Lotte politiche e progetti di trasformazione per la piú grande pianura di Sicilia

Da "Mezzogiorno e modernizzazione" di Giuseppe Barone (Einaudi, 1986), capitolo quinto: "Modernizzazione agraria e resistenze sociali nella Piana di Catania", il primo paragrafo dedicato a: "Lotte politiche e progetti di trasformazione per la piú grande pianura di Sicilia". Si ringrazia il prof. Giuseppe Barone per l’autorizzazione alla pubblicazione.

di Redazione - lunedì 10 febbraio 2020 - 1627 letture

Estesa per quasi 40.000 ettari la Piana di Catania è la piú vasta pianura del Mezzogiorno dopo il Tavoliere di Puglia. Essa degrada dolcemente verso il mare Ionio, recinta a nord dalle cosiddette “terre forti”, ultime pendici meridionali dell’Etna, e a sud dalle estreme falde dei monti Iblei.

Le potenzialità produttive dei suoi terreni di natura alluvionale erano sfruttate solo nella parte perimetrale, che per le condizioni altimetriche non risentiva degli effetti del disordine idraulico esistente nella zona centrale del comprensorio, dove oltre 30.000 ettari di terra continuavano ad essere esposti alle esondazioni delle acque di piena dei fiumi Simeto, Dittaino, Gornalunga. Ai vigneti, agli orti, ai giardini che fiorivano ai margini della conca, opponeva perciò stridente contrasto la vasta depressione centrale coltivata estensivamente e della quale anzi tratti notevoli di terreno rimanevano ogni anno inutilizzati ai fini agricoli. Non trovando opportuni canali colatori, infatti, l’acqua di esondazione e quella delle piogge locali permaneva sui terreni che restavano così impaludati fino alla stagione estiva, quando il sole soltanto riusciva ad evaporare stagni ed acquitrini, anche a ragione della struttura argillosa dei suoli refrattari a un rapido assorbimento.

Al dissesto idrogeologico si aggiungevano le disastrate condizioni della viabilità. Ancora alla metà degli anni ’20 non esisteva alcun ponte sui corsi d’acqua, che si attraversavano a guado: non a caso il Simeto era chiamato dai contadini “giarretta”, dal nome delle piccole e piatte imbarcazioni che venivano utilizzate per andare da una sponda all’altra. Esisteva una sola rotabile che, sfiorando il lato di levante, congiungeva Catania con Raddusa; alla base del quadrilatero, da nord a sud e parallela alla ferrovia, la Piana veniva lambita dalla strada provinciale Catania-Siracusa. Ma per oltre tre quarti della sua estensione il comprensorio non disponeva che di rare e malandate “trazzere” a fondo naturale, intransitabili d’estate per le buche e la nessuna manutenzione, inaccessibili d’inverno per la melma.

Anarchia delle acque e assenza di strade rendevano gravissime le condizioni igienico-sanitarie della Piana, dove la malaria infieriva al punto da impedire qualsiasi stabile insediamento umano. I maggiori centri urbani, a cominciare da Catania posta all’estremità di nord-est fino alle popolase città di Motta Sant’Anastasia, Paternò, Belpasso, Ramacca, Palagonia„ Scordia, sono tutti significativamente collocati ai margini della pianura, lungo il contorno perimetrale del comprensorio, mentre nel cuore interne della Piana il deserto era qua e là sporadicamente interrotto da isolate case-rifugio e da semplici pagliai nelle zone intertorrentizie. Chiunque avesse tentato di stabilirsi nella Piana per alcuni mesi di seguito aveva scarse probabilità di sopravvivere, e anche fra coloro che vi si recavano per qualche settimana durante la mietitura, come i braccianti avventizi provenienti dalla Sicilia interna e perfino dalla Calabria, parecchi morivano sul posto e altri ritornavano a casa in preda alle febbri, spesso responsabili di una definitiva inabilità al lavoro [1].

Dissesto idraulico, malaria, assenza di insediamenti umani favorirono nel tempo la formazione di una struttura fondiaria basata sulla grande proprietà, contribuendo a perpetuare un indirizzo colturale estensivo di cerealicultura alternata al pascolo, in netto contrasto con le colture legnose diffuse alle falde dell’Etna, dei monti Iblei e lungo la fascia retrodunale del litorale. Dall’età medievale, quando divenne possesso della Chiesa catanese, alla metà del xv secolo quando una larga parte fu alienata alla famiglia Paternò Castello, e via via per successivi trasferimenti fino al costituirsi di molti fondi laici e di un demanio comunale in contrada Pantano d’Arci, le variazioni del regime fondiario della Piana hanno scarsamente influito sull’economia latifondistica del comprensorio.

Distribuzione della proprietà per classi d’ampiezza nel 1930.

