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Palline da ping-pong

Io capitano / regia di Matteo Garrone ; interpreti Seydou Sarr, Moustapha Fall ecc_. - Italia/Belgio, 2023. - 121 min. ; lingua originale wolof.

di Evaristo Lodi - mercoledì 27 settembre 2023 - 1128 letture

Il volto sferzato dagli spruzzi del mare provocati da un elicottero. Il volto che mano a mano diventa più cereo, più indefinito ma che mantiene un sorriso, un sorriso quasi trionfale anche se venato dalle preoccupazioni per il futuro.

Sembra l’incipit di un romanzo e invece sono le ultime immagini di un film che ormai è già stato narrato quasi per intero dai media e che sembra non avere più sorprese per lo spettatore ritardatario. Il problema è che Io Capitano di sorprese ne mostra ancora e di spunti di riflessione ne genera continuamente.

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Io capitano - poster del film

Sono stato sorpreso dalla recensione che ne ha fatto Simona Cella nella rubrica cinematografica di Nigrizia [1] e, come me, sono rimasti perplessi molti lettori tanto da portare la giornalista, profonda conoscitrice del cinema Senegalese, a fornire una replica. Porto solo questo esempio perché mi sembra superfluo riportare gli altri esempi di critica che sono stati presentati su tutti i media.

La stessa Cella ricorda due film di Matteo Garrone per spiegare il realismo magico del regista: Gomorra (2008, realismo) e Pinocchio (2019, la favola), dimenticandosi forse che il regista ha confezionato molti altri film che possiedono lo stesso stile: Dogman (2018) e Il racconto dei racconti/Lo cunto de li cunti (2015, tratto dall’omonimo capolavoro seicentesco di Giambattista Basile) ma soprattutto dimentica il film Reality (2012) che descrive una Napoli realistica e magica, in preda agli asfissianti stereotipi della società mediatica dei consumi che tutto ingloba e che tutto metabolizza nel suo enorme stomaco “pitonesco”.

Non sono certo un critico cinematografico di professione ma sono cresciuto culturalmente all’ombra di Guido Fink [2] a Bologna e, pur partendo da un amore sviscerato per il cinema americano, sono arrivato a comprendere che sempre si deve vedere il cinema sotto una lente fenomenologica e che le definizioni a priori non forniscono mai un’interpretazione accettabile.

Detto questo, vorrei sottolineare il valore assoluto dell’ultimo film di Garrone, se non altro per il fatto che ha ottenuto una visibilità mondiale, forse sarebbe meglio dire occidentale, sul fenomeno migratorio. Finalmente, il nostro Presidente del Consiglio afferma che è un fenomeno complesso ma mi sento di affermare che mai nessun politico italiano e occidentale ha mai capito la portata di un fenomeno così vasto, profondo e globale che riguarda tutto il pianeta e che ha attraversato sempre la storia dell’umanità.

Se Garrone crea un Senegal di plastica ricco di canti, colori e danze, ben venga. La magia di questo film sta proprio nel cogliere la gioia e l’amore che pervade tutte le popolazioni più povere: nel film non è tanto l’amore magico per la madre, quanto quello di Seydou quando lava la schiena e le ferite all’amico Moussa, con una delicatezza disarmante.

Ovviamente non mi riferisco al dramma della fame e della morte perché lì non c’è spazio per la poesia e per la dignità. Sono reduce da una breve visita in una missione nel nord dell’Uganda e la dignitosa povertà delle persone che ho incontrato è stata davvero entusiasmante. Ho visto amore, gioia, colori, canti e balli ma non mi sono nascosto solo dietro a quest’apparenza: la realtà è molto più cruda e terribile anche se l’Uganda vive un periodo di calma apparente, sotto il potere di un dittatore (Yoweri Museveni) che è in sella dal 1986. Solo per il fatto che sia uno spietato dittatore dobbiamo solo denunciare che il salario medio in Uganda non raggiunge i 100 $ al mese? Ma noi occidentali che responsabilità abbiamo in tutto questo?

In un’intervista [3], Matteo Garrone ha pronunciato soprattutto una frase che mi ha colpito: «L’economia è violenta di per sé». E come dargli torto quando ci mostra le immagini più crude, più violente del deserto e delle torture, quando la dignità umana viene azzerata e si creano legioni di schiavi.

