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La cronica crisi del sistema-paese: mettiamoci la faccia e andiamo avanti insieme.

"È ragionevole sintetizzare che la cronicità della crisi sia dovuta essenzialmente alla insipienza tecnica, rispetto alla complessità dei problemi del paese e del mondo, di tutta la classe dirigente politica, la quale per scelta autocratica si chiude nell’autoreferenzialità..."

di Gaetano Sgalambro - domenica 23 febbraio 2025 - 781 letture

“È ragionevole sintetizzare che la cronicità della crisi sia dovuta essenzialmente alla insipienza tecnica, rispetto alla complessità dei problemi del paese e di questo nel mondo, di tutta la classe dirigente politica, la quale per scelta autocratica si chiude nell’autoreferenzialità. Laddove la competenza tecnica altamente qualificata, ramo del sapere, si disconosce essere patrimonio di un’equipe strutturata di esperti multidisciplinari e non di un singolo autore o leader. Per l’appunto, oggigiorno invano ricercato”.

Che l’Italia ristagni in una cronica (pluridecennale) crisi politica, causa del progressivo appiattimento della curva di crescita dei settori nevralgici del suo sviluppo, è un dato oggettivo che non so quanto sia percepito nella sua intera gravità.<

L’opinione pubblica corrente sembra avvertirla in occasione di due suoi epifenomeni: il dibattito per l’approvazione parlamentare del bilancio economico dello Stato, allorché, dovendo fare i conti esatti, sì è costretti ad assumere severi provvedimenti di austerità economica, a discapito di una necessaria politica espansiva; le emergenze idrogeologiche da fragilità del territorio o da eventi climatici maggiori che comportano un pesante costo economico (in debito) per la riparazione dei danni provocati e spesso anche perdite di vite umane.

Nonostante il primo sia a ricorrenza annuale e il secondo a ricorrenza episodica, ma frequente, entrambi sono vissuti ogni volta come se fossero del tutto nuovi e inaspettati. Essi tengono banco nei talk show, sulla carta stampata e sui social, dove si accendono roventi accuse di responsabilità tra le varie forze politiche e le rispettive fazioni, le quali distolgono l’attenzione di ognuno dal ricercarne le radici profonde.

Eppure, di detta crisi, e da molto tempo, sono patognomonici altri fatti fondamentali della realtà economica, politica e sociale del paese, naturalmente tra loro interconnessi. Vedi la costante crescita minimale del PIL, espresso solo in decimali; un debito pubblico incontenibile, nonostante la frequente dismissione di beni e servizi redditizi dello Stato, il quale rende inattuabili i necessari interventi di riforma strutturale; la politica priva del tutto di una visione d’insieme del futuro del paese, che vive alla giornata e affronta solo i bisogni presentati dalla routine ordinaria e quelli conseguenti alle emergenze occorse; il vantare il primato manufatturiero industriale europeo, quando è quello di terzisti; la patologica caducità dei governi per dissidi intestini sull’attuazione programmatica dei loro estemporanei obiettivi di settore, ancorché concepiti e concordati in termini di slogan elettorali; la burocrazia statale che spesso si smarrisce, e fa smarrire, nel dedalo di leggi, norme e circolari interpretative (ne siamo i più prolifici produttori in Europa); il grave e continuo deterioramento di primari servizi sociali; il progressivo incremento delle diseguaglianze sociali; il silenzio tombale sulla irrisolta questione meridionale(storica) e su quella morale (“tangentopoli”); la fuga all’estero di tanti giovani. E non solo! Inoltre, a essa si accompagna il preoccupante epifenomeno del calo demografico.

Ciò nonostante, l’addottorato ceto medio italiano continua a tenersi lontano dal denunziare il silenzio sulle origini della crisi, del suo perpetuarsi, e, più in generale, sulla mancanza di una visione d’insieme dei bisogni del paese da pianificare politicamente. Mentre è puntuale e sollecito a partecipare in tutte le sedi, sia pubbliche che private e soprattutto sui social, a incontenibili dibattiti sui temi più disparati: preferiti quelli su valori di principio e di moralità (tutti temi trattati a salve).