EttariNumeroSuperficie%
fino a 12512,420,6
1-10147662,842,5
11-20821171,345,22
21-50973370,7615,2
51-100513636,9816,10
101-150202434,1610,38
151-200991565,557
oltre 20126968,1243
Totale54722.541,17100

La distribuzione della proprietà per classi d’ampiezza dimostra come le aziende superiori ai 100 ettari si estendessero per oltre il 60 per cento della superficie; in particolare 26 grandi proprietà da sole coprivano quasi 10.000 ettari del comprensorio.

Anche il regime contrattuale rifletteva i caratteri di un’economia povera e basata sulla monocoltura cerealicola. La forma di contratto più diffusa restava la grande affittanza a vantaggio di un ceto parassitario di gabelloti che subconcedevano ai contadini piccoli appezzamenti mediante complicati rapporti di “metateria” e di retrometateria. Laddove il primo tipo di contratto era comune a tutta l’isola, il secondo era peculiare della Piana: al contadino coltivatore non spettava in genere più di un quarto del prodotto, mentre il resto impinguava le rendite dei gabelloti, che dovunque riuscirono ad imporre forme di amministrazione paramafiose e in molti casi giunsero ad acquistare dalla nobiltà decaduta larghi appezzamenti di superficie agraria [2].

Omodeo aveva cominciato a studiare la sistemazione idraulica e la valorizzazione agricola della Piana di Catania nel triennio 1904-906 al tempo del suo primo soggiorno nell’isola, ma l’opposizione della Società per l’Arginazione del Simeto con i suoi diritti preesistenti aveva bruscamente interrotto il tentativo. Questa società era stata costituita nell’aprile 1859 dal barone Antonio Spitaleri per sfruttare la concessione dell’uso delle acque demaniali del Simeto assegnata per 99 anni dal governo borbonico allo scopo di realizzare un progetto d’irrigazione parziale del comprensorio elaborato sin dal 1846 dall’ingegnere Enrico Dombrè, anche in seguito alle continue sollecitazioni dei Paternò Castello interessati ad ottenere fondi pubblici per la bonifica delle loro vaste proprietà [3].

Poiché la società veniva ad usufruire della vendita dell’acqua solo per l’impegno assunto di eseguire il progetto Dombrè, entro il 1865 furono costruite le opere di presa con una diga in pietrame sul Simeto, da cui partivano due canali laterali, la “saia” di Gerbini a destra lunga 27 chilometri, e la “saia” di Paternò a sinistra di 31,5 chilometri: in totale circa 60 chilometri di canalizzazione sufficiente a coprire un’area potenzialmente irrigabile di 11.000 ettari, ma che per la scarsezza d’acqua alla vigilia della prima guerra mondiale non era stata sottoposta ancora ad alcuna trasformazione fondiaria intensiva. Molteplici difficoltà tecniche e finanziarie costrinsero presto la Società per l’Arginazione del Simeto a non eseguire tutte le derivazioni idrauliche previste dalla convenzione e a limitare la propria attività sociale alla distribuzione delle acque delle due “saie”, dove fra l’altro si registravano notevoli perdite per la pessima manutenzione e la forte evaporazione.

Nello statuto della società furono stabilite tre categorie di vendita dell’acqua: la prima, per concessioni trentennali, dopo il primo decennio di attività (1862-73) non fu piú rinnovata perché poco remunerativa e fonte di continue vertenze con gli utenti; la seconda, a contratti mensili con prezzi differenziati da 28 lire la zappa (pari a litri 7,22) in inverno fino a un massimo di Io() lire in aprile, cadde presto in disuso giacché in caso di siccità l’erogazione veniva arbitrariamente sospesa; la terza, invece, restò a lungo il contratto-tipo più diffuso, basato sulla vendita semestrale al prezzo anteguerra di 336 lire la zappa da aprile a settembre con pagamento anticipato.

Se si considera che le falde acquifere del massiccio etneo erano le più ricche dell’isola, l’estaglio pagato dai proprietari della Piana era davvero oneroso, incidendo mediamente per 66o lire annue per ogni ettaro irrigato, di molto superiore rispetto ai prezzi praticati nelle regioni centrosettentrionali. Si aggiunga che i proprietari del comprensorio erano praticamente costretti a subire il contratto semestrale pur di avere l’acqua nel bimestre luglio-agosto; durante il periodo di siccità, infatti, la media portata alla presa non superava i 1400-1550 litri, assolutamente insufficiente a soddisfare tutte le richieste di utenza irrigua. Unanime era perciò il malcontento contro la gestione speculativa della Simeto non a torto indicata come uno dei principali ostacoli per l’auspicata trasformazione fondiaria della Piana [4].

