Malaria e bonifica: il lago di Lentini - parte 6 - La crisi del blocco agrario

Da "Mezzogiorno e modernizzazione" di Giuseppe Barone (Einaudi, 1986), capitolo quinto: "Modernizzazione agraria e resistenze sociali nella Piana di Catania", il quinto paragrafo dedicato a: "Verso la crisi del blocco agrario", pp. 235 e segg.. Si ringrazia il prof. Giuseppe Barone per l’autorizzazione alla pubblicazione.

di Redazione - lunedì 10 febbraio 2020 - 5143 letture

La spinta propulsiva e la contrattualità politica dimostrate dalle élites agrarie nell’estromettere gli «elettrici» dai maggiori comprensori di bonifica dell’isola si esaurirono però ben presto di fronte agli ostacoli tecnici e finanziari posti dalla sistemazione idraulica e dalla trasformazione fondiaria.

Nell’ottobre del 1929 il consorzio presentò finalmente la domanda di concessione per la bonifica della Piana, insieme al progetto esecutivo di un lotto di opere che contraddiceva l’originaria impostazione del piano Omodeo. Il preventivo di 35 milioni, infatti, riguardava soprattutto la costruzione di un’ampia rete stradale e di alcune arginature per i tronchi vallivi di Simeto, Dittaino e Gornalunga, con esclusione di qualunque sistemazione montana, di tutte le linee elettriche e dei serbatoi per la doppia utilizzazione di forza motrice e irrigazione; ridotta a cosi modeste proporzioni, la bonifica della Piana di Catania fu concessa al consorzio dei proprietari con D.M. 15 aprile 1931, limitatamente ad uno stralcio provvisorio di lavori per un importo di 3,4 milioni [1].

Il ridimensionamento dei programmi era giustificato, del resto, dall’azione di freno esercitata dallo Stato per contenere gli impegni finanziari entro il piano di rateizzazione previsto dalla «legge Mussolini»: «occorre procedere oggi - aveva raccomandato il duce in una circolare ai prefetti del marzo ’29 - alla sceverazione dei progetti, cominciando con l’eliminare quelli informati a concezioni grandiose, difficilmente realizzabili, o rivolti a servire bisogni d’urgenza non immediata» [2].

Le esigenze della finanza pubblica si saldavano con gli interessi della proprietà terriera non disponibile a correre l’alea di grandi investimenti fondiari proprio quando la «grande crisi» degli anni ’3o determinava il crollo dei prezzi agricoli. Non ebbe perciò eco alcuna il parere negativo espresso nell’aprile del 1930 dal Consiglio superiore dei lavori pubblici, che stigmatizzò il criterio del consorzio di dare precedenza ai lavori stradali e all’arginatura delle foci fluviali, invece di «provvedere alle sistemazioni idrauliche a monte e all’allacciamento delle acque alte, che sono la causa principale dell’impaludamento della Piana» [3].

Una volta consegnata alle élites agrarie locali la gestione di quella «bonifica integrale» inizialmente concepita contro i proprietari assenteisti, anche le vicende della Piana di Catania nel corso degli anni ’30 non sfuggirono alla sorte di tanti altri comprensori meridionali, dove la riduzione delle sovvenzioni statali e la morosità dei contribuenti consorziati rallentarono l’intervento risanatore, riducendolo a una pigra attività di manutenzione. Scarso coordinamento fra le varie categorie di opere pubbliche, cronico sfasamento tra l’azione dello Stato e le migliorie fondiarie sistematicamente evase dai privati, precarietà dei contratti colonici e mezzadrili nei comprensori: a questi elementi negativi si aggiunse anche la funzione anticontadina assicurata dalle norme relative alla permuta coattiva e alla ricomposizione fondiaria delle piccole quote.