Nello stesso tempo, le classi dirigenti di tutti i partiti, dal canto loro, fanno di peggio: vivono di crisi, portandone serenamente sulle spalle la responsabilità diretta, certi di uno zoccolo duro di consensi elettorali acritici, di natura ideologico-fideistica, o corporativa o lobbistica (fatto salvo il dissenso interno di una minoranza di iscritti di onesta e convinta fede politica); hanno la sfrontatezza, quando si trovano all’opposizione, di usare le sue ricorrenti emergenze come arma contro il governo in carica, dissimulando che appena prima, quando erano stati loro in carica, nulla avevano fatto per prevenirle.

E anche dal mondo dell’informazione pubblica, degli opinion leader politici, così come dai dibatti mediatici, non si è mai levata una valida voce di recriminazione per non averla mai affrontata alla radice, sia verso i partiti sia verso la loro politica, dando così prova di un uniforme vassallaggio prono. Quasi che la cronicità della crisi fosse fatta vivere come uno status naturale o che, grazie all’assuefazione, non venisse fatta percepire in tutta la sua gravità.

Il dato politicamente conclusivo è che nessuna classe dirigente politica delle due ultime generazioni ha mai dato prova, quando è stata al governo, di sapere e di volere affrontare dalle origini e in maniera sistematica la crisi, la cronicità della quale costituisce un potenziale nucleo esplosivo per la società.

Piuttosto alcune sue formazioni politiche si sono furbescamente adoperate, e si adoperano tuttora, per defilare dalla crisi le proprie regioni, in nome di una velleitaria autonomia regionale differenziata, millantata salvifica per tutti; altre ne mistificano la soluzione definitiva con la istituzione di una sorta di “premierato all’amatriciana”, elevata a dignità di “madre di tutte le riforme”. Incredibile!

Nella realtà, intanto, sotto i continui colpi di maglio della crisi, progressivamente incominciano a nascere fermenti di analisi critica nelle coscienze di tanti elettori dei settori più fragili della società, per poi lentamente espandersi anche a quelli di diverse aree del ceto medio. Fino a incrinare i suddetti zoccoli duri di consenso dei partiti parlamentari, gli elettori dei quali cominceranno a spostarsi dall’uno all’altro di essi o verso neomovimenti, per poi, finire con l’abiurarli tutti, dovendo constatare l’inefficacia del loro cambio di voto.

Questo lento processo di presa di coscienza politica, dopo i segnali di allerta delle elezioni nazionali del 2018, quando, dal nulla e senza colpo ferire, il M5S arriva in parlamento in maggioranza relativa, si rende manifesto alle successive elezioni (2022). Allorché, conti alla mano, si è dovuto prendere atto di un’altra nuova realtà politica: poco più del 40% dei cittadini aventi diritto di voto si astengono dall’esercitarlo. Senza contare coloro che hanno votato scheda bianca. E’ una percentuale molto prossima (44%) a quella delle preferenze ricevute dalla maggioranza del governo Meloni.

L’analisi motivazionale di questo fenomeno porta ad espungerne circa il 20%: la somma di quei cittadini che non hanno mai votato e che non ha alcun valore di cambiamento di scelta elettorale.

Laddove l’altro 20% esprime l’univoca “volontà ultima” di un popolo di oltre 11mln. di cittadini, di non farsi più rappresentare in parlamento da alcun partito, a sancire la propria definitiva sfiducia nella loro politica. Oggettivamente sorda a rimuovere le cause della cronicità delle diverse carenze lamentate.

Il mancato ascolto dei partiti è un indiscutibile atto autoreferenziale dalle conseguenze estreme: rappresenta la chiave di volta del perpetuarsi della crisi e la progressiva perdita della rappresentatività del popolo sovrano da parte del parlamento (e dei partiti). Per altro verso equivale a una condizione obbligatoria o di cartello. Detto in termini crudi: chiunque del popolo, magari fosse la sua metà e più, non eserciti il consenso elettorale verso un partito qualsiasi, la cui lista di candidati (cartello) è stata già stabilita in segreteria, viene espulso dal circuito democratico decisionale.

Questo tipo di condizionamento è stato schiettamente validato dagli ultimi presidenti della repubblica, i quali hanno sempre raccomandato vivamente agli astenuti, a prescindere dalle loro note ed oggettive ragioni, di ritornare a votare, invece di raccomandare ai partiti, come etica costituzionale vorrebbe, di prestare ascolto alla volontà di quella significativa parte del popolo che non li vota più.