In coincidenza con le «radiose giornate» del maggio 1915 Omodeo ripresentò al ministero dei Lavori pubblici la richiesta di sistemazione e derivazione idraulica del Simeto che riprendeva, ampliandola, la proposta già avanzata nel 1885 dall’ingegner Travaglia di costruire alcuni grandi serbatoi artificiali allo scopo di irrigare i terreni della Piana. A trent’anni di distanza i progressi tecnologici dell’industria elettrica consentivano di riprendere su basi totalmente nuove il progetto originario: grazie all’alta tensione e al trasporto a distanza i grandi invasi artificiali si prestavano alla doppia utilizzazione per forza motrice e irrigazione. La Piana di Catania, inoltre, presentava una somma di economie « esterne » non facilmente rinvenibili in altre zone dell’isola.

In primo luogo essa era situata al centro del versante della Sicilia da sempre più ricco di attività industriali e commerciali, e le trasformazioni fondiarie conseguibili avrebbero certamente tratto giovamento dalla vicinanza di un mercato urbano come quello di Catania, dove fra l’altro esistevano infrastrutture idonee all’espansione dei traffici (porto, ferrovia, ecc.) [5].

La produzione di forza motrice s’imponeva per integrare gli impianti del Cassibile e dell’Alcantara ormai insufficienti al crescente fabbisogno d’energia, laddove l’esistenza della rete di canali della Società Simeto per circa 6o chilometri avrebbe permesso di ridurre sensibilmente i costi del nuovo sistema di irrigazione.

Omodeo e Vismara per conto della Seso contavano di costruire una diga sull’affluente Salso alla stretta di Don Gennaro per immagazzinare a monte di essa 100 milioni di metri cubi d’acqua, convogliandovi con un canale collettore anche le acque del Simeto; in un secondo tempo occorreva edificare un’altra diga sempre sul Salso in località Pozzillo per un volume di 30 milioni di metri cubi, con un piccolo serbatoio di complemento a Ponte Saraceni sul Simeto. Con un siffatto sistema multiplo di invasi si otteneva una quantità continua di 15 metri cubi d’acqua al secondo, sufficiente ad alimentare due centrali idroelettriche in grado di produrre circa 120 milioni di kW annui.

Le due antiche “saie” di Gerbini e Paternò sarebbero state ampliate e prolungate fino a completarle con un nuovo canale secondario fra il Dittaino e il Gornalunga; un terzo canale avrebbe convogliato acqua nelle “terre forti”, cioè in quei fertilissimi terreni collinari confinanti a sud con i suoli alluvionali della Piana e a nord con le colate laviche dell’Etna, dove fino a quel momento per mancanza d’acqua si coltivavano solamente viti, olivi e mandorli e che invece con la trasformazione irrigua si sarebbero prestati ottimamente alla frutticoltura intensiva [6].

Una plaga tra le più fertili del Mezzogiorno, favorevolmente ubicata per la contiguità coi centro marittimo-commerciale di Catania e confinante con la regione del Bosco etneo dove la densità di popolazione era fra le massime d’Europa (con la conseguente disponibilità di manodopera abbondante e già specializzata nelle colture arboree), poteva essere recuperata ad un’ipotesi di sviluppo agricolo-industriale capace di ricucire il rapporto città-campagna interrotto da secoli di dissesto idrogeologico.

Con l’attuazione delle opere previste si sarebbe infatti triplicata la superficie irrigua del comprensorio: le zone già servite cosi malamente dalla Società per l’Arginazione del Simeto avrebbero usufruito di un quantitativo d’acqua doppio del precedente per un’estensione di 11.000 ettari, e contemporaneamente la trasformazione irrigua avrebbe investito tutto il versante della Piana alla destra del Dittaino per 14.000 ettari e le “terre forti” a sinistra per altri 8000. Senza calcolare i terreni alti o poveri, le colture asciutte e le zone rocciose, l’area effettivamente suscettibile di trasformazione fondiaria comprendeva oltre 20.000 ettari. Dall’attuazione del piano la Seso si riprometteva di conseguire rilevanti effetti economico-sociali sui territorio.

Oltre alla maggiore disponibilità di energia come occasione propizia alla creazione di industrie elettrochimiche, con l’irrigazione sarebbe stato possibile ottenere in poco tempo la riduzione del sistema latifondistico estensivo, il raddoppio nei rendimenti della cerealicultura, l’introduzione delle colture foraggere e di rinnovo, la diffusione delle primizie ortalizie, mentre la migliorata umidità dei terreni avrebbe allargato l’impiego dei concimi chimici con ulteriori benefici per l’occupazione e il reddito della popolazione locale [7].

Fra i tanti ostacoli che si frapponevano alla realizzazione della bonifica integrale della Piana il piú immediato era rappresentato proprio dalla Società per l’Arginazione del Simeto, che già nel 1904 si era opposta alla domanda di concessione avanzata da Omodeo nel timore di vedersi surrogata dalla concorrenza dell’industria elettrica. Pigramente amministrata dai baroni Li Destri e di Villermosa, con un capitale che dagli iniziali 180.000 ducati si era andato progressivamente assottigliando alle 765.000 lire del 1909, essa riuscì a resistere per quasi un decennio prima di cedere le proprie vetuste opere di canalizzazione e di presa, oramai bisognose di una radicale ristrutturazione impossibile da affrontare con i magri proventi della vendita dell’acqua [8].