Le velleità egemoniche dei notabili agrari si spensero lentamente, man mano che la paralisi operativa svuotava di ogni potere reale gli enti consortili. Anche nel consorzio della Piana, dove alla morte del Sapuppo Asmundo si era insediata una dirigenza composta dal deputato Pasquale Libertini e dagli aristocratici Paterno Castello, Trigona di Misterbianco, Pennisi di Sant’Alfano e Magnano di San Lio, le rivalità e i contrasti personali si complicarono con le polemiche sorte dal disordine amministrativo e dai rapporti clientelari. Tra il 1931 e il 1934 il consorzio fu sottoposto a numerose inchieste ministeriali, a scioglimenti del consiglio d’amministrazione e a commissariamenti, mentre l’esiguità degli stanziamenti statali alimentava le faide interne tra opposte fazioni di proprietari che si contendevano la destinazione dei lavori oppure si rifiutavano di versare i tributi consorziali [4].

“Il problema della Piana di Catania - riferiva Tassinari al duce - è certamente uno dei più importanti dal punto di vista economico e sociale, ma per affrontarlo in pieno occorrerebbero 300 milioni, mentre finora se ne sono spesi 26 e nel piano ultimamente disposto la somma assegnata ammonta a 14 milioni. La piana si presterebbe sicuramente ad una grande colonizzazione ed i proprietari, come in molte zone del Mezzogiorno e delle isole, non saranno certo nella maggioranza fautori a fatti, e non solo a parole, della trasformazione fondiaria; ma questo non sarebbe un ostacolo per compierla, qualora vi fossero i mezzi disponibili” [5].

La legge del gennaio 1940 per la colonizzazione del latifondo siciliano fu un provvedimento tardivo e comunque inefficace per il comprensorio etneo. La sistemazione idrogeologica della Piana si sarebbe avviata solo alla metà degli anni *50 grazie al massiccio intervento della Cassa per il Mezzogiorno, che avrebbe costruito gli invasi dell’Ancipa e di Pozzillo sulla falsariga del piano Omodeo, consentendo lo sviluppo intensivo dell’agrumicoltura, sebbene rimangano tuttora oggi insoluti problemi di irrigazione e di riconversione colturale nell’ambito della politica agricola del Mec [6].

Nel contiguo comprensorio del Biviere di Lentini la sconfitta degli «elettrici» inaugurò un periodo di difficoltà che sgretolarono la compattezza degli interessi agrari. L’approvazione del progetto da parte del ministero dei Lavori pubblici nel giugno 1928 e l’assegnazione di 15,4 milioni per il primo lotto di opere avevano anzi riacceso le polemiche in seno al consorzio circa la priorità dei lavori e i vincoli di bonifica, cosicché nel 1929 Serpieri fu costretto a sciogliere il consiglio d’amministrazione e ad affidare l’incarico di commissario straordinario al principe Gian Giacomo Borghese [7].

Presidente della Società Condotte, azionista di numerosi istituti di credito e membro influente dell’Associazione nazionale dei consorzi di bonifica e d’irrigazione, Borghese personifica in maniera esemplare il proprietario-imprenditore che nella concezione serpieriana avrebbe dovuto costituire l’elemento propulsivo della bonifica integrale nelle zone latifondistiche del Mezzogiorno. Rispetto alla figura dello scomparso senatore Beneventano, il principe romano disponeva certamente di una minore capacità di controllo della società locale, che in lui identificava l’antico retaggio feudale della palude, anche se le sue competenze di ingegnere elettrotecnico e le entrature negli ambienti finanziari nazionali gli garantivano una capacità di manovra nei meandri della burocrazia ministeriale e una forza contrattuale maggiore di un qualsiasi notabile di periferia.

L’avvio dei lavori consistette nella deviazione del torrente Trigona, alimentatore del lago, e nella sua immissione, con apposito alveo artificiale, nel fiume San Leonardo emissario del lago; nella doppia veste di proprietario del Biviere e di commissario-presidente del consorzio, Borghese si arrogò ben presto tutti i poteri di direzione tecnica e amministrativa, dalla gestione degli appalti (concessi alla ditta Almagià) alla scelta degli impiegati dell’ente [8].

