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Sudan, dove il Nilo si tinge di rosso

Il Sudan è Africa, al confine con il Mar Rosso e le sue voglie di fuga e il Kenya ed i suoi istinti selvaggi. Divide con la Libia, il Ciad, l’Etiopia e l’Eritrea, un destino ed una storia di sangue, fame, povertà, colonialismo e sfruttamento.

di Piero Buscemi - mercoledì 20 aprile 2005 - 4576 letture

Quando una nazione si riconosce in un “Popolo”? Quando un popolo può rivendicare al mondo il suo diritto di esistere? Quando una guerra attira l’attenzione, tanto da trovare un motivo per farla cessare? Per il Sudan, forse, queste domande non troveranno mai risposta.

Non l’hanno trovata quando il Sudan festeggiò l’indipendenza da un passato di dominazione inglese, che utilizzò il paese come avamposto per le sue ricerche archeologiche e lo abbandonò nel 1955, anche se la Storia ci ha raccontato le vicende di un altro paese africano sottratto al colonialismo europeo.

Non l’hanno trovata quando l’O.N.U. ha dovuto ammettere che, forse, venti anni erano troppi per non chiamare l’affare “Sudan”, realisticamente “guerra civile”. Perché, in definitiva, una guerra ha sempre i suoi protagonisti: qualcuno che la proponga come soluzione, qualcuno che la sostenga economicamente, qualcuno che la combatta senza conoscerne il motivo. E poi, qualcuno che la subisca. Per anni, ogni giorno, contando i parenti e amici che non ha potuto neanche seppellire, e i giorni che lo separano dalle missioni di pace.

Certo, non sempre la pace arriva puntuale: troppi interessi si accavallano ed allora, la guerra si libera della sua maschera di necessità e si mostra nel suo aspetto reale. La guerra è solo uno sporco affare. Anche se le si affianca un attributo nuovo, per renderla meno crudele.

E allora, c’è sempre lo storico di turno che prova a spiegarci i retroscena. E ci racconta di un Nord che deve essere sempre contrapposto ad un Sud. Nel Sudan il nord è Karthoum con il suo governo accentratore, sponsorizzato, patrocinato da chi con la solita motivazione religiosa, sovvenziona una guerra etnica di islamici del nord contro animisti e cristiani del sud, con questi ultimi che rivendicano il loro diritto all’indipendenza. Indipendenza da cosa e da chi?

Indipendenza religiosa, forse? I missionari cattolici arrivarono in Sudan già nel lontano 1857 e provarono a costruire un sogno di libertà ad un popolo che, da venti anni, era stato solo un rifornimento umano al commercio degli schiavi dell’Impero turco-egiziano. Il sogno ebbe vita breve crollando con l’intervento di Sua Maestà britannica, già sufficientemente esperta di esportazioni “democratiche” che, con l’aiuto degli egiziani, occupò il paese politicamente promettendo la fine della schiavitù e l’indipendenza cattolica del sud.

Indipendenza politica, magari? Nel 1943 gruppi locali del nord provarono ad organizzarsi in partiti politici. Gli inglesi finsero di non avere particolari motivi per intromettersi e restarono alla finestra, in attesa di ulteriori sviluppi della vicenda nord-sud. Quando il Re Faruk, nel 1951, si autoproclamò sovrano di Egitto e Sudan, l’illusione di una unità nazionale prevalse sul resto dei problemi da affrontare. Il Sud, ancora una volta, rimase escluso dalle operazioni, non avendo un partito politico che lo rappresentasse.

Indipendenza ideologica, addirittura? Dal 15 al 25 novembre del 1953 in Sudan si svolsero le Elezioni parlamentari che avrebbero portato alla dichiarazione di indipendenza del 1955. Il mondo si accorse di questo lembo d’Africa e l’anno successivo, il Sudan si poté fregiare della nomina di membro della Lega Araba e delle Nazioni Unite. Il Sud continuò ad essere bistrattato ed escluso dalla vita politica del paese. Con ogni mezzo: con l’istituzione dell’islam come religione di stato, con la scelta dell’arabo come lingua nazionale, con una guerra e una dittatura militare iniziata nel 1955 e che non avrebbe conosciuto la fine.

La Storia moderna, passata dal colpo di stato di Gaafer Mohamed Nimeiri del 1969 che divenne presidente nel 1971, dal riconoscimento di Nimeiri delle province del sud e l’elezione di Abel Alier come primo presidente eletto legalmente, dalle prime manifestazioni “democratiche” che raggiunsero il culmine con gli scioperi di Khartoum per il diritto ad un salario più alto e la richiesta della libertà di stampa. Dopo tutto questo e un decennio di speranze affogate nel sangue, la Storia ci porta dritti al 1983, l’anno della ripresa della guerra civile, se mai fosse stata realmente sospesa con la presa del potere di Nimeiri.