Nel 1918 giunsero tuttavia a buon porto le laboriose trattative tra le due parti, che si conclusero con una tipica operazione di fusione. La Seso acquisí il pacchetto azionario di controllo della dissestata Simeto, aumentando contemporaneamente il proprio capitale sociale da 15 a 16 milioni; del rinnovato consiglio d’amministrazione di quest’ultima, al posto degli esponenti dell’aristocrazia terriera, entrarono a far parte il consigliere delegato della Seso, Vismara, il direttore dell’affiliata Società Catanese d’Elettricità, Francesco Fusco, e Gabriella Carnazza, mentre la continuità con la passata gestione fu assicurata dall’ingresso del duca Giovanni Trigona di Misterbianco [9].

La via sembrava spianata. Il 21 gennaio 1919 Angelo Omodeo presentava domanda di concessione della bonifica della Piana di Catania e dei comprensori finitimi del Biviere di Lentini e dei pantani di Lentini e Celsani a nome proprio e della Società Generale Elettrica della Sicilia, della Società per l’Arginazione del Simeto, della Banca Commerciale, della Banca Zaccaria Pisa e di un gruppo di proprietari da nominare [10].

L’iniziativa non colse però di sorpresa i proprietari terrieri locali, che sin dal dicembre 1918 si erano riuniti nella sede del Comizio agrario di Catania e avevano eletto una commissione incaricata di promuovere la costituzione del consorzio: alla fine del maggio 1919 la domanda Omodeo era stata appena affissa all’albo delle prefetture di Catania e di Siracusa quando un’identica richiesta fu avanzata dall’ingegnere Nicolosi per conto del costituendo consorzio dei proprietari [11].

Alla contromossa degli agrari lo staff tecnocratíco della Sges rispose immediatamente mobilitando tutti gli appoggi e le influenze di cui godeva in sede politica e amministrativa. Nei primi giorni d’ottobre a Roma Gabriello Carnazza presentava personalmente Omodeo e Vismara a Vincenzo Giuffrida, illustrandogli nei dettagli il progetto elettroirriguo elaborato per la Piana di Catania e pregandolo di assecondare favorevolmente l’iter della concessione « contro gli interessi di coloro che vorrebbero ad ogni costo bloccare la cosa » [12].

Conterraneo di Carnazza e come lui deputato appartenente al gruppo della Democrazia sociale, Vincenzo Giuffrida stava raccogliendo nella città etnea l’eredità politica del popolarismo defeliciano, e le contese amministrative locali avevano anzi creato forti contrasti personali e di potere fra i due notabili, che sarebbero sfociati più tardi in un inconciliabile dissidio. Sul momento, tuttavia, il giolittiano Carnazza non poteva fare a meno dell’aiuto del nittiano Giuffrida, che svolgeva mansioni di capo gabinetto del ministro dei Lavori pubblici Edoardo Pantano, anche egli catanese e intramontabile esponente della democrazia radicale d’origine mazziniana [13].

Contemporaneamente all’appoggio politico dei nittiani siciliani, Omodeo ottenne l’avallo di Bonomi a un’istanza presentata alla Commissione centrale delle bonifiche in cui si contestavano le numerose irregolarità formali della domanda Nicolosi; le pressioni del leader socialriformista sul direttore generale delle bonifiche, Ramasso, e sui membri della Commissione Torri, Petrocchi e Dandolo, sembravano volte a buon fine, quando l’aggravarsi della situazione politica interna pose in primo piano i problemi dell’ordine pubblico, rallentando vistosamente tutte le procedure e i tempi tecnici degli apparati amministrativi [14].

Dopo un anno di completa inerzia, nel dicembre 1920 alcuni fra i maggiori proprietari terrieri della Piana tornarono a riunirsi nella sede del Comizio agrario per sollecitare il decreto di riconoscimento del consorzio di bonifica. Oltre a Giovanni Sapuppo Asmundo, vicepresidente del Comizio agrario e personaggio-chiave nelle successive vicende del consorzio, aderirono all’iniziativa esponenti prestigiosi dell’agraria catanese come il principe Mario Pignatelli, il barone Gaetano Francica Nava, il deputato Angelo Permisi marchese di Sant’Alfano, il principe di Manganelli, numerosi rampolli della famiglia Paternò Castello, nonché alcuni rappresentanti della grande proprietà sprovvista di titoli nobiliari come i Di Stefano Giuffrida, i Cantone, i Papale Capuano, i Fichera Musumeci, insieme a un delegato del comune di Catania proprietario dell’ex feudo di Pantano d’Arci [15].