L’oligarchia agraria raccoltasi attorno al patrizio romano (i baroni Magnano di San Lio, Catalano, Fuccio di Sanzà) si lasciò però guidare da criteri privatistici nella esecuzione delle opere, dando precedenza assoluta all’arginatura delle sponde fluviali che costeggiavano le rispettive proprietà, poco curandosi dei danni provocati dalle piene invernali dei corsi d’acqua sugli altri fondi. Nel dicembre 1930 la costruzione dell’argine sinistro del Trigona, lasciata in sospeso dall’impresa appaltatrice per mancanza di stanziamenti, causò l’allagamento dell’azienda Galici tenuta in gabella dal notaio Cassarino, che già ripetutamente aveva segnalato al consorzio l’incongruenza tecnica del progetto:

“La piena devastatrice, che ha distrutto quei campi rigogliosi in cui avevo applicato tutta la mia esperienza di agricoltore, - protestava l’affittuario, - si è verificata unicamente per avermi preso in giro, Lei sig. principe Borghese e l’ingegnere Bonfigli della ditta Almagià. Lei ricorderà che io lo pregai a mani giunte dopo la prima piena dell’ottobre, facendo presente che occorreva chiudere subito l’argine rimasto interrotto. Ella, piuttosto che riconoscere cavallerescamente l’errore tecnico, andò a Lentini ad assumere informazioni sulla mia condotta politica e morale! Ieri l’ingegnere Bonfigli mi ha rivelato la verità finora taciuta affermando che la colpa è del Consorzio perché l’impresa non ha mai avuto appaltato il lavoro! [...]. Se io ieri non ebbi a sparare nel suo studio il detto ingegnere, ciò avvenne unicamente per il contegno glaciale da lui tenuto. Se egli mi avesse menomamente offeso, io senz’altro lo avrei freddato sul posto. Lei, sig. principe, è il responsabile morale della bonifica; dinanzi allo sperpero del denaro fatto nella costruzione del villaggio agricolo in quel punto criticato da ogni anima vivente, non può lesinarsi l’indennizzo completo per i danni da me subiti. Metta da parte il solito disprezzo burlesco e si dia da fare” [9].

Lo svolgimento a singhiozzo delle opere e la prevalenza degli interessi di parte riduceva inesorabilmente l’egemonia del blocco agrario sul sociale. Quando nel 1932 stavano per iniziare i lavori di arginatura della sponda destra del San Leonardo, l’opposizione venne dallo stesso segretario politico del fascio di Carlentini, Federico Tribulato, proprietario di un agrumeto sulla sponda opposta:

“Sembra in sostanza - annotava polemicamente il Tribulato - che il Consorzio siasi ispirato, nella progettazione dei lavori, non alle sistemazioni idrauliche del fiume San Leonardo ed alla bonifica dei terreni adiacenti, volute dal Duce per redimere ubertose plaghe della Sicilia, ma alla protezione di qualche «pezzo grosso», col sacrificio di tanti poveri «filistei». Sol che si guardi la carta dei lavori salta subito all’occhio che si difende con essi l’agrumeto del Barone Cosentino e di qualche altro grosso proprietario, chiudendo tali agrumeti con argini sontuosi, e lasciando abbandonati alle piene e alle tempeste tanti piccoli agrumeti di tanti piccoli proprietari, per i quali sono tutta la vita e tutte le speranze. Ciò non è giusto, e soprattutto non è logico che abbia a verificarsi in barba alle leggi fasciste ed alla volontà del Duce” [10].

Nel microcosmo della società locale il regime fascista non poteva occultare le lotte di potere che attorno alla bonifica si svolgevano in ordine alla priorità delle opere e ai piani di trasformazione. La crisi d’egemonia della grande proprietà divenne manifesta allorché nel 1933 il consorzio ritornò sulle decisioni già prese, chiedendo all’Associazione nazionale una consulenza relativa all’eventuale mantenimento del lago. Una commissione tecnica nominata da Serpieri riprese la proposta del serbatoio d’irrigazione, ma il Provveditorato regionale si oppose nel maggio 1934, adducendo il costo elevato e le difficoltà d’irrigare i suoli salini dei pantani di Lentini e di Celsari. Ora che la Sges era stata estromessa dal comprensorio, si riapriva paradossalmente il contenzioso tra i fautori del prosciugamento e coloro i quali temevano le variazioni climatiche sulle zone agrumetate contigue al Biviere" [11].