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Io capitano, immagine dal film

Per quasi otto anni ho vissuto a Napoli (dal 1990 al 1998) e un mio amico della Costa d’Avorio mi regalò l’accesso alla comunità ivoriana e non solo. Sono entrato negli appartamenti di coloro che avevano un lavoro e ho accettato la loro ospitalità: ho mangiato con loro e ascoltato i loro racconti. Poi Dario (il nome italianizzato del mio amico) mi ha portato nel quartiere di Pianura, vicino alla nuova sede universitaria che stava per nascere. Ho visto con i miei occhi le condizioni fatiscenti dei migranti negli anni ’90. Un vero e proprio campo di concentramento, fatto di basse palazzine al grezzo, prive di acqua, luce, gas, porte e finestre; un’enorme estensione di povertà. Ero a Napoli e mi sembrava di vivere un sogno apocalittico.

Empatia o indifferenza? Sempre si oscilla fra queste due sensazioni. Il film di Garrone ti impone di fare una scelta precisa. Non dimentichiamoci che la legge Bossi-Fini è ancora in vigore e tutte le politiche di destra e di sinistra che i governi italiani hanno cercato affannosamente di imbastire rimangono a galla come cattedrali nel deserto della disumanità. I centri di accoglienza governativi (le sigle si perdono nel corso del tempo) sono dei veri e propri campi di concentramento; si vuole discriminare i tipi di migranti; la lotta ai trafficanti di esseri umani sembra essere la panacea di tutti i problemi mentre i veri trafficanti proliferano silenziosi e pagano per non essere rinchiusi; lucrare sui nuovi schiavi che ormai sono un esercito è diventato un affare; le ONG vengono colpevolizzate.

E poi ci sono i respingimenti. Proprio in questi giorni Papa Francesco ha parlato di palline da ping-pong. Ma lui è abituato a denunciare tutto ciò che accade ai migranti e a sottolineare la colpevolezza della nostra indifferenza. «Il Mediterraneo da culla della civiltà [è diventato] tomba della dignità» [4]

Per questi motivi non sono assolutamente d’accordo con Cella quando parla di un lieto fine del film. Sì, arriva un elicottero italiano a sorvolare la nave e un’agitazione trionfale si impossessa del protagonista ma cosa accadrà dopo? Appunto, se va molto bene, il migrante di turno riuscirà a trovare un lavoro, a ricongiungersi con la famiglia, in Italia o in un altro paese d’Europa, ma i più non avranno vita facile.

Matteo Garrone è riuscito sapientemente a costruire un realismo magico attorno a una vicenda drammatica cogliendone tutti gli aspetti e spergiurando in tutti gli incontri che il suo film non è politico. Se non lo avesse fatto sarebbe incappato nella critica di essere di sinistra o, peggio ancora, di essere comunista: tutte affermazioni demagogiche, populiste e anacronistiche che avrebbero distrutto la visibilità del film, almeno in Italia.

Simona Cella parla di lieto fine. L’Happy end nel film noir americano è spesso rappresentata dal protagonista che si avvia verso una strada, a volte abbracciato alla sua bella, per intraprendere un’altra avventura che sarà anch’essa, comunque, a lieto fine. La strada invece che dovranno percorrere i protagonisti del film Io capitano è tutta da scrivere e non sarà di certo una passeggiata. Matteo Garrone ha il merito assoluto di scatenare una profonda empatia per la vicenda narrata e spero che accada sempre di più per i milioni di spettatori che lo vedranno. Come si diceva nella preistoria, nel mondo di celluloide il lieto fine ci sarà solo se il film sarà apprezzato, come mi auguro, anche oltreoceano.



[1] Vedi: Nigrizia.

[2] Quasi come l’immaginario del cinema fosse un viaggio onirico, 14 agosto 2022, Girodivite

[3] Fra le tante, mi limito a quella che è apparsa su LA7 nella trasmissione Propaganda Live, puntata dedicata al fenomeno migratorio

[4] Discorso conclusivo dei “Rencontres Méditerranéennes” tenuto il 23 settembre 2023


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