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Alessandro Di Prima. La luce del pensiero

...mondo che è rappresentato dalle città di Catania, Firenze, Bologna...città attraversate per luce residua

di Maria Gabriella Canfarelli - mercoledì 2 giugno 2004 - 7718 letture

Alessandro Di Prima. La luce del pensiero

Alessandro Di Prima esordisce a venticinque anni con " Per luce residua"(Bologna, Book, 1999): un forte principio autoselettivo preannuncia la misura, l’equilibrio d’una scrittura poetica priva di indulgenze e cedimenti, rigorosamente scomoda, priva com’è di facili soluzioni versificatorie. Varcare lo spazio e il tempo della poesia di questo autore giovane ma provvisto di incisività, cui s’accompagna una vasta cultura umanistica, la capacità indiscussa di fare rivivere la parola con una sensibilità peculiare, equivale a entrare nell’ancora inesplorato, un ignoto che a noi si rivela.

In una tra le più belle poesie di questo primo libro, il poeta stesso avverte che" Ogni parola misura la sua / distanza geografica dalle altre, riflette / la sua solitaria freschezza. / Ogni parola è scarsa e non raggiunge / lo scopo (lo scopo non c’è) ma ristagna /e si asciuga nel suo specchio tranquillo / d’acqua (...) ".

Un riflesso, dunque un riflettere, all’interno del quale la distanza "non potrà che constatare una coincidenza impossibile con le sembianze visibili del mondo", scrive Alberto Bertoni in post-fazione a "Per luce residua"; mondo che è rappresentato dalle città di Catania, Firenze, Bologna, che fa intravedere la mitica Avalon di Artù, il sogno, l’utopia tra liminare e lontananza, città attraversate per luce residua, appunto: "(...) la città/ la persa / figura di noi che sbriga finzioni / e funzioni, inesatte, malcelate / in memoria labile acquosa (...)". Nella sezione " La camera implosa" la consapevolezza della separazione ne "(...) l’ora / segreta che spinge, non vista, / i tuoi passi. (Non è vero, l’ora / non la conosco)" è già il tema della lontananza cui si affianca quello della "luce calma, accennata di matita", la sua alternanza temporale, l’apparizione che precede e conclude la deriva della solitudine notturna ("acqua luce che si chiude - bianca"), una pausa alla febbricitante insonnia del pensiero.

In "Atlante del padre", esitato nel 2003 (ancora per i tipi Book), il poeta offre una parola se possibile ancora più raffinata, punta di diamante che incrina e taglia, e il motivo della luce
- che tutto rivela e tutto nega, luce di verità intraviste e disperse, presenza che ferisce e inquieta - diviene qualità precipua del pensiero, e del pensiero nominante in prima istanza il Padre, figura sullo sfondo e tuttavia pressante alter ego tramite cui interrogare il dolore, in un viaggio cognitivo tra le intricate voci e carte geografiche di tempi e spazi differenziati, nella geografia mobile del sangue e dell’acqua, tra fluidità e solidificazione (e meteoropatia conseguente). Percorrendo distanze da un luogo all’altro (mentre il pensiero la distanza colma o acuisce), paventando il naufragio e il dissanguamento, il respiro si fa misura e forma di adattamento alla mutevolezza meteorologica, ai colpi di coda "turchese del pesce"(horcynus orca) nel viaggio di ritorno, guizzo o "increspatura impercettibile dell’onda".

Se, come dichiarato da Osip Mandel’stam, "Ogni parola è un fascio di significati, e un significato affiora da quello per irradiarsi in varie direzioni", Alessandro Di Prima ce ne fornisce grandissimo esempio: siamo di fronte ad un autore che conosce le vie della scrittura, consapevole che la parola poetica non è consolante né rassicurante salvifico approdo. Il mondo, le cui carte sono raccolte in un "Atlante", è apparentemente stabile: il pensiero lo agita, ed è al contempo del pensiero percorso inquieto (tra il suo farsi e il suo rivelarsi ), il che cosa succede nel breve lasso tra elaborazione ed enunciazione, constatazione del vuoto intravisto quando il pensiero è stato detto, e resta smosso il fondo limaccioso della finta pace, della finta felicità, vuoto che denuncia il montaliano male di vivere, il vizio assurdo o uno stadio della malattia osservati molto da vicino, nell’insistenza lessicale ossessiva - iterazione di lessemi, paradigmi, per approdare alla parcellizzata verità che sembra talvolta (ma non è) una.

Piuttosto, una verità "altra", inquietantemente necessaria alla cognizione. Viaggio- apprendimento oltre il visibile, oltre l’apparizione fenomenica, oltre l’istante e in una condizione di strenua resistenza: "appena sveglio (piove dalle tre,/ quattro del mattino) è mia impressione / pensare in linea retta - senza buche / o venature secondarie, / allora io cammino: primo pensiero del corpo. / (via dell’acqua 628, / in pieno temporale)". L’occhio onnisciente interno/esterno assimila e restituisce, guarda ed è guardato:"se fosse appena un’ombra, qui, sul piano, / quest’amnesia di luce in luce che scarnifica, / potremmo ricomporla partendo dal contrario. / a limitare il buio. a liminare." Ma, anche: "Je voyage pour connaitre ma geographie"(da un anonimo parigino), scrive il poeta in forma di dichiarazione d’intenti in epigrafe; e "Bada ai tuoi passi, /quando ti rechi alla casa di Dio", la sapienza di Qohèlet inficiata dalla vanità, avvertenza e seconda epigrafe , auto-ammonimento a non smarrire la direzione, il cammino da fare valutandone strettoie, restringimenti, ostacoli nel frattempo predisponendo argini, dighe, misure precauzionali: "sognare lo spazio mai trascorso./non passare dove si è già stati. / fare la diga del tragitto.(farlo)"; utilità del pensiero risoluto a determinare e decidere "L’orientamento, dato da forme di verità provvisorie (ma di una provvisorietà temporaneamente assoluta) è teso ad accogliere obiezioni, repliche e citazioni, assunte come materiali del moto di ricerca (qui, del pensiero della lingua)", scrive Sara Ventroni in un passo della accurata prefazione.

E allora: "- come a dire, a volere pensare / che l’occhio al campo restituisce una sua luce / sospesa ovunque uguale: per tutto ciò che vede:/(occhio che a sé trattiene) (se ci fissa)". ed è, la parentesi, forma grafica con cui si conclama, si presenta il pensiero con il suo carico - talvolta insostenibile- di luce combustibile, febbrile, punta bruciante di paventata consunzione. E dunque un luogo / argine, pensiero che si pensa: "da dove, pensami, sistemami, / in un angolo più scuro da non dire / da ritrovare intatto per il giorno:/ luogo spaziale, luogo logico: / (come se non finissi)/ (come per non andare). Necessario ritrovare intatti i nomi, scongiurare l’approssimarsi della malattia adeguando il respiro al diluvio e, dopo questo, rinominare le parti rimaste, resistere, inventariare, conservare "ogni parola in sé annegata, / o forma d’acqua che riposa"; oppure "nominare ancora il poco. forarlo / perché gli arrivi luce e dunque / quasi nulla. lucciole del dire." Nella "privata angiografia dei nomi / per lo spazio di arterie e tempo che ci / taglia", Alessandro Di Prima sa che la r-esistenza della poesia ci appartiene - luogo e spazio da cui attingere molteplice significazione - da che la poesia, scrive Paul Celan, "nomina e instaura" anche se è "sempre e soltanto un io che parla dal particolare angolo di incidenza della propria vita".


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