Paralizzata l’attività del consorzio dai contrasti interni, toccò al Consiglio superiore dei lavori pubblici riesaminare l’annosa questione; quel consesso ancora una volta rinviò ogni decisione, anche se in seno ad esso esperti come Azimonti, Mangano e Pancini ribadirono la tesi secondo la quale «il prosciugamento, non seguito da perfetta sistemazione del terreno e da continua coltura attivo-intensiva potrebbe aggravare le condizioni, anziché migliorarle, mentre un lago-serbatoio, a contorni fissi, popolato di gambusie, assicurerebbe perfettamente dal lato igienico» [12].

Era, dunque, la tesi sostenuta da Omodeo, e difesa negli anni ’20 dal malariologo Grassi, che dopo dieci anni di lavori, in gran parte inutili, tornava ad affermarsi come la soluzione più razionale e ricca di vantaggi collettivi, nonostante la somma ragguardevole di 31,7 milioni spesi per eliminare lo specchio lacustre. Nel clima autarchico dei tardi anni ’3o ritornò però in auge la direttiva del prosciugamento, e in tal senso il consorzio ottenne nel 1938 un ulteriore finanziamento di 16,6 milioni, anche se lo stesso Azimonti dalle colonne di « Bonifica e colonizzazione » ammoniva di soprassedere da una tale erronea decisione che avrebbe compromesso le opportunità d’irrigazione nella Piana di Catania [13].

Le incertezze degli organi statali centrali e periferici sui criteri tecnici della bonifica, le lotte intestine in seno all’ente consortile e il disinteresse finale dei proprietari del lago portarono all’arresto di ogni attività già prima della guerra. L’ispezione eseguita nel 1946 da Sebastiano Consiglio per conto dell’Alto commissario per la Sicilia rivela impietosamente gli esiti della «bonifica integrale» nel comprensorio dove più acuto era stato lo scontro tra blocco agrario e tecnocrazia riformista:

“Amministrazione: del tutto abbandonata nell’ultimo quinquennio; nessuna riunione del consiglio dei delegati, nessuna traccia dell’attività presidenziale, nessun atto deliberativo;

Lavori di bonifica: in atto fermi. Sono stati spesi male 35 milioni, ne occorrono almeno 250. Il villaggio agricolo non è stato mai abitato se non inizialmente dagli operai delle ditte appaltatrici;

Manutenzione delle opere: completamente abbandonata, specialmente le strade, che sono ridotte in stato di intransitabilità;

Gestione del consorzio, l’assemblea generale dei consorziati non è stata convo-cata dal 1936; la convocazione del Consiglio dei delegati è stata trascurata, manca la ratifica dei bilanci di previsione e l’approvazione dei rendiconti consuntivi dal 1935 in poi;

Personale del consorzio: il direttore amministrativo Notarbartolo da circa un quinquennio da Palermo non è più andato a Lentini; dei due tecnici in forza all’ente, il geometra Zuccalà, unitamente al Notarbartolo, si occupa di altre attività, come l’amministrazione Trabia, nonché di speculazioni private, spesso anche commerciando prodotti del consorzio di bonifica; le stesse speculazioni private sono dallo Zuccalà eseguite con l’aiuto delle due guardie giurate del consorzio”.

Sono infine denunciati, e in parte documentati, “gravissimi fatti di immoralità” avvenuti nei locali del consorzio, dove avevano luogo spesso vere orge organizzate dal Notarbartolo, con la partecipazione di alcune prostitute prelevate dai postri-boli di Catania e Siracusa [14].

Nel secondo dopoguerra la vicenda avrebbe assunto nuovi contorni politici e sociali. La rinnovata amministrazione consortile riuscì finalmente a realizzare il prosciugamento del Biviere entro il 1952, proprio quando la Cassa per il Mezzogiorno nei suoi programmi iniziali aveva previsto l’utilizzazione del lago per la costruzione dell’invaso artificiale che doveva consentire l’irrigazione della zona meridionale della Piana. Con le lotte contadine del 1950-51 il PCI ottenne in favore dei cannucciai e dei pescatori del Biviere l’assegnazione di una parte della superficie prosciugata come rimborso per il mancato reddito della palude; ma fu soprattutto la famiglia Borghese, ostile all’ipotesi del grande serbatoio, che predispose un piano di lottizzazione dei terreni, venduti rapidamente in piccole quote per ostacolare le eventuali procedure d’esproprio, trattenendo per la conduzione diretta soltanto le terre emerse più fertili.

