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La Critica è una Cosa Meravigliosa

La Doppia Porta dei Sogni. Scritti di cinema 1977-2001 / Guido Fink ; a cura di Alessandra Calanchi e Paola Cristalli. - Bologna : Edizioni Cineteca di Bologna, 2022. - pp. 404 : br. - (Il cinema ritrovato). - ISBN 979-12-8049-103-9.

di Paolo Prezzavento - lunedì 30 ottobre 2023 - 722 letture

Si narra che a una sontuosa festa hollywoodiana, nel lontano 1972, un executive della Warner Bros prese sotto braccio Malcolm McDowell, il celebre interprete di Alex, l’ultraviolento stupratore di Arancia Meccanica di Stanley Kubrick, e lo portò con sé dicendogli: “Vieni, Malcolm, voglio presentarti Gene Kelly”: Gene Kelly naturalmente era l’arcinoto interprete di Singin’ in the Rain (1952), uno dei musical più famosi e di successo, uno dei film che hanno fatto la storia del cinema. Il malefico duo Kubrick-McDowell aveva ripreso la celeberrima canzone del film, simbolo di spensieratezza, e l’aveva trasformata in un inno allo stupro e all’ultraviolenza, canticchiato dagli aspiranti delinquenti in tutto il globo. Per cui non deve stupire che il grande Gene Kelly, quando l’executive gli batté sulla spalla dicendogli che gli voleva presentare l’interprete di Arancia Meccanica, non si sia voltato neanche e se ne sia andato, sdegnato per come Kubrick e McDowell avevano stravolto la sua canzone. Anni dopo qualcuno disse a McDowell che il grande attore-regista era arrabbiato soprattutto per un altro motivo: perché Kubrick non gli aveva pagato neanche un dollaro di diritti. In questo ebbe un destino simile allo stesso McDowell, che fu pagato per la sua interpretazione ma poi perse qualsiasi diritto sul film, e fu escluso quindi dai fenomenali incassi che Arancia Meccanica fece negli anni successivi.

Nel mondo della critica cinematografica, tra la fine del secolo scorso e i primi anni Duemila, era difficile trovare un critico che fosse in grado di apprezzare pienamente sia la spensieratezza di Singin’ in the Rain e delle classiche commedie americane del periodo d’oro, tra gli anni Trenta e gli inizi degli anni Sessanta, quelle di Ernst Lubitsch, di Billy Wilder, di Frank Capra e di Blake Edwards, sia la terribile bellezza di film come Rapina a Mano Armata (1956), Arancia Meccanica (1972) e 2001: Odissea nello Spazio (1969) di Stanley Kubrick. Questo critico era Guido Fink, la cui vastità di interessi riusciva a spaziare dai filmoni melodrammatici come Duello al Sole (1947), di George Cukor, oppure L’amore è una cosa meravigliosa (1955), di Henry King, passando per la sublime assurdità dei film dei Fratelli Marx, come La guerra lampo dei Fratelli Marx (1933), per arrivare alle geniali innovazioni di cineasti che aprivano al nuovo millennio, come Kubrick.

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La doppia porta dei sogni, di Guido Fink

Guido Fink amava il cinema di un amore viscerale: si capiva, quando ne parlava nelle numerose conferenze e convegni cui partecipava e nelle sue lezioni universitarie, che il cinema era una parte fondamentale della sua formazione umana, civile e intellettuale, che aveva passato innumerevoli pomeriggi in quei locali riscaldati in cui si viene investiti da una serie di immagini e di suoni, quel caldo ventre materno in cui ci si sente protetti, in cui si può partecipare di emozioni fortissime che ci lasceremo tranquillamente alle spalle quando usciremo dalla sala, quei luoghi magici insomma che erano per lui le sale cinematografiche, i cinema della sua Ferrara, ma anche di Parigi (in particolare “le sale strette e puzzolenti del Quartiere Latino”) e di New York, di cui era in grado di citare alcuni dei locali più famosi negli Anni Trenta, il Bijou, il Riviera, ecc. Non era raro incontrarlo negli anni ‘80 a Bologna in uno dei numerosi cinema d’essai, al Lumière o addirittura in qualche sala parrocchiale, a rinfrescarsi la memoria su alcuni classici del cinema americano di cui conservava sempre un ricordo estremamente nitido e preciso, di cui riusciva a raccontare la trama e i personaggi con dovizia di particolari, ogni volta commuovendosi fino alle lacrime quando rivedeva per l’ennesima volta qualche scena particolarmente melodrammatica. Impossibile pensare di arrivare all’esame finale di un suo corso sul Cinema se non avevi visto alcuni film fondamentali come Metropolis di Fritz Lang, Intolerance di Griffith, Il Monello o Tempi Moderni di Chaplin.

