Malaria e bonifica: il lago di Lentini - parte 5 - La vittoria degli agrari catanesi
Da "Mezzogiorno e modernizzazione" di Giuseppe Barone (Einaudi, 1986), capitolo quinto: "Modernizzazione agraria e resistenze sociali nella Piana di Catania", il quarto paragrafo dedicato a: "I consorzi dei proprietari e la sconfitta degli «elettrici»", pp. 222 e segg.. Si ringrazia il prof. Giuseppe Barone per l’autorizzazione alla pubblicazione.
Fu comunque nelle brulle distese della Piana che si svolse l’ultimo atto della vicenda. A differenza del dinamismo dei gruppi dirigenti lentinesi, qui l’iniziativa di costituire il consorzio aveva incontrato fin dall’inizio le resistenze di una grande e media proprietà che era atterrita dagli eccessivi oneri finanziari della bonifica. Ma la situazione di stallo, venutasi a creare in seguito alle numerose opposizioni contro il progetto della Sges, si sbloccò bruscamente nell’ottobre del 1925, dopo una visita alla Piana di Calletti, il quale fissò al 1° maggio 1926 il termine ultimo di presentazione del primo lotto di lavori, dando incarico all’ufficio tecnico della Sges di predisporlo per conto del Provveditorato regionale alle opere pubbliche.
Pur non essendo stata ancora assegnata la concessione, la decisione del provveditore riaccese la lotta fra gli schieramenti avversari. Omodeo e Sartori non disattesero l’occasione propizia e consegnarono puntualmente un progetto per 93 milioni di lire, che prevedeva 16o chilometri di strade, 90 di canali di scolo e 50 di linee elettriche, oltre alla costruzione di quattro villaggi agricoli [1].
L’allarme suscitato fra gli agrari ebbe modo di manifestarsi pubblicamente durante il terzo congresso del Comitato promotore:
“La proprietà privata della Piana - osservò il Fischetti - si trova oggi in questa alternativa: o incorrere nell’espropriazione forzata, per servire di premio all’impresa che eseguirà il progetto di bonifica, oppure, mediante la costituzione del consorzio, sopportare l’onere finanziario dell’esecuzione dei lavori. Se non andiamo errati, tanto l’una che l’altra eventualità significano l’annientamento dell’attuale proprietà privata della Piana di Catania. Secondo noi bisogna quindi fare una questione pregiudiziale. Le opere colossali di carattere igienico-sociale trascendono la capacità economica dei singoli, anche se associati in consorzio, e pertanto dovrebbero essere eseguite dallo Stato, con i suoi soli mezzi finanziari e con i suoi organi tecnici. Il compito del Consorzio dovrebbe limitarsi alla costruzione dei canali di scolo, al riattamento delle antiche trazzere, delle vie comunali, e alla sistemazione dei torrenti” [2].
Erano quindi gli oneri della bonifica, oltre alla tradizionale paura dell’esproprio, a rendere recalcitranti i proprietari della Piana ad assoggettarsi a un qualsivoglia piano di trasformazione, anche se una pattuglia di agrari «illuminati» cercava di trainare tutti gli altri. verso la costituzione del consorzio. Già nel 1924 Vismara aveva dovuto sostenere una polemica giornalistica con chi aveva sminuito la possibilità di costruire invasi artificiali cosí costosi, insistendo piuttosto sui vantaggi del “dry farming” sperimentato nelle praterie americane [3].
Non fu perciò agevole la propaganda che Di Stefano intraprese nella primavera del 1926 a favore del progetto Omodeo:
“Ho trovato a Catania uno spaventevole allarme - scriveva - per la progettata bonifica della Piana: un’agitazione penosa e continua, una folla di proprietari che parlano di leggi infami, di loschi speculatori in agguato, una folla di esasperati che si ripromettono di piantarsi col fucile spianato innanzi all’ingresso della loro proprietà, pronti a far fuoco sull’espropriatore. Ho cercato qua e là di discutere con qualcuno, di convincere, ma in mia risposta mi si sono mostrate le cartucce caricate a palla che dovevano servire per i loschi speculatori” [4].
