La poesia della settimana: Pascal D’Angelo

Il poeta dell’emigrazione. New York, città di futuro. Spesso, solo di fuga.

di Piero Buscemi - martedì 6 maggio 2014 - 3679 letture

Luce

Ogni mattina,
 mentre mi affretto al lavoro
 lungo River Road,
 passo davanti
 l’avara catapecchia di Stemowski
 vicino alla quale
 palpita un bianco alone profumato di acacie,
 e la pungente primavera mi trafigge.

I miei occhi sono di colpo felici,
 simili a ombre nuvolose
 quando s’imbattono
 nell’oscurità che li protegge
 dopo un lungo periodo di difficoltà
 in un mare di vitrea luce.

Poi mi precipitai al cantiere,
 ma la mia mente vaga ancora sulle orme
 dei sogni in cerca di bellezza.
 O come sanguigno angosciato!
 Soffro in mezzo ai miei compagni di fatica
 allegri ma insignificanti!

E’ forse il prezzo di un sogno proibito
 inabissato nel purpureo mare
 di un futuro oscuro.

C’è una tonalità immatura, quasi adolescenziale, in questi versi quasi scolastici ma già sprizzanti di una nostalgia, che guardava speranzosa a un futuro migliore. Era lo scotto da pagare per tutti coloro che abbandonarono l’Italia tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, lasciando affetti, terra, povertà e disperazione per gettarsi in un’avventura dall’esito incerto su migliaia di miglia marine verso l’Eldorado newyorkese che, non sempre, garantiva a tutti una vita migliore.

Una storia che si ripete, senza sosta, nel tempo. Cambiano i protagonisti, ma non le vicende umane che dettano le regole e le ipocrisie di queste migrazioni attraverso un mondo mai equamente distribuito, dove nella fortuna del luogo di nascita, qualcuno crede se ne possa rivendicare un merito.

Questo poeta abruzzese, Pascal D’Angelo, nato a Introdacqua in provincia de L’Aquila nel 1894, e morto a New York nel 1932, è stato testimone di quella fuga di massa, che lo ha visto coinvolto a sedici anni all’inizio del XX secolo, che avrebbe regalato ai libri di storia le due guerre mondiali.

La sua ingenuità lo portò a pensare che i sacrifici e le sofferenze patite, lavorando da operaio, sottopagato e sfruttato, sarebbero state superate dalla riconoscenza che la vita riserva alla povera gente. Forse una concezione religiosa e poco realistica delle condizioni di quegli uomini che, sfuggendo la povertà delle terre d’Abruzzio, finirono a sostenere l’espansionismo industriale statunitense.

In parte, questa ricompensa, D’Angelo la ottenne acquisendo notorietà da poeta in quel continente straniero. I suoi sacrifici a studiare una lingua e una cultura così diversa, furono ripagati, quanto meno dalla sua possibilità di far conoscere, attraverso i suoi versi, le tristi e misere condizioni dell’uomo che lascia la sua terra, sognando una via da tracciare per altri "Son of Italy".


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