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La morte dell’Orcaferone

Il regista messinese Vincenzo Tripodo e gli attori dell’Actorgym al cospetto di una delle più ostiche opere letterarie italiane: Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo.

di Piero Buscemi - venerdì 10 luglio 2015 - 9589 letture

Il silenzio avvolge un’atmosfera che sa di appuntamento al quale non poter mancare. Lo stesso silenzio che ti inchioda sulla sedia, quasi in apnea come un rispetto dovuto verso chi, in quel momento di estasi, ti sta donando la sua anima.

E’ lo stesso che ci avvolge dopo aver ascoltato The dark side of the moon dei Pink Floyd. Un’interminabile traccia che ci cattura in un vortice di sensazioni indescrivibili. Un contatto con un messaggio metafisico, che l’artista ci trasmette attraverso i polpastrelli, suadenti carezze emotive che vorremmo non avessero mai fine.

Il regista Vincenzo TripodoTripodo riesce nel teatro a farci scivolare nella sua trappola riflessiva, che un’opportuna distrazione vorrebbe glissare, come le note che Gilmour ha saputo amalgamare nelle sonorità di un disco epico. La musica si tinge di monologhi, attraverso la direzione del regista. Frammenti di sentenze che ricostruiscono il destino un essere mitologico. La sua vita accanto alla nostra. Una massa di muscoli, carne, sangue. Paura, alienazione, esaltazione e poi ancora, un’incredibile voglia di urlare la propria appartenenza ad un mondo di sconcertanti contraddizioni.

Quell’essere indefinito. Maestoso. Come tutto quello che non riconosciamo nelle nostre insicurezze quotidiane. Fascinoso e terrificante. Come una forza sovrannaturale, alla quale affidiamo il nostro destino. Nostro. Come una molecola dell’umanità crudele, ipocrita e forse necessaria, della quale non riusciamo a non esserne parte.

Questa traccia di riflessioni, sentimenti confusi, coscienza sbrindellata, lacrime soffocate in uno stupido orgoglio, arpeggi di parole che ci ripetiamo a memoria nelle nostre solitudini notturne. E poi una matura interpretazione delle Alcune attrici durante la recitazione attrici e degli attori su quel palco, metafora di un’esistenza che non possiamo sfuggire. Un’altra osmosi di anime che si trasformano in personaggi nei quali provare a riconoscersi. Attraverso quel corpo martorizzato che “l’animalone” vede sfuggirsi via, attraverso le bocche di esseri insignificanti che atrofizzano la pietà davanti all’essere che muore. Attraverso un passato cancellato da un presente immorale, Tripodo ci fa percorrere nuovi sentieri interpretativi con i quali, rilegarsi il semplice ruolo di spettatori, fa della nostra presenza un atto incompiuto.

Se accettare la sfida, che ogni artista dovrebbe lanciare a se stesso durante il proprio percorso formativo, palesa uno scontato coraggio, rivisitare il “mostro” letterario di D’Arrigo in cerca di una, se possibile, chiave di lettura personale al testo, diventa la madre di tutte le battaglie tra uomo e natura. Chi era Monte di Pietà Messinapresente ieri sera al Monte di pietà di Messina, ha assorbito il proprio giudizio universale, scivolato da quei corpi interpretativi, forse più delle parole pronunciate dai personaggi, prendendo contatto con la caducità della propria esistenza, celata da una folle via di fuga verso il lato più oscuro della propria mente.

Qualcuno ci avrà visto il “pesce”, aggredito da squali allegorici che Hemingway ci ha raccontato con Il vecchio e il mare; qualcun altro avrà cercato lo sguardo di Achab ad incrociarsi con quello di Moby Dick; altri, ancora, stanno rispolverando le mille e più pagine del libro di D’Arrigo in cerca di quel messaggio tra le righe che Vincenzo Tripodo ha saputo leggere, attratto e vittima sacrificale volontaria di un vortice letterario tra le tante Scilla e i tanti Cariddi che un’opera letteraria riesce ad adagiare tra le pieghe della nostra sensibilità.

Con questo testo teatrale bisogna avere il coraggio di andare oltre. Collocarlo nell’attualità dei nostri giorni, viverlo come un capitolo della propria vita che attende inutilmente la parola fine. Salire su quel palco in cerca di quel passato sul quale aggrappare il nostro futuro. Perché anche se il tempo è trascorso e la canzone sembra essere finita, dobbiamo cercare dentro noi stessi quelle parole che abbiamo ancora da dire...

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Parte iniziale dello spettacolo
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I saluti finali

Cenni letterari e biografici: fonte Wikipedia

Horcynus Orca
 Pubblicato nel 1975, il libro è l’esito di più di vent’anni di lavoro, il cui inizio può essere datato intorno al 1950. Già nel decennio successivo il progetto dell’opera attira l’attenzione dei circoli letterari, tanto che nel 1959 viene attribuito a D’Arrigo il premio della Fondazione Cino del Duca (la giuria è presieduta, tra gli altri, da Eugenio Montale, Elio Vittorini e Cesare Zavattini).

Fortunato Stefano D’Arrigo (Alì Terme, 15 ottobre 1919 – Roma, 2 maggio 1992)
 D’Arrigo nacque a Alì Terme, in provincia di Messina, il 15 ottobre 1919. Dopo aver studiato a Milazzo e completato gli studi a Messina, dove si laureò con una tesi su Friedrich Hölderlin, si trasferì a Roma per collaborare a giornali e riviste come critico d’arte, dove frequentò pittori e scultori e scrisse i primi versi. La sua raccolta di poesie Codice siciliano, pubblicata da Scheiwiller nel 1957, fu riproposta con poche aggiunte da Mondadori nel 1978. Il grosso della sua attività di scrittore infatti è nel suo romanzo più importante, Horcynus Orca, la cui incubazione durò dal 1957 fino al 1975: un vero e proprio caso letterario di cui si parlò a proposito e a sproposito, anche per via di qualche capitolo uscito su riviste e per il lancio pubblicitario della Mondadori quando finalmente si stampò la prima edizione. Il libro, di ben 1257 pagine, narra le vicende di ’Ndrja Cambrìa, marinaio della fu Regia Marina che ritorna, dopo il Proclama Badoglio dell’8 settembre 1943 a Cariddi suo paese natale sulle rive dello Stretto di Messina, scenario magnifico e allo stesso tempo tremendo di tutto il racconto.


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