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L’inchiesta Hybris e il sodalizio Cosa nostra - ’ndrangheta

Non è una notizia calda, ma vale la pena riproporla e girarle attorno. Nella mattinata di giovedì 9 marzo, i Carabinieri di Gioia Tauro (RC) hanno arrestato 49 soggetti (34 in carcere e 15 agli arresti domiciliari) sulla scorta di un provvedimento di applicazione delle misure cautelari emesse dal Gip del Tribunale di Reggio Calabria, Stefania Rachele.

di francoplat - mercoledì 15 marzo 2023 - 2291 letture

È l’esito di un’inchiesta sviluppatasi tra il 2020 e il 2021, coordinata dalla Procura di Reggio Calabria, Direzione Distrettuale Antimafia guidata da Giovanni Bombardieri, e denominata “Hybris”. Hybris, dal greco, orgoglio, dismisura, tracotanza dell’uomo che sfida, eccessivamente fiducioso in sé, le divinità e, per tale motivo, tracolla. La tracotanza sarebbe quella delle cosche Piromalli e Molé della Piana di Gioia Tauro, a lungo divise da una rivalità partita un quindicennio fa, dopo l’uccisione di Rocco Molé, e riavvicinatesi dopo il ventennale periodo di detenzione del boss Pino Piromalli, detto facciazza. Un riavvicinamento di cui darebbero testimonianza la comune esigenza di controllo del mercato ittico di Gioia Tauro e un summit organizzato nel cimitero locale nel dicembre 2020. In quell’occasione, a quanto dicono gli inquirenti, le famiglie avrebbero disinnescato la tensione che avrebbe potuto ingenerarsi quando il proprietario di un peschereccio incendiato dalla cosca Molé – perché il pescato non era stato conferito al mercato di Gioia Tauro – ha chiesto aiuto alla famiglia Piromalli per ottenere una copertura mafiosa.

Pace fatta, dunque; una pax mafiosa che ha consentito ai clan di occuparsi, con una spartizione condivisa, di settori variegati, da quello ittico, appunto, a quello immobiliare, da quello degli stupefacenti a quello delle cosiddette “guardianie”, ossia le estorsioni nei confronti dei proprietari di fondi agricoli costretti a pagare una quota annuale per evitare la depredazione dei raccolti o i danneggiamenti delle colture. Da qui, la contestazione ai quarantanove arrestati di reati quali “associazione di tipo mafioso”, “concorso esterno in associazione di tipo mafioso”, “porto e detenzione di armi comuni e da guerra”, “estorsioni”, “turbata libertà degli incanti”, “importazione internazionale di sostanze stupefacenti”. Oltre agli esponenti delle due famiglie e ai loro affiliati, l’ordine di arresto ha riguardato anche un finanziere, accusato di aver rivelato a uno degli arrestati l’esistenza di un’indagine a suo carico e un prete, parroco della Chiesa Santa Maria Assunta di Castellace, reo di false attestazioni in atti destinati all’autorità giudiziaria.

L’aspetto giudiziario che qui interessa, però, non è tanto quello legato agli assetti funzionali della cosca Piromalli sul territorio o all’accordo ritrovato con la famiglia Molé. Ciò che qui interessa è un altro volto dell’inchiesta, ossia l’asse mafioso tra Sicilia e Calabria; un presunto sodalizio distante nel tempo, risalente ad anni importanti per il nostro Paese e per la stessa vicenda delle relazioni tra lo Stato e le consorterie criminali: i primi anni Novanta del secolo scorso, quelli della tensione stragista. Il tema è tutt’altro che recente. L’idea o il sospetto che la stagione delle stragi del ’93 e del ’94 fosse da ascrivere anche a un accordo tra Cosa nostra e ‘ndrangheta ha radici lontane nel tempo. Già nel 1995, all’interno delle carte dell’operazione “Galassia” condotta dalla Dda di Catanzaro contro i clan della Sibaritide, tale sodalizio cominciò ad affiorare per via della testimonianza dell’ex boss di Cosenza Franco Pino, il primo a parlare di un summit che ci sarebbe stato in un villaggio turistico di Nicotera Marina nel 1993 fra esponenti della mafia calabrese e uomini di Cosa nostra. Un incontro che, secondo le parole di Pino, era stato organizzato al fine di rispondere alla richiesta dei siciliani di una collaborazione nella strategia stragista contro lo Stato per indurlo a modificare la legge sui pentiti e attenuare il 41 bis. Secondo il collaboratore di giustizia cosentino, in quell’occasione i boss calabresi presenti all’incontro non avrebbero fornito risposta; un no sarebbe arrivato, invece, da Luigi Mancuso, a cui Pino si sarebbe rivolto successivamente.