Tutta l’armatura ideologica del sicilianismo fu utilizzata dalle élites agrarie locali per screditare l’iniziativa capitalistica della Sges: speculazione, affarismo, combine plutocratica, rapina coloniale a danno del Sud; tutta la terminologia più becera di un regionalismo conservatore fu rispolverata, per coprire col velo dell’ideologia separatistica i reali interessi di classe dei ceti proprietari. In un ambiente cosí ostile, Di Stefano sperimentò una tattica abilissima di persuasore occulto, mimetizzandosi nel ruolo del pavido agrario disposto a subire il male minore rappresentato dalla società capitalistica:
“Siamo noi capaci di fare il Consorzio? Pensiamo un attimo a tutte le difficoltà: un ufficio mastodontico da impiantare, trenta ingegneri che studiano, misurano e progettano per sei mesi; geometri, segretari, cassieri, impiegati per varie dozzine, centinaia di appaltanti, un complesso organizzativo piú importante di una banca! E si considerino a parte le difficoltà di mettere insieme le mille opinioni discordi dei mille proprietari, ognuno dei quali vuole inserita nel progetto una cosa diversa dall’altro, che una strada passi di qua, che il ponte sia fatto di là, che il canale vada più giù, e l’argine invece più su, cosicché tutti e trenta ingegneri finirebbero al manicomio, immediatamente seguiti dal Presidente e dai Consiglieri del consorzio [...]. Ma è soprattutto la questione finanziaria che ci fa accapponare la pelle. Bisogna trovare subito 93 milioni da anticipare per il primo lotto di opere, somma che lo Stato rimborserà ratealmente in mezzo secolo. Bisogna escludere il Banco di Sicilia, perché è un istituto d’emissione. Non lo sarà piú, si dice: già, ma il Banco prima di concedere un credito agrario di 10 mila lire fa consumare sette paia di scarpe e tre quintali di carta bollata. Cosa mai richiederebbe per un finanziamento di 93 milioni? Ho paura che la bonifica la farebbero i pronipoti dei catanesi che nasceranno nel 2000! Emettere titoli fruttiferi? Ma c’è qualcuno capace di dimostrarmi la possibilità di collocare 93 milioni di titoli emessi da un consorzio, come se questi appena nato fosse capace di assumere l’importanza della Fiat, della Snia Viscosa o della Montecatini? Oppure daremo, come i ferraresi, garanzia ipotecaria sulle nostre proprietà? Siamo noi disposti ad ipotecare le nostre tenute per una media di 3 mila lire per ettaro? Essendo manifesta l’impossibilità di fare il consorzio, io credo che tutti noi dovremmo ringraziare Iddio se vorrà mandarci fra i piedi un losco speculatore come la Sges!” [5].
La campagna giornalistica era comunque improntata a toni difensivi e tendeva soprattutto a sdrammatizzare il pericolo degli espropri di terra, mettendo in rilievo come il progetto del primo lotto riguardasse solo la bonifica idraulica e non quella agraria, che certamente avrebbe eccitato lo zelo dei proprietari piú intraprendenti. Ormai disponibile al compromesso anche Vismara invitò presso la sede della Società Catanese d’Elettricità Paternò del Toscano e Sollima, esponenti della Federazione agraria etnea, i baroni Vagliasindi e Cafici e altri proprietari, insistendo per una loro compartecipazione finanziaria all’impresa. Negli stessi giorni gli ingegneri della Sges percorrevano in lungo e in largo la Piana per intavolare trattative con i proprietari, mentre l’ufficio-studi diretto dal Sartori reclamizzava sulla stampa cittadina di eseguire consulenze gratuite a favore degli agricoltori [6].