Dal processo verbale dell’adunanza risulta che la discussione fu tutt’altro che pacifica, poiché alle argomentazioni con cui il Sapuppo Asmundo incitava alla costituzione del consorzio per fronteggiare «la speculazione affarista della coalizione industriale-bancaria settentrionale », altri contrapposero un atteggiamento di ostile diffidenza, come Rosario Fischetti, il quale non esitò ad affermare che «con la bonifica i nostri terreni già per condizioni climatiche abbastanza siccitosi saranno ulteriormente prosciugati, mentre i proprietari terrieri dovranno sopportare oneri contributivi troppo elevati rispetto ai benefici » [16].

A ristabilire il consenso contribuì l’intervento dell’ingegner Nicolosi che chiarì le modalità tecniche e i fini economici del suo piano di bonifica volto a prosciugare i terreni paludosi con la rettifica del Simeto, e soprattutto a dotare il comprensorio di una estesa viabilità rurale.

Il progetto Nicolosi riprendeva nelle linee essenziali quello formulato due anni prima dall’ingegnere del Genio civile Mario Catania, basato sull’idea di spostare la confluenza del Dittaino nel Simeto, portandola piú a monte, e immettendo il Gornalunga nel Dittaino, in modo che il Simeto avrebbe ricevuto i due affluenti non più separatamente, ma dopo la riunione delle loro acque: una siffatta regolazione dei tre principali fiumi della Piana sarebbe stata sufficiente ad evitare i periodici allagamenti, senza necessità alcuna di creare laghi artificiali assai costosi peri contribuenti e «utili soltanto ad arricchire avide società anonime » [17].

Chiamati per appello nominale accettarono la proposta di costituire il consorzio tutti gli intervenuti, alcuni dei quali muniti di delega rilasciata da altri proprietari, cosicché gli aderenti risultarono complessivamente titolari di 32 aziende per una superficie di 5216 ettari. L’elezione della delegazione provvisoria si svolse col sistema del voto plurimo e proporzionale all’ampiezza dell’azienda, assegnando a ciascun elettore un voto come persona fisica e un voto per ogni tre ettari di terra posseduta, così da sancire il predominio della grande proprietà [18].

L’iniziativa consortile suscitò immediatamente una vivace polemica giornalistica. «La Sicilia industriale», il piú prestigioso periodico economico dell’isola finanziato e diretto dall’imprenditore Cosmo Mollica Alagona, denunciò la scarsa pubblicità data alla riunione dei proprietari e le gravi irregolarità nello svolgimento della stessa, quali le adesioni fittizie, gli errori di omissione, l’assenza di qualsiasi procedura democratica allo scopo dichiarato di lasciare emarginata dai processi decisionali la massa dei piccoli e medi proprietari del comprensorio; fondate riserve venivano pure avanzate sul programma dei lavori, così iperbolico rispetto all’inesistente attrezzatura tecnica e finanziaria del consorzio da generare il sospetto che si trattasse soltanto di «polvere negli occhi» per creare difficoltà e ritardi al ben piú consistente piano di bonifica presentato da Omodeo per conto del gruppo elettrobancario settentrionale [19].

Le pesanti accuse costrinsero Sapuppo Asmundo ad uscire allo scoperto con una replica che non lasciava adito a dubbi sulla durezza dello scontro in atto fra blocco agrario isolano e grande industria:

“L’idea del consorzio per la bonifica della Piana dí Catania sorse a questo Comizio agrario nel 1918, molto prima, quindi, del 21 gennaio 1919, data della domanda di concessione presentata dall’ing. Omodeo a nome, “dice”, di un gruppo di proprietari (quali?). Quindi non erano “i fratelli del Nord”, egregio Campestrin, né tampoco “l’alta finanza lombarda che per un verace sentimento di nazionalità - troppa grazia! - volevano sollevare i fratelli del Sud dal loro stato attuale di depressione morale e materiale”. Era null’altro che la domanda di un industriale che intendeva, appoggiato da Banche profittatrici, avere la concessione di un’importante opera, dalla quale si riprometteva lucri non indifferenti, che avrebbero dovuto gravare sicuramente sul contributo arbitrariamente addossato come sempre sui proprietari ignari” [20].

Ai dirigenti della Sges non potevano comunque bastare le dispute giornalistiche per fronteggiare l’opposizione degli agrari che andavano compattandosi attorno ad una linea di intransigente chiusura alla penetrazione del capitale finanziario nelle campagne e di orgogliosa rivendicazione del proprio ruolo di classe egemone tesa a mantenere il controllo sociale sul territorio.

Contro i vischiosi collanti di una società rurale che minacciava di coagularsi in un vasto blocco corporativo di interessi fra proprietari e contadini cementato dalla polemica anticapitalistica e dall’ideologia sicilianista, il piano messo a punto dagli «elettrici» si configurò come una strategia flessibile nei metodi e negli obiettivi.

