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Darfour: il popolo dimenticato

In un altro campo, a Otash, quando la madre di un bambino di dieci anni, disidratato dopo aver vomitato tutta la notte, l’ha portato alla clinica, la porta era chiusa.

di Thierry Abdon AVI - mercoledì 22 aprile 2009 - 3375 letture

Dopo che il dittatore sudanese, il generale Omar Hassan El Béchir, ha espulso tredici organizzazioni umanitarie internazionali dal Darfour, (quelle rimaste potrebbero a loro volta, ben presto, andarsene), quattro bambini africani neri musulmani vengono ricordati e pianti dalle poche persone che sono rimaste delle loro famiglie al campo profughi Shangil Tobaya, perché morti di malnutrizione a fine Marzo. Certamente la loro morte non apparirà nei giornali occidentali. Per la loro memoria, è giusto nominarli, attraverso la loro identità fornita il 24 marzo dal Movimento Ribelle per la Giustizia e l’Uguaglianza nel “Sudan Tribune”: Abdel-Latif Hassan Gar El-Nabi, 7 mesi; Ahmed Musa, 7 mesi; Mounir Mohamed Ibrahim, 9 mesi; Esam Babiker Yacoub, 3 anni.

In un altro campo, a Otash, quando la madre di un bambino di dieci anni, disidratato dopo aver vomitato tutta la notte, l’ha portato alla clinica, la porta era chiusa. Un genitore del ragazzo ha dichiarato: “Era un servizio dell’International Rescue Committee, una delle organizzazioni espulse del Sudan dal generale El Béchir” (“New York Times”, 23 marzo). Il giorno dopo, John Holmes, il coordinatore umanitario delle Nazioni Unite dichiarava che i programmi per l’acqua, intrapresi dalle agenzie espulse, con molta probabilità possono interrompersi da qui alla fine di aprile per mancanza di risorse.

L’Africa si aspetta molto da Barack Obama. Durante la sua campagna presidenziale, quest’ultimo aveva dichiarato che le violazioni ed omicidi di massa orchestrati dal generale El Béchir “avevano sporcato i nostri cuori” ed è con rammarico, che prometteva “che mai più ciò sarebbe accaduto”. Nel frattempo, il macabro dirigente di questo Stato sovrano africano, membro delle Nazioni Unite, è ricercato a livello internazionale dopo che la Corte Penale Internazionale (CPI) ha emesso un mandato di cattura internazionale nei suoi confronti nel mese di Marzo 2009, sia per crimini di guerra che contro l’umanità. Tuttavia, in barba alla decisione della CPI, il generale continua a viaggiare ed è stato calorosamente ricevuto in Eritrea, in Egitto ed in Libia. È anche apparso trionfalmente al summit degli stati arabi in Qatar. In Egitto, paese alleato degli Stati Uniti, il generale El Béchir è stato, nonostante le circostanze, ricevuto all’aeroporto dal Presidente Hosni Moubarak. Il Primo Ministro del Qatar, Cheik Hamad ben Jassem ben Jabor Al Thani, anticipando la visita del génocidaire-en-chef, dichiarava ad “Associated Press” il 25 marzo: “rispettiamo il diritto internazionale, e rispettiamo la partecipazione del presidente El Béchir e gli diamo il benvenuto„. Si potrebbe chiamare ciò della prestidigitazione diplomatica un po’ ipocrita, come lo è anche il disprezzo freddo da parte delle nazioni arabe, che sostengono il loro collega sovrano, il generale El Béchir. È altrettanto sorprendente che l’Iran ed Hamas sostengano il dirigente sudanese. Secondo il portavoce del Parlamento iraniano, Ali Larijani, “il mandato internazionale nei confronti di El Béchir è un’offesa per tutti i musulmani„ (“Minneapolis Star Tribune”, 27 marzo). Sarebbe interessante sapere ciò che il sig. Larijani pensa della morte di questi quattro bambini musulmani al campo di Shangil Tobaya. Ayman El Zawahiri, numero due di Al Qaeda, ha recentemente (“New York Times”, 25 marzo) invitato i sudanesi ad iniziare la Djihad (guerra santa) contro “la crociata„ perversa dell’occidente che sarebbe secondo lui, soltanto uno nuovo pretesto per invadere una nuova terra dell’islam, cioè il Sudan.

Ibrahim Safi è un sopravissuto e fa parte dei 75.000 sfollati del campo Zamzam. Secondo lui, “Dopo Dio, non abbiamo altro che le organizzazioni umanitarie„. (“New York Times”, 23 marzo). E presto non ci saranno più… Il generale El Béchir le ha espulse perché collaboravano con la CPI. In realtà, il piano del genocidio del generale prevede da molto tempo di sbarazzarsi dell’imbarazzo causato a livello internazionale da questi lavoratori umanitari in Sudan che tentano di mantenere in vita i superstiti dei suoi crimini di guerra. Come lo fa notare uno di questi volontari (“Reuters”, 5 marzo): “la nostra preoccupazione è che il potenziale di prove e di testimonianze che queste organizzazioni hanno sul campo verrà a mancare„. Eric Reeves, che segue la storia di quest’olocausto africano riferisce (“Sudan Tribune”, 26 marzo) che le espulsioni dei volontari da parte del generale El Béchir “hanno come vero scopo il desiderio del regime di allontanare gli occhi del mondo dal Darfour„. Alla frontiera del Darfour, Brad Philips effettua da tempo il suo ministero su molti fronti a vantaggio di un numero crescente di profughi della sua Comunità. Il titolo dell’ultima relazione della sua Fondazione “Persecution Project” si intitola: Il popolo che il mondo ha dimenticato. Oggi, quindici anni dopo l’inizio di quanto di così atroce è successo nel Ruanda, si potrà evitare una estrema soluzione finale nel Darfour?


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