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“La Terra desolata” di Th. Stearn Eliot

di Maria Gabriella Canfarelli - mercoledì 20 dicembre 2006 - 23910 letture

Th. Stearn Eliot

Lo spirito dissolto de “La Terra desolata”

Molto è stato scritto su La Terra desolata, poema in chiave iniziatica di Thomas Stearn Eliot (1888/ 1965), premio Nobel per la Letteratura nel 1948. Nelle cinque sezioni ( La sepoltura dei morti, Una partita a scacchi, Il sermone del fuoco, Morte per acqua, Ciò che disse il tuono) ricorrono elementi simbolici e archetipici innestati in accurate descrizioni di situazioni e paesaggi, finestre aperte attraverso cui guardare, ascoltando suoni onomatopeici e dialoghi, osservando l’interno d’una casa, le trattative dei mercanti e degli uomini della City, affari e commerci; una molteplicità di temi che appartiene alla storia dell’uomo, alla sessualità, alla carne e al sangue: su tutto il simbolo eccellente, il Santo Graal o coppa del sangue (fermentativo, di futura vita nuova) del Cristo, Re pescatore (di uomini) che nella desolazione è il Re Ferito, sofferente della sofferenza della creazione desertificata e impura, della germinazione dolorosa dell’aprile che “genera lillà da terra morta”.

Edificato su piani intersecantesi il poema ebbe lunga gestazione e solo nel 1922, dopo variazioni e correzioni, espunzioni e riscrittura, e grazie anche ai consigli di Ezra Pound, a cui fu dedicato (A Ezra Pound il miglior fabbro), Eliot lo pubblicò in proprio. Dalla tradizione letteraria al mito, dalla storia all’epica, dalla religione all’antropologia culturale, tutto è confluito in un’opera morale che attinge alle filosofie orientali e ai testi sacri (Veda, Upanishad,), ai profeti biblici, all’Ecclesiaste, Sant’Agostino, agli Apostoli, all’Apocalisse: un’allegoria dello spirito smarrito in una emblematica città europea, Londra agli inizi del XX secolo: essiccata “città irreale” e sporca, il cui fiume trasporta miasmi e relitti, uomini come ectoplasmi emersi dalle nebbie del fiume, spinti da una sorda fame carnale e osservati dal veggente cieco Tiresia. E’ l’incontro tra una regina e il suo amante, il ricordo d’una battaglia punica a Milazzo, la pietà per Phlebas il fenicio annegato, la metamorfosi di Filemone, la presenza d’una Madame Sosostris lettrice di Tarocchi (la figura dell’impiccato a testa in giù) e del mercante Eugenides che ha “le tasche piene di uva passa”, e del rituale del tè, e la tristezza lancinante d’una rozza seduzione. Dante (il XIII canto del purgatorio, la lussuria) e Ovidio (La metamorfosi) ci accompagnano in un viaggio intorno all’anima, in Ovidio trasmigrata in altre forme per raccontare del desiderio ottuso e brutale che impedisce la piena rinascenza delle stagioni quando la terra e le radici sono aride. Del poeta latino Publio Ovidio Nasone Eliot si professa debitore. Commentando egli stesso i versi 99 e seguenti di “Una partita a scacchi” - nella seconda parte del poema - egli rinvia a : “Ovidio, VI. Metamorfosi. Filemone e Bauci”, cioè al mito di Filomela, violentata dal cognato Tereo, che le mozzò la lingua perché non potesse raccontare della violenza subìta, e della vendetta di lei che gli fece mangiare

le carni del figlioletto, per trasformare infine il suo dolore in dolcissimo canto di usignolo. Agli opposita stupro / silenzio cui segue la consumata vendetta buttata in faccia al mondo (i commensali alla tavola del re), la catartica sublimazione nel canto di Filomela trasformata in usignolo. Ma la donna sedotta in “Una partita a scacchi” (in cui è contenuto l’episodio di Filomela) mostra tutta la sua frustrazione e il malcelato disgusto: ”Come se una finestra si aprisse sulla scena silvana, / la metamorfosi di Filomela, dal re barbaro / così brutalmente forzata; eppure là l’usignolo / empiva tutto il deserto con voce inviolabile / e ancora ella gemeva, e ancora il mondo prosegue”.

Al canto melodioso dell’usignolo si sostituisce il lamento sterile e nevrotico di una donna ossessionata dalla solitudine, l’abnorme silenzio dell’uomo dopo l’amplesso frettoloso: “Ho i nervi a pezzi stasera. (...) Resta con me / Parlami. Perché non parli mai? (...) / A che stai pensando? Pensando a cosa ? A cosa? / Non lo so mai a cosa stai pensando”. Poi la scena cambia di colpo, come in un sogno: in un pub la donna si rivolge a un’altra donna (Lil, che alla fine si trasforma in Ofelia, orfana e annegata), esortandola a rimettere i denti mancanti perché se “Albert si sgancia non potrai dire di non essere stata avvisata”, mentre una voce ripete agli avventori “SVELTI PER FAVORE SI CHIUDE”.