Tuttavia, né dall’inchiesta “Galassia” né dall’operazione “Genesi” – sempre orchestrata dalla Dda di Catanzaro contro il clan Mancuso nell’agosto del 2000 – sarebbero emerse evidenze giudiziarie in grado di accertare la veridicità del racconto di Franco Pino. Il summit sarebbe, anni dopo, tornato alla ribalta in un processo di cui è in corso l’appello, ossia “ndrangheta stragista”, e che aveva portato in primo grado alla condanna all’ergastolo per Giuseppe Graviano e per il boss di Melicucco, Rocco Santo Filippone, mandanti degli attentati, fra il ’93 e il ’94, ad alcuni militari. In realtà, il processo guidato dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, fin dal primo grado aveva messo in evidenza ben altro e ben di più in sede processuale, ossia la tesi in base alla quale bombe e attentati di quegli anni non fossero una semplice ritorsione dei clan siciliani contro gli arresti e i processi ai boss, ma un progetto politico-eversivo volto a identificare nuovi interlocutori politici dopo la caduta della prima Repubblica e il crollo dei partiti tradizionali. I giudici, nella sentenza di primo grado, precisarono che gli attentati ascritti a Graviano e Filippone «hanno costituito uno dei momenti più significativi di un cinico piano di controllo del potere politico (fortunatamente fallito) nel quale sono confluite tendenze eversive anche di segno diverso (servizi segreti deviati) per effetto anche della “contaminazione” o “evoluzione” originata dall’inserimento della mafia siciliana e calabrese all’interno della massoneria». Insomma, l’analisi del procuratore reggino evoca un quadro inquietante, ma tutt’altro che sorprendente per chi si occupa, per mestiere o per interesse, di tale vicenda. Un quadro in cui, mentre si dissolvevano pezzi del Novecento mondiale – la guerra fredda – e nazionale – il sistema dei partiti – la crisi interna veniva affrontata da soggetti provenienti da diversi contesti (politica, massoneria, servizi segreti, mafie) attraverso una strategia terroristica con finalità golpiste.

L’inchiesta “Hybris” parrebbe, almeno per certi aspetti, avallare una tesi del genere, ossia un progetto eversivo al quale avrebbe preso parte pure la ‘ndrangheta. In un’intercettazione registrata dai carabinieri il 17 gennaio 2021, due interlocutori discutevano di una commissione creata da Pino Piromalli per definire, appunto, quale avrebbe dovuto essere il ruolo della ‘ndrangheta in relazione all’ipotesi stragista. I due interlocutori erano Francesco Adornato, detto Ciccio u biondu, non indagato ma ritenuto un importante esponente delle consorterie calabresi e già condannato negli anni Novanta per associazione mafiosa, e uno degli arrestati lo scorso giovedì, Giuseppe Ferraro. L’audio della conversazione – reperibile in rete – consente di ascoltare Adornato spiegare al suo interlocutore che la commissione si riunì presso il resort “Sayonara” di Nicotera e che, in assenza di Pino Piromalli, parlò in sua vece il boss di Rosarno Nino Pesce, testuni, accogliendo le istanze dei siciliani, ossia dichiarando che le cosche calabresi avrebbero avallato le stragi. A tale adesione, secondo Adornato, si sarebbe invece opposto un altro capo bastone, Luigi Mancuso, detto il supremo: «Luigi… in questa commissione al Saionara gli dice che lui non è d’accordo… perché gli dice Luigi… noi dobbiamo trattare con questi personaggi? … non dobbiamo andare a sparare».