Ma i propositi conciliativi degli «elettrici» non ammorbidirono le posizioni ostili del fronte agrario. Sapuppo Asmundo intervenne sulle colonne del « Giornale dell’isola » per smascherare «la tattica del lupo che si traveste da agnello »: i piani d’irrigazione e i previsti villaggi agricoli stavano ad indicare che la Sges mirava alla doppia concessione, idraulica e agraria, della bonifica; inoltre, nonostante la «doverosa macchina indietro» del governo fascista, restavano tuttora operanti le norme legislative dell’esproprio, mentre a presiedere il comitato per le trasformazioni fondiarie di pubblico interesse era stato nuovamente chiamato «il famigerato Serpieri», che appariva particolarmente «tenero» verso gli affari delle società concessionarie [7]. Sotto il pungolo di alcuni grandi proprietari fervevano ormai i preparativi per la costituzione dell’ente consortile:
“La riunione che si indice per il 26 corrente presso la sede dell’Associazione Agraria - si affermava nella lettera di convocazione - ha lo scopo di avvisare proprietari della Piana che se essi non intendono il grido d’allarme che loro si lancia affinché, riuniti in consorzio, resistano alle mire della speculazione, quasi certamente essi medesimi proprietari finiranno col restare vittime della speculazione. che purtroppo è sorretta da qualche disposizione di legge ancora vigente. Non c’è tempo da perdere, e occorre contrapporre l’autonoma organizzazione dei legittimi interessati alla potente azione speculativa e spoliatrice” [8].
La prosa pungente di Di Stefano restituisce un’immagine realistica dell’ambiente avversario e delle argomentazioni che costituivano il sostrato dell’opposizione agraria:
Mi presentai alla riunione, pur non volendo dare nell’occhio dato che la presiedeva Giovanni Sapuppo Asmundo, personaggio insignificante ma fratello di Antonio, ex sindaco di Catania e nostro avversario perché passibile di esproprio per 24 ettari al lago di Lentini. Ho visto cosí come tutti gli intervenuti si siano sfogati per due ore contro di noi, chiamandoci ladri e briganti, e manifestando il proposito di espellerci dalla Piana mediante la costituzione del Consorzio. L’anima della discussione era stato il cavaliere Fischetti, proprietario di una tenuta e consigliere di prefettura. Questa sua ultima qualità mi fece erroneamente supporre doversi trattare di una persona colta; decisi perciò di avvicinarlo, in veste di collega proprietario, per svolgere un’opera di persuasione. Ho avuto con lui altre due ore di colloquio, che è un vero peccato non aver potuto stenografare per ricordarlo come un monumento d’ignoranza. Substrato d’ogni sua idea: odio feroce contro di noi, assoluta convinzione che ci deve essere del losco in ogni nostra iniziativa. Anzitutto il Testo Unico del 1923 è una infamia; fu loscamente ispirato da Omodeo e dagli alti papaveri della Sges, ed è quindi una legge losca che bisogna distruggere. Noi per ora - diceva lui - facciamo atto di opposizione per pigliar tempo, per rimandare tutto, per avere la possibilità di organizzarci e di chiedere l’abolizione del testo unico. Infatti le strade, gli argini, i fossati, devono essere fatti dallo Stato, senza partecipazione alcuna dei proprietari, perché questi pagano già la fondiaria; chiedere ulteriori contributi è un brigantaggio, è una spoliazione, è addirittura un esproprio, perché il 12,50 per cento è una somma tale da superare il valore attuale della proprietà della Piana” [9].
La riscossa proprietaria non voleva compromessi, ma cercava la vittoria piena. Così come agli inizi degli anni ’20 capitale, scienza e tecnica avevano tentato di dare l’assalto alle terre della Piana, ora erano le élites agrarie locali a mobilitare l’opinione pubblica e ad organizzare il consenso negli alvei ideologici del ruralismo fascista.