Ma come siamo passati dall’autorevolezza dei partiti autori della formidabile ricostruzione postbellica alla autoreferenzialità di quelli venuti dopo? Nella risposta stanno le ragioni della cronicità della crisi. Le classi dirigenti dei primi erano costituite da uomini di eletta cultura, raro caso di veri uomini di pensiero in una nazione ad elevato tasso di analfabetismo, i quali avevano le capacità di vedere e di fare fronte agli ingenti problemi di ricostruzione morale, fisica e culturale, nonché di educazione al nuovo regime democratico, del paese distrutto dalla guerra. Essi ebbero il coraggio di assumerne il compito politico, ponendosi alla loro guida.

Sinteticamente, nel volgere della loro generazione riuscirono ad alfabetizzare la nazione; a fare crescere una classe di cultura media; a consolidare il sistema elettorale democratico; a riprendere l’economia dello Stato, che diventa il soggetto economico più importante del paese e il volano della sua crescita generale; a portare il paese in coda a quelli più industrializzati del mondo.

Al ricambio generazionale, con uno scenario così promettente, i famelici interessi economici dei gruppi più organizzati, da quelli interni ai partiti a quelli dei privati, si scatenano alla conquista (democratica?) delle leve di potere dello Stato. Ciò comporta che alla guida dei partiti e alle rappresentanze parlamentari vadano i soggetti capaci di attrarre maggiori consensi elettorali, privi proprio di quella cultura avanzata, necessaria a guidare al meglio l’ulteriore crescita del paese, in un mondo sempre più complesso e globalizzato.

In breve, alla guida dei partiti, dopo le personalità di eletta cultura, vanno personaggi eletti da gruppi di interesse.

Costoro vogliono avere mani libere da definiti impegni elettorali e da razionali vincoli tecnici per potere svolgere una voluttuaria programmazione politica. Infatti, non pensano minimamente di avvalersi della indispensabile consulenza tecnica delle autorevoli fonti esterne e mai riusciranno a presentare un progetto programmatico di legislatura (art.49). Così puntano solo alla conservazione del benessere che si sono ritrovati nelle mani e riducono il paese da grande impresa che ha un continuo bisogno di crescere, a un semplice condominio da manutenere al meno peggio possibile, data la ingravescente cronicità della crisi. A ciò si aggiunge la grave assenza in Italia di autorevoli classi d’intellettuali autonomi, quali punti di riferimento dell’opinione pubblica, capaci di arginare con le proprie opinioni lo strapotere dei partiti e di stimolare il ceto medio alla giusta difesa dei propri diritti.

Ora osserviamo la realtà da un punto di vista istituzionale e politico. Ci troviamo con il popolo sovrano diviso in due parti prossime alla parità: uno, dei votanti, rappresentato in parlamento, l’altro, dei non più votanti, ne è estraneo e può fare sentire la sua voce solo con una proposta di legge d’iniziativa popolare (art.71): una delle poche forme di democrazia costituzionale diretta ma di dubbia incisività. Mentre i partiti pervadono e saccheggiano da corsari neri tutti i gangli nodali delle istituzioni e della società civile, rendendo indistinguibile il ruolo di controllore da quello di controllato, che non giova alla certezza di uno Stato di diritto.

Tutto sta portando verso un parlamento decisamente incerto incerto che rappresenta un popolo sovrano che vota, ma è sempre più striminzito, e un popolo dei non più votanti che si è fatto quota(in forma partito) di maggioranza relativa (almeno per adesso), radiato dalla sua legittima sovranità. Anche lo spazio d’azione della politica interna è divisa in due aree: una detta “condominiale”, imprescindibile, che attiene alla quotidiana gestione, ordinaria e straordinaria, dello status quo, e che assorbe tutte le energie di ogni partito, dove prevalgono sempre quelle più sensibili alle pressioni lobbistiche; l’altra “imprenditoriale” che atterrebbe alla cura del futuro e della buona ed equa crescita della collettività, quasi disertata per scarso interesse dai deputati, in barba all’articolo 67 della Costituzione. Ne consegue che, in parlamento, gli interessi della collettività non siano rappresentati da alcuno. Un profondo vulnus si sta colposamente tracciando tra le istituzioni politiche rappresentative e una parte significativa dei non votanti del popolo sovrano, che assolutamente non ci può lasciare tranquilli. Non può che venirne un ulteriore peggio.