Gli scritti cinematografici di Guido Fink rappresentano una miniera inesauribile, in cui il grande critico letterario recentemente scomparso offre una miriade di spunti che non mancano di aprire nella mente del lettore tutta una serie di possibili collegamenti. Bene ha fatto la Cineteca di Bologna a decidere di ripubblicare alcuni suoi scritti di cinema già apparsi sulla rivista Cinema Nuovo e successivamente sulla rivista Cinema & Cinema, di cui fu anche direttore, e di affidare la scelta dei saggi e la curatela del volume a due valide studiose come Alessandra Calanchi e Paola Cristalli. Questi scritti ci riportano indietro a una stagione irripetibile, in cui i critici cinematografici erano anche critici letterari e viceversa, in cui era ancora possibile incontrare qualcuno come Guido Fink che aveva visto tutto e conosceva tutto il cinema, il cinema serio e impegnato e il cinema comico, il cinema d’essai e il musical, non soltanto un singolo genere o un sotto-genere cinematografico. Ogni saggio di Fink è un tale concentrato di cultura – cultura nella sua accezione più ampia, che va dal più dimenticato film sulla Resistenza al più raffinato riferimento agli Emblemi (1634) di Francis Quarles, oppure alla critica letteraria di Georges Poulet e di Roger Caillois – che tutto viene assimilato e contribuisce alla illustrazione e all’esplicitazione del contenuto, del concetto, che Fink intende veicolare. La sua ricchezza di citazioni e di riferimenti non è mai uno sfoggio di erudizione, ma una sapiente mescolanza di parole, parole che in questi scritti più che in altri sono evocative di immagini, di emozioni che non riusciremmo ad esprimere in modo migliore. Ecco allora che ci si imbatte nella rievocazione di un cinema oramai scomparso, il cinema yiddish (vedi il saggio “A piedi da Wielopole”, 1996), un cinema che si esprime in una lingua che non esiste più, un cinema che è stato completamente cancellato dai tragici eventi della Seconda Guerra Mondiale e della Shoa, e si parte dall’immagine di un povero yidl mitn fidl (titolo di un celebre film di Joseph Green), un povero ebreo dell’Est con il suo violino, che si mette in cammino da Wielopole, in Polonia, verso un luogo in cui oramai gli ebrei non esistono più….

Il primo saggio della raccolta La Doppia Porta dei Sogni si intitola “Le mani sulla culla” (1994), e il riferimento è alla culla della Storia dove giace un bambino che non si vede mai, la cui immagine scandisce i passaggi da un episodio all’altro del film Intolerance (1916) di David Wark Griffith, uno dei pilastri della Storia del Cinema. Questo bambino rappresenta ciò che è ancora in incubazione, un accadimento storico che deve ancora compiersi, e il volto del bambino nella culla potrebbe avere le fattezze di uno dei tanti protagonisti di questa Storia di Intolleranza e Violenza, uno dei tanti massacratori della Storia, uno dei tanti dittatori odierni. Giustamente Fink sottolinea il rapporto che si instaura tra le immagini del film e il testo di Walt Whitman, presenza ingombrante nella Letteratura Americana e, grazie a Griffith, anche nel cinema, dato che il suo film-capolavoro vuole essere una trasposizione in immagini di una celebre poesia del grande poeta americano, “Out of the Cradle Endlessly Rocking” (1859), che Griffith era in grado di citare a memoria. Intolerance è il grande film sull’Intolleranza con il quale forse il grande cineasta americano voleva riscattare le accuse di razzismo lanciate contro il suo primo capolavoro, Birth of a Nation, del 1915, il cui contenuto esplicitamente razzista aveva contribuito alla rinascita del Ku Klux Klan.

