un pregevole, si fa per dire, scritto dove si sostiene la tesi che il referendum monarchia/repubblica del 1946 fu falsato nei risultati da Palmiro Togliatti.

Ecco, sono questi i cervelli che hanno partorito l’obbrobrio sul commissario Calabresi. Gli sceneggiatori dicono di aver ascoltato i parenti delle vittime. Quali? Non è dato sapere. Magari potevano sentire anche l’anarchico Pasquale Valitutti, oggi in carrozzella, anche lui trattenuto (come Pinelli) illegalmente con un fermo che si sarebbe protratto fino al giorno dopo. E Valitutti ha sempre sostenuto di non aver visto uscire il commissario Calabresi dalla stanza degli interrogatori. Per la verità Valitutti non l’ha mai sentito neppure il giudice D’Ambrosio quello che si è inventato il "malore attivo". E perché non dire qualcosa sul dirigente degli Affari Riservati Silvano Russomanno? Che ci faceva in questura proprio quella sera?

Basta. Si potrebbe continuare per pagine e pagine. Ma una cosa la devo dire. Non se ne può più di tutti questi santini edificanti. Non se ne può più della retorica attorno al commissario Luigi Calabresi, buon cattolico e padre di famiglia. Quando Licia Pinelli telefona in questura e chiede a Calabresi perché non è stata avvertita che Pino era morto e portato all’ospedale, il buon commissario risponde serafico: "Ma sa, signora, abbiamo molto da fare". Pinelli era morto già da un’ora.

L’unica cosa corretta nel pessimo film, sono i maglioni di Luigi Calabresi. Chi quei tempi li ha vissuti a Milano, sa che era così. Il commissario aveva un debole per quelli girocollo bianchi. Un po’ poco per descrivere correttamente gli "Anni spezzati".


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