Il punto d’attacco iniziale consistette nel ribaltare la sfavorevole situazione politica locale attraverso la sostituzione del prefetto Bonomo, assai gradito agli agrari per l’abilità dimostrata durante le occupazioni di terra nel 1919-20, quando era riuscito ad imbrigliare il movimento contadino, limitando al massimo i decreti di concessione [21].

Le pressioni esercitate su Giolitti congiuntamente da Giuffrida e da Carnazza (quest’ultimo nominato nel frattempo sottosegretario al Tesoro) all’inizio del 1921 riuscirono nell’intento di insediare in prefettura Enrico Flores, già segretario particolare di Nítti, e di ottenere la promozione a viceprefetto del conterraneo Giuseppe Poidomani, ex commissario governativo alle abitazioni e defeliciano fedelissimo [22].

Quanto influisse questo cambio della guardia sulle vicende della Piana di Catania è confermato dal rapporto confidenziale inviato a Carnazza dall’avvocato Antonino Lanza, uno dei piú fidati collaboratori dell’équipe professionale che conduceva l’avviatissimo studio legale del notabile catanese:

“Sono stato informato da Roma che il Ministero dei Lavori pubblici ha chiesto alla prefettura di Catania notizie intorno al Consorzio per la bonifica della Piana. Ho avuto una lunga conversazione col comm. Flores, il quale mi ha confermato che in data 19 corrente la Prefettura non ha potuto fare a meno di inviare al ministero gli atti di costituzione del consorzio, aggiungendo però un ricorso di alquanti proprietari contro la costituzione del Consorzio stesso. Ora sarebbe bene che codesto ministero, traendo spunto dal ricorso che è accompagnato da una memoria spiegativa, domandasse al Prefetto “il parere” sulla costituzione e sull’importanza del Consorzio stesso, ín modo che la Prefettura potesse dare tale parere “in conformità ai nostri desideri”. Col comm. Poidomani abbiamo parlato anche della situazione politica in provincia e sulla necessità di mantenere e cementare gli accordi esistenti [23].

Furono soprattutto Vismara e Omodeo ad impegnarsi in un oscuro lavoro di corridoio nei meandri della burocrazia romana conclusosi con l’invio da parte del ministero alla prefettura della sospirata richiesta di notizie riservate sul costituendo consorzio, mentre Carnazza prolungava il suo soggiorno nella città etnea per raccogliere e dare veste giuridica ad alcuni ricorsi contro l’iniziativa consortile degli agrari:

“La risposta del prefetto non è ancora giunta qui, - riferiva dalla capitale l’ingegnere Princivalle, - è arrivato invece il ricorso di un proprietario certamente da Lei pilotato, ma anche un controricorso del Consorzio che sostiene di avere già fatto l’elenco delle proprietà della Piana: anche loro sono evidentemente tenuti al corrente! Comunque il ministero ha chiesto alla prefettura questo elenco. Appare chiaro, tuttavia, che la legalità della costituzione del Consorzio passa ora in seconda linea, giacché per autorizzare la costituzione il ministero dovrà prima essere convinto della vitalità dell’ente: e su ciò non dovrebbero esserci dubbi se da Catania partono le notizie che sappiamo a noi favorevoli. Aggiungo che Giuffrida continua a sollecitare la pratica per noi. Intanto ieri è stata ricevuta dal direttore generale delle bonifiche una commissione di combattenti capeggiata dal deputato Macchi che ha chiesto l’espropriazione di alcuni terreni da bonificare già negata dalla Commissione provinciale. Questi combattenti però hanno dichiarato di non avere fiducia nel consorzio che è solo una manovra per bloccare la nostra iniziativa, e in cambio di lavoro assicurano a noi tutto il loro appoggio. Se li vogliamo alleati, credo che in futuro convenga accordarci” [24].

Per dare credibilità al gruppo elettrobancario Comit-Bastogi-Sges e perfezionare nel contempo l’isolamento del fronte proprietario, Vismara riuscí a convincere Ettore Conti a venire in Sicilia per propagandare il progetto elettroirriguo della Sges per la Piana di Catania [25].

In un’ampia intervista rilasciata al «Giornale dell’isola» (il piú diffuso quotidiano della Sicilia orientale di cui era maggiore azionista e direttore Carlo Carnazza, fratello di Gabriello) il presidente della Confindustria dichiarò di essere venuto appositamente «per esaminare la possibilità di esecuzione di grandi opere che potessero mettere in valore gli inesauribili tesori di ricchezza esistenti in Sicilia», sostenendo che l’avvenire economico della regione dipendeva soprattutto dalle applicazioni dell’energia elettrica e dalla bonifica e irrigazione dei terreni. Dopo avere speso elogi a profusione per Omodeo e Vismara, «novelli artefici della rinascenza sicula », egli non mancò di vibrare una stoccata insidiosa contro il consorzio dei proprietari, quando affermò che «ogni altra iniziativa da sola certamente incapace a portare a buon fine l’iniziativa dovrebbe, anziché intralciare o ritardare l’opera, unirsi e fondersi a chi per il complesso finanziario e tecnico di cui dispone dà l’unico serio affidamento per una pronta attuazione del vasto programma » [26].