Fink era dunque il classico esperto di cinema che conosceva a fondo tutta una serie di film estremamente seri, impegnati, come Intolerance, ma anche i grandi capolavori del neorealismo italiano, i grandi film di De Sica, Rossellini, Risi, Antonioni. Fink adorava le commedie americane come i grandi capolavori di Ernst Lubitsch e di Billy Wilder, e naturalmente non rinunciava mai a rivedere per l’ennesima volta alcuni film di Charlie Chaplin, con i suoi personaggi che sapevano mescolare il sorriso e il melodramma, come The Kid and The Dictator, e le slapstick comedies di Stan Laurel e Oliver Hardy – per non parlare dei Fratelli Marx. In questi saggi viene fuori soprattutto la sua grande conoscenza delle cosiddette screwball comedies, cioè quelle commedie più sofisticate – il cui maestro indiscusso era Ernst Lubitsch - che avevano lo scopo di svagare il pubblico ma anche di farlo riflettere e di aggirare in qualche modo la censura veicolando tematiche di critica sociale, quel tipo di commedie che Fink definisce come “una risposta mistificata alla crisi economica, in quanto proponevano una ricomposizione di tutto ciò che la crisi aveva frantumato e diviso: classi sociali, matrimoni falliti, città e campagna, capitale e lavoro.” (p. 52). Ma Fink era anche un esperto di film quasi sconosciuti come il leggendario The Dybuk di Michal Waszynski, oppure l’introvabile Giuseppe in Egitto, di Joseph Green (alias Yoysef Grinberg), film muto italiano ripreso dal cineasta di origine ebraica e trasformato in film sonoro parlato in yiddish.

Alcuni saggi tornano nella Ferrara della sua infanzia, la Ferrara di Giorgio Bassani (“Una lastra invisibile: Bassani e il cinema”, 1988), la Ferrara del Giardino dei Finzi-Contini e delle Storie Ferraresi, per ricreare en passant l’atmosfera cupa di quei giorni, anzi di quella “lunga notte del 1943” – titolo di uno dei migliori film, per la regia di Florestano Vancini, tratti dall’opera di Bassani - in cui Guido Fink bambino scampò per un soffio a un rastrellamento dei nazisti.

In questo saggio, Fink dimostra che l’esperienza di Bassani come critico cinematografico e come sceneggiatore ha contribuito a sviluppare la particolare capacità dello scrittore di fissare le immagini sulla pagina scritta, fino a raggiungere una scrittura eminentemente cinematografica. Il protagonista del romanzo breve L’Airone avvicina il volto alla vetrina del negozio dell’ imbalsamatore, pieno di animali impagliati, e si avvicina così tanto da percepire il freddo del vetro contro il volto. È un’immagine che evoca lo schermo del cinema, il mito di una rappresentazione diretta, “trasparente” della realtà, e allo stesso tempo richiama la nostalgia della morte, una morte che forse è una rinascita, come in Whitman. Bassani critico cinematografico e sceneggiatore spinge dunque quella culla da cui stava nascendo e si stava sviluppando una nuova critica – letteraria e cinematografica - e una nuova letteratura, che ha imparato - anche grazie a Bassani - a essere trasparente e a esprimersi per immagini, a mostrarci direttamente gli oggetti e le situazioni proprio come fa il cinema. Analoghe considerazioni nel segno della “trasparenza” Fink le elabora nel suo saggio su Italo Calvino e il cinema (“L’avventura di uno spettatore”, 1990), rifacendosi ad alcune considerazioni dello scrittore a proposito del linguaggio cinematografico, espresse fin dall’inizio degli anni Cinquanta. Anche la critica più recente sull’opera di Calvino sottolinea l’importanza del Calvino critico cinematografico e sceneggiatore, evidenzia come la riflessione di Calvino sul cinema abbia influito sullo sviluppo delle sue opere letterarie, a dimostrazione del “fiuto” infallibile di Fink sia come critico letterario che cinematografico.