Nimeiri aveva avuto il tempo di rafforzare il suo potere per decidere l’introduzione della legge islamica (la così detta Sharia), alla quale non potevano certo sottrarsi i sudanesi del sud. A questi ultimi non rimase che organizzare la ribellione costituendosi nel Sudan People’s Liberation Army, più noto con la sigla SPLA. Strana coincidenza vuole in John Garang il suo comandante che, “strano ma vero” fu sapientemente addestrato militarmente negli USA.

Gli americani non sono di certo abituati a restare alla finestra. Oltretutto, le guerre costano e gli States hanno, da sempre, sufficienti mezzi economici e balistici da mettere a disposizione, in questi casi. E’ anche vero che non si scomodano mai senza un motivo che garantisca un tornaconto economico.

Il motivo lo si è trovato col tempo. Nel 1998, ad aggravare il bilancio delle vittime, mai del tutto confermato con dati certi, una grave carestia causata dalla siccità, colpì il sud del Sudan. Gli Stati Uniti, già allenati nel distribuire “bombe intelligenti” per il mondo, nello stesso anno bombardarono una fabbrica di armi chimiche vicino Khartoum. Il pretesto: cercare di bloccare un ipotetico rifornimento dei sudanesi al terrorismo internazionale. Già da qualche tempo, però, Amnesty International denunciava l’uso sconsiderato di gas letali da parte del regime del nord, durante i combattimenti. Non era certo la morte di qualche milione di civili del Sudan, che poteva scomodare la cavalleria del cielo statunitense. Ci voleva ben altro. Qualcosa di scontato ma incredibilmente adescante per la politica americana: il petrolio.

Petrolio che ha fatto la sua comparsa dal nulla, in questo conflitto senza fine. Petrolio che ha trasformato i motivi etnico-religiosi in puri pretesti di guerra. Perché, altra cosa “strana” del Sudan è che qui, le maggiori risorse del paese sono nel Sud. Al petrolio va aggiunto un territorio coltivabile, giacimenti minerali, ma specialmente qualcosa che in Africa vale più del petrolio: l’acqua. Il Nord, da parte sua, è solo deserto.

Oggi la situazione si può riassumere in questi termini: il Sudan è un paese ancora in guerra. Una guerra i cui protagonisti più notabili, oltre agli USA, sono i politicanti locali che, dal petrolio, hanno trovato un finanziamento sicuro per le loro personali contese. Le Nazioni Unite hanno impiegato venti anni per trovare i cavilli di legalità internazionale e dichiarare il Sudan, un nuovo olocausto. Nel frattempo, un numero superiore a due milioni di vittime sono state confuse nelle fosse comuni, quattro milioni e mezzo di profughi vagano tra il Kenya e l’Uganda, un numero imprecisato di bambini hanno finanziato una nuova forma di schiavismo e la più terribile banca organi clandestina del mondo.

Particolari equilibri economici e strategici tra i vari contendenti e le continue esortazioni da parte delle associazioni uminitarie, hanno acceso una piccola speranza di pace, nel sud del paese. I signori della guerra non si sentono preoccupati da questa nuova situazione. Le crescenti violenze della provincia del Darfur, una zona nel nord-ovest del Sudan, apparentemente di nessun interesse economico, viste le sue caratteristiche desertiche, garantiscono sufficiente continuità nel war-business. Avremo almeno venti anni di tempo per raccontare le vicende e le reali motivazioni.

Da parte nostra, vogliamo chiudere citando una breve raccolta di avvertenze per coloro che considerano il Sudan, nonostante tutto, un sito turistico da visitare:

1) ci vogliono almeno 800 € per un biglietto di andata e ritorno (?) dall’Italia; 2) il territorio settentrionale e occidentale a ridosso del Nilo è seminato di mine anti-uomo (questa informazione non è alla portata di tutta la popolazione locale); 3) la microcriminalità, in modo particolare quella minorile è diffusa in tutto il paese: si consiglia, nel caso di furti e borseggi, di non denunciare il fatto alle autorità locali onde evitare esecuzioni pubbliche di giustizia sommaria (non sono rari i casi di esecuzioni per strada di minorenni, come esempi educativi); 4) prestare particolare attenzione all’uso di stupefacenti che comporta la carcerazione e in casi recidivi, la pena capitale; 5) evitare di fotografare siti di interesse militare (ponti, aeroporti, ambasciate) e gli abitanti del luogo; 6) in Sudan, l’assistenza medica di base non è garantita: le malattie di lieve entità (difficile giudicare la gravità visto che in Sudan si muore ancora per Tbc) sono curate con farmaci generici e di difficile reperibilità; nei casi più gravi sono curate in Europa (per chi ha i mezzi economici!).


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