È ragionevole sintetizzare che la cronicità della crisi sia dovuta essenzialmente alla insipienza tecnica, rispetto alla complessità dei problemi del paese e di questo nel mondo, di tutta la classe dirigente politica, la quale per scelta autocratica si chiude nell’autoreferenzialità. Laddove la competenza tecnica altamente qualificata, ramo del sapere, si disconosce essere patrimonio di un’equipe strutturata di esperti multidisciplinari e non di un singolo autore o leader. Per l’appunto, oggigiorno invano ricercato. E allora è inutile cambiare colore politico dei governi per uscire dalla cronicità della crisi, come i partiti vogliono farci credere, o cambiare gli uomini politici con altri, come gli intellettuali velleitariamente sostengono: gli uni, valgono gli altri! Laddove il cambio può essere limitatamente efficace nella politica condominiale.

È più razionale portare i partiti ad avvalersi della consulenza tecnica di equipe di veri esperti multidisciplinari, sulla quale ciascuno potrà fondare i progetti programmatici di legislatura, come sarà detto sulla proposta di legge d’iniziativa popolare (art.71), il cui profilo è riportato in calce. Sarebbe un vero vantaggio per tutti.

I punti di forza su cui potere contare in appoggio a detta proposta sono due.

Il primo è l’alto numero di cittadini che non sono andati più a votare, un popolo addirittura: il solo e valido atto di democrazia critica (!) nella imperante stagnazione culturale, ove annaspano le sparute forze democratiche, in contraddizione di termini con l’autocrazia dei propri partiti, ma pur utili nella politica "condominiale". Esso esprime la cifra significativa di quanti hanno preso coscienza della gravità della cronicità della crisi e che trasversalmente hanno ritenuto, non avendo alcuna opzione positiva, di manifestare in maniera estrema e spontaneamente univoca. Purtroppo non possono esercitare una forza d’urto politica perché si trovano singolarmente distribuiti su tutto il territorio nazionale e hanno perso ogni autostima politica. Tanto più che gli organi d’informazione gli sventagliano i peggiori fatti di cronica quotidiana come eventi antropologici, dai quali proteggersi con l’approdo sicuro proprio in quei partiti, che loro avevano appena abbandonato, a ragion veduta.

Il secondo è costituito dalla piena disponibilità della fitta rete Internet, la quale grazie ai suoi molteplici tipi di interconnessioni (dati-voci-immagini) annulla la dispersione fisica dei non votanti nel paese e garantisce loro la realizzazione di diversi modelli di comunicazione e di aggregazione a distanza. Soprattutto, garantisce di non essere presidiata dai partiti, per cui sarà la sola ad essere usata.

A questo punto il nodo centrale è come fare recuperare l’autostima politica agli 11 milioni di cittadini scafati della politica, dei politicanti, degli opinion leader e dei max media, che rappresentano una massa critica teoricamente sensibile alla mobilitazione per la causa delle cronicità della crisi, la quale sta alla base della crescita del paese. Il recupero dell’autostima politica di questi cittadini, però, è un processo psicologico che avviene elettivamente in un sicuro ambiente amicale, salotto privato o tavola imbandita, per contagio diretto con un amico o comunque con una persona stimata, che la mantiene ancora viva, il Catalizzatore: colui che sa prospettare loro il valido e comune obiettivo politico da raggiungere (in tanti) con un minimo dispendio di tempo (da casa) e insieme agli altri.

In definitiva la mobilitazione di questi cittadini potrà avvenire solo per processi individuali, ma effettuabili ovunque ci sia un’amicale tavola imbandita o un salotto privato, una discussione politica e un Catalizzatore con PC.

E ad ogni incontro fruttifero il Catalizzatore iscriverà se stesso e i contagiati in un gruppo (per noi cellula) di una qualsiasi piattaforma sociale (FB, Instagram, ecc. ). La cellula (per tutte) sarà denominata “mettiamoci la faccia e ..” e in sottotitolo porterà la città di residenza e un sopra nome identificativo e vi saranno declinati i dati anagrafici dei componenti. In essa, ciascuno di loro potrà portare le sue ragioni a solidità dell’impegno assunto e per promozionarlo a terzi amici a distanza. E se qualcuno di questi altri amici resta contagiato, può iscriversi al gruppo o a sua volta, come catalizzatore, creare un’altra cellula “mettiamoci la faccia e …”. In modo da potere effettuare un passaparola amicale sulla rete digitale.