Le trasformazioni socioeconomiche intervenute nel comprensorio con lo sviluppo del polo petrolchimico di Siracusa-Priolo-Augusta e con l’ulteriore espansione delle colture agrumicole acuirono sin dagli anni ’6o il bisogno di risorse idriche supplementari, facendo maturare nell’opinione pubblica e nelle amministrazioni comunali di tutta la zona la consapevolezza dell’errore tecnico ed economico compiuto con il prosciugamento. Le pressioni del movimento sindacale e di quasi tutti i partiti politici della provincia hanno rivendicato la realizzazione dell’invaso artificiale per porre un freno all’irrazionale sfruttamento della falda freatica, saccheggiata dalle migliaia di pozzi scavati dalla Sincat e dai proprietari dei nuovi agrumeti. Il recente orientamento delle forze sociali, cosi diverso da quello tenuto nel cinquantennio precedente, ha indotto la Cassa per il Mezzogiorno nel 1974 a «resuscitare» la filosofia del piano elettroirriguo di Omodeo, anche se aggiornato al mutato contesto produttivo della zona. Grazie a un’ampia cintura in calcestruzzo, che consentirà una profondità massima di 15 metri, il serbatoio del Biviere dovrebbe raddoppiare la capacità di immagazzinamento idrico rispetto al progetto Omodeo, accogliendo fino a 200 milioni di metri cubi d’acqua provenienti dalla sistemazione idrau-lica della Piana. All’agricoltura verrebbero assegnati 68 milioni di metri cubi sufficienti per irrigare 8000 ettari, laddove le esigenze idriche dell’industria sarebbero soddisfatte con 72 milioni di metri cubi per la zona di Siracusa e con 60 per quella di Catania. Il progetto della Casmez ha però incontrato nell’ultimo decennio nuove resistenze sociali: da un lato le centinaia di assegnatari dei terreni del Biviere non intendono sacrificare all’altare della modernizzazione il lavoro di dissodamento e di trasformazione fondiaria durato quasi due generazioni; dall’altro un nuovo braccio di ferro si è scatenato fra industriali e proprietari terrieri circa la destinazione delle risorse idriche [15]. L’attuazione del progetto irriguo della Sges, che negli anni ’2o poteva facilmente attuarsi con l’esproprio del Biviere a danno di un solo latifondista, nella versione più recente della Casmez si scontra con una rete più complessa di interessi organizzati, mentre nuove leve di broker mobilitano il consenso per l’una o l’altra alternativa.

Lo storico, osservava Schlegel, non è un profeta, e non tocca a lui prevedere gli esiti futuri di uno scontro sociale, che tuttavia affonda le sue radici nella storia. Anche per questa via il passato prende la sua rivincita sul presente.


Da "Mezzogiorno e modernizzazione" di Giuseppe Barone (Einaudi, 1986), capitolo quinto: "Modernizzazione agraria e resistenze sociali nella Piana di Catania", il quinto paragrafo dedicato a: "Verso la crisi del blocco agrario", pp. 235 e segg.. Si ringrazia il prof. Giuseppe Barone per l’autorizzazione alla pubblicazione.


Indice generale: La questione Biviere di Lentini.


[1] Copia del decreto di concessione in Assr, Prefettura, pc. 2686, fasc. “Consorzio di Bonifica della Piana di Catania”. Per un esame delle differenze tecniche con il progetto della Sges cfr. Consorzio di bonifica della Piana di Catania, “La bonifica della Piana di Catania nel decimo annuale della marcia su Roma”, Editoriale siciliana Tipografica, Catania 1932, e G. Vagliasindi, “La bonifica integrale in Sicilia e nella Piana di Catania”, in «Bonifica e colonizzazione», n. 4, aprile 1933.