Ne “Il sermone del fuoco” appare il Tamigi, le foglie che “s’afferrano e affondano dentro la riva umida”: è una visione tardo-autunnale del fiume presso il quale la leggenda del Graal pone la sede del Re Pescatore, Cristo -con innesti e relazioni tra mito e letteratura. Tiresia è l’indovino in cui i due sessi si riassumono, colui al quale Giove e Giunone pongono il quesito se sia la donna o l’uomo a provare più piacere nella copula. Arbitro della controversia in quanto uomo/donna, Tiresia dà ragione a Giove e viene da Giunone condannato alla completa cecità, a compenso della quale riceve il dono di “vedere” il futuro.

Ciò che l’indovino vede è l’eros universale scomposto, disarmonico e da ricomporre, estrapolando dal caos l’insieme di simboli di quest’opera mimetica e sublime il cui autore è l’esploratore che invita alla lettura e alla scoperta della complessità. Dice Tiresia : “Io, Tiresia, benché cieco, pulsando tra due vite, / vecchio con avvizzite mammelle di donna, posso vedere / nell’ora violetta, nell’ora della sera che contende / il ritorno, e il navigante dal mare riconduce al porto, / la dattilografa a casa all’ora del tè, mentre sparecchia la / colazione, accende / la stufa, mette a posto barattoli di cibo conservato.”; poi, “osservai la scena, e ne predissi il resto - / (...) / Ed ecco arriva il giovanotto foruncoloso, / impiegato d’una piccola agenzia di locazione, (...) / uno di bassa estrazione a cui la sicurezza / s’ addice come un cilindro a un cafone arricchito. / (...) / Lui cerca d’impegnarla alle carezze / che non sono respinte /(...) / Eccitato e deciso, (....) / le sue mani non trovano difesa; / la sua vanità non pretende che vi sia un’intesa.“

Sterile desolato amore che si affida a un approccio risoluto, una seduzione immediata a soddisfare i sensi: Tiresia, il doppio sessuale, sintetizza il grado di soddisfazione dell’una e dell’altro, con ironia ne sottolinea l’esito nelle parole della dattilografa: “Dopo il fatto egli pianse. / Promise ‘un nuovo inizio’. Non feci commento / di cosa mi dovrei rammaricare?”. I versi finali immettono alla visione di Cartagine bruciante, e introducono la figura del marinaio Phlebas in “Morte per acqua” ( nell’alternanza tra i due elementi simbolo, l’acqua designa l’anima, la condizione dell’umido, il fuoco lo spirito, l’aria secca): “Phlebas il Fenicio, morto da quindici giorni, / dimenticò il grido dei gabbiani, e il fondo gorgo del mare, / e il profitto e la perdita. / Una corrente sottomarina / gli spolpò l’ossa in mormorii. Come affiorava e affondava / passò attraverso gli stadi della maturità e della giovinezza / procedendo nel vortice. Gentile o Giudeo / o tu che volgi la ruota e guardi sopravvento, / considera Phlebas, che un tempo fu bello, e alto come te”. E in“Ciò che disse il tuono” passione e resurrezione: “Dopo la luce rossa delle torce su volti sudati / dopo il silenzio gelido nei giardini / Dopo l’angoscia (...) / le grida e i pianti / la prigione e il palazzo e il suono riecheggiato / del tuono (...) / colui che era vivo ora è morto / noi che eravamo vivi ora stiamo morendo / con un po’ di pazienza” - versi che si riferiscono alla cattura di Gesù nel Getsemani e all’incontro in Emmaus tra il risorto e due discepoli.

E viene introdotto il simbolo della roccia, la pietra, il “lapis exillis”, termine con il quale i rosacroce designano il Cristo ovvero “pietra d’angolo” neo-testamentaria: “Qui non c’è acqua ma soltanto roccia / roccia e non acqua e la strada di sabbia / (...) lassù fra le montagne / che sono montagne di roccia senz’acqua / se qui vi fosse acqua ci fermeremmo a bere / (...) / Il sudore è asciutto e i piedi nella sabbia / vi fosse almeno acqua fra la roccia / bocca morta dio montagna dai denti cariati che non può sputare”. Tutto il poema è immerso in una luce livida, violacea (e il viola è colore quaresimale, e la quaresima è astensione dalla carne); la nebbia è un elemento offuscante, Tiresia è lo spettatore che lega tra loro gli avvenimenti; il poeta è Tiresia, occhio cieco/chiaroveggente, apocalittico. L’ultima edizione de La terra desolata è del 2006, a cura di Alessandro Serpieri, con un nuovo saggio sulla genesi del poema e testo inglese a fronte edito da Biblioteca Universale Rizzoli.


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“La Terra desolata” di Th. Stearn Eliot
6 settembre 2007

E’ un opera splendida per suggestioni intrinseche del linguaggio e dell’immaginario, e per profondità di tematiche, per altro riconducibili al malessere esistenziale del primo novecento (vedi Joyce, Kafka, Pound, Rilke.
    “La Terra desolata” di Th. Stearn Eliot
    28 agosto 2013, di : GIandomenico

    The Waste Land ,la Terra Guasta,e’ il punto più alto della Poesia del Novecento,appena cominciato. Una poesia materica e metafisica al contempo, Come una Sinfonia di Mahler. Una Luce controversa e misteriosa sul Tempo di crisi e sul l’eterno dilemma umano e divino fra essere e non essere,materia e non materia,fede e nulla.