La manovra a tenaglia orchestrata dagli «elettrici» per venire a capo dell’opposizione agraria registrò un significativo successo quando il 2 giugno 1921 il ministro dei Lavori pubblici Peano firmò il decreto con cui veniva respinta l’istanza di Nicolosi a nome del consorzio e si autorizzava invece il proseguimento dell’istruttoria sulla domanda di concessione presentata da Omodeo. Deputato di Cuneo e giolittiano «di ferro», già capo di gabinetto dello statista piemontese durante il «lungo ministero» del 1911- 1914, Camillo Peano ebbe ad anticipare a Carnazza i contenuti del decreto con una lettera confidenziale con la quale, in virtú della «comunanza di vedute politiche», gli annunciava di avere risolto «il problema che ti sta a cuore secondo i tuoi desideri» [27].

Alla vigilia della marcia su Roma la bonifica integrale della Piana di Catania era dunque al centro del conflitto d’egemonia che stava disarticolando il blocco agrario-industriale in ordine al riassetto idraulico e agrario delle campagne meridionali. Anche in questo caso il gruppo elettrofinanziario Sges rivendicava il diritto di essere prescelto per l’esecuzione del vasto piano di opere pubbliche, vantando una superiore capacità finanziaria e di pianificazione del territorio, che non intendeva lasciarsi sfuggire l’occasione di utilizzare gli stanziamenti previsti dalla legislazione speciale come direttrice privilegiata di penetrazione economica nell’area etnea.

Ma doveva risultare parimenti inevitabile che i ceti dirigenti locali non si lasciassero passare tra le mani una trasformazione del genere senza tentare di controllarla e di piegarne in qualche modo gli esiti alla stabilizzazione degli equilibri tradizionali di potere. Eredi di un’antica prassi trasformista e da sempre garanti della saldatura tra società civile periferica e apparati centrali dello Stato, gli agrari siciliani non intesero abdicare alla loro funzione di «mediatori» a vantaggio del capitale finanziario settentrionale che minacciava di sottrarre loro forme e spazi di egemonia sul sociale. L’esito finale dello scontro sarebbe dipeso in larga misura dalle scelte di campo a cui era chiamato il nuovo governo fascista.


Da "Mezzogiorno e modernizzazione" di Giuseppe Barone (Einaudi, 1986), capitolo quinto: "Modernizzazione agraria e resistenze sociali nella Piana di Catania", il primo paragrafo dedicato a: "Lotte politiche e progetti di trasformazione per la piú grande pianura di Sicilia". Si ringrazia il prof. Giuseppe Barone per l’autorizzazione alla pubblicazione.


Indice generale: La questione Biviere di Lentini.


[1] G. Rossi, “Malaria e bonifica della Piana di Catania”, Portici 1913. Vedi pure M. Tudisco, “L’insediamento umano nella Piana di Catania”, Ricci, Firenze 1936. Lo studio sociogeografico piú recente sul comprensorio è quello di C. Formica, “La Piana di Catania”, Istituto di Geografia economica dell’Università di Napoli, 1970. Per i primi progetti di bonifica della Piana in periodo postunitario cfr. F. Fichera, “Salubrità, igiene e fognatura nella città di Catania”, Galatola, Catania 1879, e F. Clarenza, “Progetto di bonifica per i terreni soggetti alle inondazioni del Buttacelo e del Simeto nella bassa Piana di Catania”, in “Atti della Deputazione provinciale”, Catania 1886, pp. 47-66.

[2] La tabella, che fa riferimento ai 2 2542 ettari del Consorzio di bonifica costituitosi nel 1927, è consultabile in Acbpc, b. “Documenti vari”.

[3] “Statuto e regolamento organico della Società per l’ Arginazione del Simeto”, Tipografia Coco, Catania 1909, che è la ristampa della concessione sovrana 29 novembre 1858 confermata dal decreto reale 25 aprile 1859. Sulle vicende precedenti la costituzione della società vedi G. A. Paternò (principe di Sperlinga Manganelli), “Memoria sopra l’irrigazione dei campi che attorniano il Simeto”, Sciuto, Catania 1833; vedi pure le notizie riportate in “L’incanalamento del Simeto”, in “Atti della società di acclimazione e di agricoltura di Sicilia”, Palermo 1867, torno VII, pp. 264-66.

[4] Salemi Pace, “Il problema delle acque in Sicilia”, pp. 45-52.

[5] La relazione tecnica di Omodeo dell’aprile 1915, in Alc, b. “Società Elettrica della Sicilia Orientale”, n. fasc. VII, “Progetto di sistemazione e derivazione del fiume Simeto”, pp. 3-15.