[2] Circolare riservata di Mussolini ai prefetti del Regno in data 12 marzo 1929, in Acs, Pcm, 1928-30, fasc. 3-1-1-1669, “Bonifica integrale del territorio del Regno. Miscellanea”.

[3] Voto del Consiglio superiore dei Lavori pubblici nell’adunanza del 15 aprile 1930 sul progetto 26 ottobre 1929 del Consorzio di bonifica della Piana di Catania, in Acbpc, carpetta 2, fasc. C, “Documenti e decreti concernenti lo statuto consorziale”.

[4] Sulle vicende interne del consorzio vedi la documentata ricerca, condotta sull’archivio dell’ente, di O. Consoli, “Trasformazioni fondiarie e bonifica integrale nella Viaria di Catania (1930-1940)”, tesi di laurea, Università di Catania, 1982, pp. 250-342.

[5] Appunto di Tassinari per il duce in data 20 gennaio 1939, in Acs, Pcm, 1937-39, fasc. 8-2-5970, “Opere di bonifica in Sicilia, sf. Bonifica Piana di Catania”. Vedi pure i riferimenti alla provincia etnea contenuti in Acs. Spd, Co, fasc. 509.731, “Ente di colonizzazione del latifondo siciliano”.

[6] Per questi aspetti piu recenti vedi il saggio di F. Privitera, “Strutture agrarie e problemi occupazionali in una zona di sviluppo capitalistico: la Piana di Catania”, in «Inchiesta», 1977, n. 26.

[7] Per queste vicende cfr. A. Serpieri, “La legge sulla bonifica integrale nel primo anno di applicazione”, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma 1930, pp. 79-127.

[8] Cfr. al riguardo la documentazione conservata in Acbll, “Verbali del consiglio d’amministrazione”, vol. I, pp. 26-68. Per quanto attiene alle operazioni finanziarie di cessione delle annualità del contributo statale vedi pure Assr, Prefettura, pc. 2686, fasc. “Lago di Lentini. Varie”.

[9] La lettera del Cassarino al principe Borghese del 28 dicembre 1930, insieme a un precedente memoriale e a una relazione tecnica della prefettura di Siracusa dell’8 gennaio 1931 nella quale si riconoscevano le ragioni del notaio, ivi.

[10] L’esposto del Tribulato, in data io luglio 1932, ivi.

[11] Acbll, “Verbali del consiglio d’amministrazione, seduta del 28 settembre 1933, voi. II, pp. 24-31.

[12] Il parere della commissione tecnica del Consiglio superiore è riportato da E. Azimonti, “La bonifica del Lago di Lentini (Biviere) in Sicilia”, in «Bonifica e colonizzazione», 1937, n. 6.

[13] La relazione di Tassinari a Mussolini del 23 novembre 1938 in Acs, Pcm, 1937-39, fasc. 3-1-1-6219, “Bonifica del lago e della piana di Lentini. Lavori e spese”.

[14] “Inchiesta sul funzionamento amministrativo del Consorzio di bonifica del Lago di Lentini”, 8 marzo 1946, in Assr, Prefettura, pc. 3431, fasc. “Consorzio di bonifica del lago di Lentini dal 1945 al 1947”, pp. 2-3. Cfr. pure ivi un’analoga relazione presentata da Emanuele De Cillis.

[15] Per i riferimenti alle vicende più recenti cfr. Casmez, “L’approvvigionamento idrico dell’area siracusana”. Roma 1982; P.C.I. comitato comunale di Lentini, “Invaso del Biviere: una scelta di sviluppo non più rinviavate”, s.d. (ma 1979); vedi pure A. Siracusano, “Un polmone d’acqua per dissetare l’agricoltura e l’industria”, in «Il rinnovamento», 19 maggio 1978, p. 5; T. Saitta, “Un programma di riordino irriguo approntato per la Piana di Catania”, in «La Sicilia», 16 aprile 1978. Sulla polemica fra proprietari terrieri e industriali vedi pure “Bisogna difendere le acque del Simeto”, ivi, 20 aprile 1978.


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