La nascita di ogni cellula sarà registrata nella prima fase sperimentale in una cartella “La morula” della mia rubrica “Quale legge elettorale?” (vedi link in basso) accessibile a tutti in lettura. Andando avanti lo saranno in un unico data base, sviluppabile step by step, ai primi dei quali provvederò io. La rubrica "Quale legge elettorale?", invece, ospiterà in discussione gli argomenti più importanti ricevuti dalle cellule o quelli di eventuali ospiti.

Il cittadino che aderirà all’iniziativa lo farà esclusivamente a suo nome, precisandone sinteticamente le ragioni e pubblicandole sul proprio social e WhatsApp (in carenza utilizzando la cellula social ospite): metterci la faccia è indispensabile per affermare ufficialmente la serietà del proprio impegno e con ciò incoraggiare gli altri.

Il target principale è rappresentato dal popolo dei non votanti e quello secondario dei cittadini votanti per il proprio dovere di “condomini responsabili”. Il primo passo è portare quanti più possibili dei primi ad uscire dal lockdown individuale, ad allargare la propria visuale e il proprio respiro politico, al fine di potere stringere con i consimili distanti rapporti lineari e chiari sull’ obiettivo univoco e trasversale (vedi proposta di legge). E’ indubbio che i social diffusi favoriscano la partecipazione agli eventi di democrazia diretta, com’è il presente. Il punto chiave sarà raggiungere la formazione di una Morula centrale di cellule amicali, fortemente convinta, impegnata e sempre attiva, tale da guadagnare visibilità sulla rete social. E da essa il passaparola, sempre amicale, lungo la rete digitale può prendere lo slancio definitivo.

Accenno che l’iter per la presentazione della proposta di legge d’iniziativa popolare si articola nella raccolta di cinquantamila adesioni, completa di dati anagrafici su un data base; la presentazione del disegno di legge in Cassazione da dieci sottoscrittori, che assumeranno la responsabilità della raccolta delle firme legalizzate sugli appositi moduli che riceveranno; la raccolte delle sottoscrizioni legalizzate dei sottoscrittori entro sei mesi dalla loro consegna. Tutti i dati d’informazione saranno prodotti in work processing.

La proposta di legge consiste nell’includere tra gli adempimenti obbligatori dell’attuale legge elettorale nazionale questi altri adempimenti obbligatori:

- il partito ha l’obbligo di presentare un progetto programmatico di legislatura, già validato tecnicamente da un’agenzia di rating internazionale (l’inaffidabilità politica italiana non lascia altri scampi), scelta da una commissione mista e paritaria della Presidenza della Camera, che ne assumerà anche l’onere economico;

- le parti contraenti pubblicheranno a firma congiunta il protocollo dei reciproci scambi d’informazione concordati per il raggiungimento dello scopo;

- la validazione positiva comporterà la partecipazione alla competizione elettorale e la refusione delle spese sostenute per la consulenza tecnica attivata;

- la validazione negativa comporterà l’esclusione dalla campagna elettorale e nessuna rifusione economica.

Postfazione

La crisi di sistema della politica è un fatto oggettivo molto pesante, il cui carattere di pericolosità è la cronicità o l’ineluttabilità, per la quale il paese è destinato a un triste futuro. E non molto lontano. Bene che ci possa andare riusciremo a mantenere in piedi un sempre più claudicante status quo, grazie all’impegno di quei pochi politici seri ed onesti che vi operano dentro, e alla resilienza, finché dura, della maggior parte delle famiglie italiane.

Essa, a prescindere dalla semplificazione fattene prima, ha origine da lontani problemi prima culturali e storici, poi politici e istituzionali. Districarli, dopo che per due generazioni si sono sedimentati e intrecciati in malo modo, comporta capacità di analisi, di riflessione, di revisione e di strategie di pianificazione. E naturalmente tanto lavoro nel tempo e onestà d’impegno.

A questo punto che si fa? Di fronte alla sua gravità per il futuro prossimo del paese esistono solo due opzioni di capitale importanza: o non si fa niente, pur potendo fare qualcosa, o si pone con buona volontà la prima pietra della lunga via della pur limitata democrazia diretta.

È chiaro che allo spartiacque di questa scelta sta la sensibilità morale, civile e democratica costituzionale di ognuno di noi. O di qua o di la! Senza più infingimenti.

Intanto, in una mia rubrica “Quale legge elettorale?”, ospitata su un sito amicale (https://www.girodivite.it/-Quale-legge-elettorale-.html), potrete intervenire per discutere e suggerire migliorie.

Email: g.sgalambro@libero.it


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