[6] Ivi, pp. 27-36.

[7] Ivi, pp. 18-24.

[8] Cfr. il rapporto del prefetto di Catania inviato alla Seso in data 18 maggio 1915, in Alc, b. “Seso 1915”. Vedi pure ivi il carteggio relativo alla fusione tra le due società.

[9] Seso, “Assemblea generale e straordinaria del 3o aprile 1918”, Milano 1918, p. 12.

[10] A. Omodeo, “Bonificazione della Piana di Catania e zone adiacenti”, relazione dattiloscritta in Acbpc, pc. 15, fasc. A, all. 2.

[11] “Bonifica della Piana di Catania. Promemoria per un eventuale ricorso contro la domanda Nicolosi”, inviato dall’ingegnere Vello Princivalle (collaboratore di Omodeo) al consigliere delegato della Sges, Vismara, in data 12 settembre 1919, in Apc, b. 39, fasc. IVA, “Bonifiche”.

[12] Gabriello Carnazza a Vincenzo Giuffrida, i° ottobre 1919, in Alc, “Corrispondenza”, fasc. “Giuffrida”.

[13] Sulle lotte di potere fra carnazziani e giuffridiani a Catania fino alla metà degli anni ’20 rimando al mio saggio “Partiti ed élites politiche”, in aa.v v ., “Società e letteratura a Catania fra le due guerre”, pp. 29-86.

[14] Cfr. l’istanza del 17 ottobre 1919 indirizzata da Omodeo al ministero dei Lavori pubblici presso la direzione generale delle bonifiche, in Alc, “Corrispondenza”, fasc. “Angelo Omodeo”.

[15] Acbpc, carpetta n. 2, fasc. A, “Atti costitutivi del Consorzio”, sf. 1, “Documenti relativi alla precedente iniziativa del 26 dicembre 1920”.

[16] “Verbale dell’adunanza 26 dicembre 1920”, ivi.

[17] Ivi. Sugli aspetti tecnici del progetto vedi M. Catania, “La Piana di Catania e la sua bonifica”, Stabilimento Tipolitografico del Genio Civile, Roma 1918.

[18] Acbpc, “Verbale dell’adunanza 26 dicembre 1920”. La delegazione provvisoria risultò composta da Sapuppo Asmundo, dai baroni Zappalà Tornabene e Anzalone, dal principe di Manganelli, dai marchesi Pennisi -di Sant’Alfano e Giovanni Paternò del Toscano, dall’ingegnere Nicolosi, da Di Stefano Giuffrida, e dall’avvocato Giovanni Motta Coco con funzioni di segretario.

[19] Campestrin, “Il consorzio obbligatorio per la bonifica della Piana di Catania”, in «La Sicilia industriale », III, 30 dicembre 1920.

[20] Un proprietario interessato, “Per il consorzio obbligatorio per la bonifica della Piana di Catania”, ivi, 6 gennaio 1921. Ma le censure furono riproposte tali e quali nella controreplica di Campestrin, “Ancora una parola sul Consorzio per la bonifica della Piana di Catania”, ivi, 13 gennaio 1921.

[21] Cfr. le relazioni del prefetto Bonomo del bimestre ottobre-novembre 1920 in Acs, MI, Dgps, 1920, b. 49, fasc. “Catania”. Vedi pure l’analitica ricostruzione di M. Spatola, “Il movimento contadino nella provincia di Catania nel primo dopoguerra (1919-1922)”, tesi di laurea, Università di Catania, 1969.

[22] Per un profilo di questo funzionario cfr. R. M. Messore, “Le carte del prefetto Poidomani: settant’anni tra politica e amministrazione (1891-196o)”, tesi di laurea, Università di Catania, 1978. Sull’atteggiamento di Flores, decisamente favorevole a Carnazza, vedi pure Saija, “Note sul sistema politico in Sicilia”, pp. 32o sgg.

[23] Antonino Lanza a Carnazza, 24 febbraio 1921, in Alc, “Corrispondenza”, fasc. “avv. A. Lanza”.

[24] Princivalle a Carnazza, 19 marzo 1921, in Alc, “Corrispondenza”, fasc. “Angelo Omodeo”.

[25] Sulle trattative per la visita di Conti in Sicilia vedi i telegrammi conservati in Alc, “Sibi”, pc. 1, fasc. “E. Vismara”. Cfr. pure la lettera del consigliere delegato della Sges a Carnazza spedita da Napoli il 3 febbraio 1921, ivi, “Corrispondenza”, fasc. “E. Vismara”.

[26] “L’avvenire economico della Sicilia. Nostra intervista col senatore Ettore Conti”, in «Il giornale dell’isola», 17 febbraio 1921.

[27] Camillo Peano a Carnazza, 2 giugno 1921, in Alc, “Sibi”, pc. 1, fasc. “Lago di Lentini”. Copia del decreto, ivi.


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