L’ultimo saggio, “La doppia porta dei sogni” (1998), ispira il titolo alla raccolta, e riprende la famosa spiegazione di Penelope sui sogni ne L’Odissea, canto XIX, che ancora oggi indica le due possibili strade che il cinema può percorrere: quella della porta di corno, cioè del realismo, e quella della porta d’avorio, cioè del fantastico. Il saggio è dedicato alla fantascienza e in particolare al viaggio dell’ultimo Ulisse, il lungo viaggio astrale intrapreso dall’astronauta Bowman in 2001: Odissea nello Spazio, un film che ha, tra l’altro, anche l’ambizione di dimostrare l’esistenza di un immaginario alieno, estraneo alla nostra tradizione occidentale, che sta forgiando una nuova narrazione, una nuova storia all’ombra del monolito nero, sta spingendo la culla da cui nascerà un giorno una nuova cultura “aliena”, frutto dell’Intelligenza Artificiale.

A conclusione della raccolta, dopo avere analizzato il passaggio dei suoi scrittori e dei suoi registi preferiti da una o l’altra, o da entrambe, le porte del “sogno”, Fink apre nuove prospettive sul futuro del cinema e sulla evoluzione del linguaggio cinematografico. Il grande critico fa balenare un futuro in cui la riproduzione delle immagini sarà affidata a nuovi media, come i videoclip (qui Fink ha in mente il video che Giorgio Moroder ha ricavato nel 1983 riprendendo gli spezzoni di Metropolis), in cui avremo a che fare con l’Intelligenza Artificiale (prendendo lo spunto dalla reazione “umana, troppo umana” di HAL 9000), in cui dovremo affrontare un nuovo viaggio, una nuova Odissea verso Giove e oltre, nell’iperspazio, come l’astronauta Bowman, trasformato ormai in un feto astrale, e in questo viaggio avremo sempre la strana sensazione di essere osservati da un occhio alieno, influenzato anch’esso dalle immagini che abbiamo creato noi, cioè dal cinema. In 2001: Odissea nello Spazio gli alieni dimostrano di conoscere in modo dettagliato, grazie alla loro “sentinella” che ha seguito lo sviluppo umano attraverso i secoli – il monolito nero - gli interni delle nostre abitazioni, però con uno sfasamento temporale, come se vivessimo ancora nel XVIII secolo. Dunque questo spettatore “alieno” opera un vero e proprio “rovesciamento prospettico” della nostra realtà, come il cinema ha sempre fatto. Insomma la fabbrica dei sogni di Hollywood, quei sogni evocati nel titolo della raccolta, “sogni di cui tutto sommato abbiamo più bisogno” (“La Doppia Porta dei Sogni”), ha forgiato l’immaginario del Ventesimo Secolo, perfino quello degli alieni che ci guardano da lontano, anzi ha raccontato e perfino influenzato il corso degli eventi del Ventesimo Secolo, e continua – grazie a grandi registi e a grandi critici cinematografici come Guido Fink - ad indicare la strada verso cui sta procedendo il Ventunesimo Secolo, attraverso i nuovi media, Internet e le sue piattaforme, i social media e la realtà aumentata.

Giunti alla fine del nostro percorso di lettura, quando infine saremo arrivati, dopo un lungo viaggio nell’immaginario, alla fine di questa straordinaria raccolta di scritti critici di Guido Fink, ci renderemo conto che siamo noi gli alieni, ma questo lo sapevamo già: ce lo aveva già spiegato Fink in un altro suo saggio sul cinema di fantascienza (“Vedere i mostri”, 1988), dimostrando che in fondo i mostri tipici dei film di fantascienza della prima ora, quei mostri dagli occhi di insetto che una volta ci facevano paura ma che adesso sono poco più che dei giocattoli inoffensivi, quei mostri siamo noi…


GUIDO FINK (1935-2019) è stato professore di Letteratura inglese e angloamericana a Bologna e a Firenze, storico e critico di cinema e teatro, studioso di cultura ebraica, direttore dell’Istituto italiano di cultura a Los Angeles. Autore di monografie su Ernst Lubitsch (1977, 1996) e William Wyler (1988) e di Non solo Woody Allen. La tradizione ebraica nel cinema americano (2001), Fink ha scritto moltissimi saggi su riviste (soprattutto “Paragone” e “Cinema & Cinema”, di cui è stato direttore). Numerose anche le sue curatele, tra cui i due volumi dei Meridiani Mondadori dedicati a Saul Bellow (2007). Nel 2015 è uscito, a cura di Roberto Barbolini, Nel segno di Proteo. Da Shakespeare a Bassani, una selezione di suoi scritti letterari. Questo volume è la prima raccolta dei suoi scritti di cinema.



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