Nel 1926-27 i1 capoluogo etneo tornò a svolgere il ruolo di catalizzatore degli interessi, ospitando il quarto convegno del Comitato promotore dei consorzi di bonifica e il secondo congresso regionale dei tecnici agricoli; ancora una volta era nelle città meridionali che si decidevano il destino e gli obiettivi sociali della trasformazione fondiaria. Quando l’ex ministro Carnazza osò affrontare la platea di agricoltori accusando i leader del Comitato, Rocco e Lacava, di volere nei fatti sabotare l’unico serio progetto di bonifica integrale, dovette subire senza repliche la risposta altezzosa da parte di chi riteneva di aver riconquistato il ruolo di classe egemone:
“Aspra è stata la lotta in questi ultimi mesi di nostra attività. Ma le bonifiche le eseguiremo noi; stimoleremo, coi lavori fatti da noi, tutte le energie produttrici della nostra terra; fabbricheremo da noi stessi il pane che occorre alla nostra esuberante popolazione; stroncheremo in pieno la indegna speculazione che i nostri ricchi alleati di ieri hanno fatto e fanno sulla nostra onesta povertà [...]. Faremo da noi, perché la fierezza della nostra razza ce lo permette. Fummo inattivi fino ad ieri, ma non per colpa nostra, ma perché la Sicilia, fino ad ieri, fu considerata, a causa dei Governi che non seppero né vollero valorizzarla, alla stregua di una qualsiasi vilissima colonia africana. Oggi scuotiamo il giogo, perché la nostra coscienza si è ridestata. Faremo da noi: le ricchezze nostre devono rimanere con noi, e di esse dobbiamo godere noi, perché sono nostre e perché Dio ce le ha date!” [10].
Dal luglio ’26 al febbraio ’27 il clima ideologico non cambia, anzi si rafforzano le strutture organizzative del potere agrario. Quando nel palazzo municipale il ministro Acerbo esalta il ruolo dei tecnici nella battaglia economica del regime fascista, tutti gli interventi si allineano sulle nuove direttive filoproprietarie in materia di bonifica. Razza, segretario della Federazione nazionale dei sindacati fascisti dell’agricoltura, si scaglia contro finanzieri speculatori, «gli sfruttatori della terra», la cui estromissione dal Mezzogiorno doveva coincidere con un ritorno dei proprietari alle attività imprenditoriali e di trasformazione agraria, con l’ausilio scientifico dei tecnici agrari. La collaborazione fra proprietari e tecnici agricoli, secondo Angelini, doveva rappresentare la «chiave corporativa» del progresso meridionale basato sulla battaglia del grano e sulla coltura intensiva dei latifondo; né mancarono le manifestazioni pubbliche in cui ribadire il concetto della grande proprietà protagonista della rinascenza isolana, come, ad esempio, l’iniziativa del Comitato di Rocco di fondare tre istituti (meridionale, siciliano e sardo) per la bonifica igienica e la lotta antimalarica [11].
Gli interessi elettroagricoli della Sges nella Piana di Catania avevano ormai i giorni contati. Un decreto reale del 3 febbraio 1927 aveva riconosciuto ufficialmente il consorzio dei proprietari, la cui deputazione provvisoria si affrettò ad avviare trattative con Sgbi e Sibi per rilevare i progetti di bonifica del comprensorio dietro rimborso [12].
Nell’assemblea del 28 agosto gli intervenuti elessero il primo consiglio d’amministrazione, decidendo di presentare istanza per ottenere l’appalto dei lavori e insieme l’utenza delle acque del Simeto.
Su entrambi i versanti, tuttavia, riaffiorarono i contrasti, né fu facile dirimere le controversie sorte tra concezioni cosi antitetiche della bonifica integrale. In merito all’indennizzo Vismara presentò alla fine dell’anno una richiesta di rimborso di quasi quattro milioni. La cifra comprendeva tutte le spese affrontate per i costosi scandagli geologici relativi alla costruzione dell’invaso artificiale sul Salso-Simeto, ma apparve subito sproporzionata rispetto alle modeste capacità finanziarie del consorzio, che reagì denunciando le mire speculative della società elettrica [13].
L’intervento risolutore del provveditore Calletti sbloccò la vertenza soltanto nel febbraio del 1929, allorché la Sges fu praticamente costretta a cedere progetti e planimetrie per una cifra di 1.650.000 lire, per la quale il consorzio contrasse col Banco di Sicilia un mutuo ventennale in ragione di 7 lire annue per ogni ettaro compreso nel perimetro della bonifica: fu questo il prezzo pagato dai proprietari per estromettere definitivamente dalla Piana il gruppo elettrofinanziario [14].
Anche la questione del controllo delle acque si protrasse per un triennio, perché non fu agevole per il consorzio dei proprietari strappare la concessione alla Società per l’Arginazione del Simeto.
Il D.L. 20 maggio 1926 aveva accordato ai consorzi di irrigazione la preferenza rispetto a qualsiasi società privata, in analogia alla «svolta» filoproprietaria decisa dal regime in materia di bonifiche: grazie alla nuova cornice legislativa Sapuppo Asmundo e gli altri influenti esponenti dell’agraria etnea nel gennaio del 1927 costituirono l’ente consortile chiedendo di subentrare al posto dell’impresa affiliata al gruppo Sges. Ma pure in questa circostanza Vismara non disarmò, riuscendo anzi a trovare autorevoli appoggi nel Consiglio superiore dei lavori pubblici, che non esitò ad emettere un parere contrario all’istanza dei proprietari, disattendendo le indicazioni del ministro Giuriati. La precaria rete di canali della Simeto permetteva a stento l’irrigazione di circa 3000 ettari, ma l’esistenza della società apparve ai dirigenti della Sges l’ultima roccaforte su cui trincerarsi per potere aspirare alla concessione della bonifica.
Per vincere le resistenze opposte dalla società gli agrari catanesi chiesero aiuto al Comitato promotore di Rocco, il cui ufficio legale s’incaricò di predisporre i ricorsi al Consiglio di Stato e al Tribunale superiore delle acque, finché anche su questo punto il consorzio riuscì a prevalere, surrogando la Simeto nel 1930 [15].
Da "Mezzogiorno e modernizzazione" di Giuseppe Barone (Einaudi, 1986), capitolo quinto: "Modernizzazione agraria e resistenze sociali nella Piana di Catania", il quarto paragrafo dedicato a: "I consorzi dei proprietari e la sconfitta degli «elettrici»", pp. 222 e segg.. Si ringrazia il prof. Giuseppe Barone per l’autorizzazione alla pubblicazione.
Indice generale: La questione Biviere di Lentini.
[1] U. Sartori, “La bonifica della Piana di Catania”, in «Sicania. Rivista Tecnica del Meridione», 1926, n. 1, pp. 7 sgg. Vedi pure E. Vismara, “Gli impianti idroelettrici in Italia ed il loro contributo all’economia del paese (conferenza al primo congresso mondiale della forza motrice)”, ivi, pp. 19-32; Id., “La regolazione dell’idrologia di un Paese a mezzo degli impianti elettrici”, ivi, n. 2, pp. 23-26. La rivista, diretta dall’ingegnere Giuseppe Montalto e da una équipe di elettrotecnici, visse solo quell’anno per propagandare l’azione della Sges.
[2] “Atti del Comitato promotore” cit., p. 234.
[3] G. Mazzone Sangiorgi, “Bonifiche e irrigazioni in Sicilia”, in «La nuova antologia», 1° dicembre 1923, e la replica di E. Vismara, “Una risposta su bonifiche e irrigazioni in Sicilia”, in «Il giornale dell’isola», 6 gennaio 1924.
[4] Di Stefano a Carnazza, 7 maggio 1926, in Alc, Sibi, b. 1, , fasc. “Lago di Lentini”.
[5] G. Di Stefano, “Per la bonifica della Piana di Catania. Molti equivoci da chiarire”, in Il giornale dell’Isola, 9 maggio 1926.
[6] Per un resoconto di queste iniziative degli «elettrici» cfr. gli articoli di G. Tedeschi, “Deviazioni dannose”, e “Una lettera dell’ingegnere Sartori”, ivi, 15 maggio 1926.
[7] Per la bonifica della Piana di Catania; G. Sapuppo Asmundo, “Ancora sulla bonifica della Piana. Un comunicato della commissione esecutiva per la costituzione del consorzio”, ivi, 12, 14 e 16 maggio 1926. Al riguardo, cfr. però le repliche del Di Stefano, “Per la bonifica della Piana”, ivi, 13 e 25 maggio 2926: «Trovo eccessivamente semplici — scriveva — le vostre speranze di finanziamento. Mi avete snocciolato un elenco di banche, ed avete finito col solito pistolotto a Mussolini. Di concreto finora non avete fatto che depositare 100 lire per ciascuno: siete in sei, in totale 600 lire; per arrivare a 93 milioni ci vogliono 92 999 400 lire soltanto! »
[8] Copia della convocazione, a firma del Sapuppo Asmundo, in Alc, Sibi, b. fasc. “Lago di Lentini”.
[9] “Relazione Di Stefano n. 6 per conto della Sges”, 27 maggio 1926, ívi.
[10] Il discorso di Magnano di San Lio in “Atti del Comitato promotore” cit., pp. 275-82. Per lo scontro verbale tra Carnazza e il presidente del convegno, Serra, vedi pure ivi, pp. 270-71 . Circa gli ordini del giorno inviati dai congressisti a Mussolini, e in particolare contro la Sges, cfr. Acs, Pcm, 1926, fasc. 8-2-2082, “Bonifica di Catania. Voti in merito”.
[11] “Il secondo congresso regionale dei tecnici agricoli affronta il problema della rinascita agraria siciliana; Il riuscitissimo convegno degli agricoltori di Catania e Castrogiovanni; Per la costituzione degli istituti meridionali di bonifica igienica, in «Il giornale dell’isola », 1° febbraio, 11 giugno e 21 settembre 1927.
[12] Cfr. la lettera inviata dalla deputazione provvisoria del consorzio alla Sges e alla Sibi ín data 11 febbraio 1927, nonché la relazione trasmessa in pari data da Sapuppo Asmundo al ministero dei Lavori pubblici in Alc, Sibi, b. 1,, fasc. “Lago di Lentini”.
[13] Ivi. La nota-spese ammontava a 3.738.242 lire e riguardava la contabilità per il periodo 1910-27. Nel fascicolo sono contenute pure le lettere del provveditore Calletti che auspicava un equo componimento della vertenza.
[14] Per le vicende relative al rimborso vedi la circostanziata lettera di Carnazza all’avvocato Lanza dell’8 giugno 1928, ivi, nonché la documentazione conservata in Acbpc, carpetta 2, fasc. H, “Appunti vari”.
[15] Cfr. in proposito il carteggio conservato in Acs, Pcm, 1927, fase. 9-2-106, “Costituzione del consorzio d’irrigazione Piana di Catania e acque Simeto”. Vedi pure la cronistoria della vicenda in Consorzio di bonifica della Piana di Catania, “Fatti e date memorabili!”, Coniglione e Giuffrida, Catania 1927, pp. 12-24, nonché l’altro opuscolo stampato dalla Deputazione provvisoria del Consorzio, “Secondo memoriale presentato a S.E. il Mimistro dei LL.PP. a sostegno dell’istanza di concessione delle acque del Simeto”, Coniglione e Giuffrida, Catania 1927.
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