Non si tratta solo di sparare, di sparare genericamente. Seguendo il filo della conversazione, Giuseppe Ferraro ascolta altro da Adornato, ossia la convinzione di quest’ultimo che la lunga detenzione di Piromalli fosse dovuta al benestare calabrese alle stragi, fornito attraverso Nino Pesce, e ascolta ancora: «ce l’hanno messa in culo anche a noi con il 41 bis, ora ci dicono loro di ammazzare… un ministro… prima di fare il colpo di stato». È a questo punto che Adornato elogia la posizione contraria di Mancuso alle stragi, la sua lungimiranza, la capacità di pensare che da uno scontro frontale contro lo Stato la ‘ndrangheta sarebbe uscita sconfitta.

Quanto affiora dall’inchiesta sulla tracotanza dei clan, dunque, ha radici lontane e riscontri ancora da accertare, ma pare indubitabile, mettendo insieme le risultanze di molte indagini, il nostro Paese abbia attraversato, in quello scorcio di fine secolo, una stagione drammatica. La forza argomentativa portata dall’inchiesta “Hybris” all’ipotesi del connubio stragista fra ‘ndrangheta e Cosa nostra è data, in particolar modo, dal fatto che la risultanza deriva da un colloquio intercettato, non da una testimonianza ponderata e, per sua natura, potenzialmente depistante. Certo, volendo menare il can per l’aia, un bravo mafioso potrebbe portare a spasso gli inquirenti con una finta conversazione. Ma le parole di Adornato, pur con significative varianti rispetto a quelle di Franco Pino – che sosteneva la non adesione ‘ndranghetista alla richiesta siciliana –, non lasciano spazi a grossi dubbi sul fatto che un progetto eversivo ci sia stato, sul fatto che il crollo di un certo sistema politico abbia portato a ipotesi di un governo autoritario della transizione a un’altra fase, sul fatto che la transizione sia poi arrivata, con il nome di seconda Repubblica. Governata da altri attori politici, oggi ancora invischiati nella terribile vicenda delle stragi. Per uscire dall’ambiguità ci si riferisce a Dell’Utri e Berlusconi.

Il procuratore Giuseppe Lombardo ha chiesto due giorni fa di acquisire il materiale relativo all’intercettazione telefonica di Adornato, facendo così slittare la sentenza d’appello del processo “’ndrangheta stragista”. Non a caso. Non a caso perché non soltanto le frasi di Adornato sconfessano quanto sostengono i difensori di Graviano e Filippone, ossia che non esistono sentenze passate in giudicato circa la presenza di componenti apicali della ‘ndrangheta nella strategia stragista, ma anche perché quella conversazione ribadisce che il progetto stragista aveva fini più ampi e drammatici del superamento del carcere duro per i mafiosi. E quei fini certo sono ancora da comprovare, ancora da argomentare in modo più esaustivo e convincente, ma cominciano a evidenziarsi nel loro disegno e nella mano muta che li ha abbozzati e che desidera rimanere muta.

Quando in questo Paese si evocano le linee di quel disegno, i detrattori della tesi del progetto eversivo – per malizia o per candida ingenuità – si mostrano indignati e ricorrono all’epiteto “complottisti”, usato ormai come ingiuria che squalifica chi cerca o chiede una verità diversa da quelle ipocritamente rassicuranti usate da un secolo e mezzo. Quali verità? La mafia non esiste o, se esiste, è cattiva ma si “ammazzano tra loro” o, se non si ammazzano tra loro, è cattiva e si afferma tra le popolazioni meno civili del Sud, omertose e ontologicamente mafiose o, se la ritroviamo anche al Nord, non è vero o, se è vero, è una mafia che non spara e fa meno paura o, se fa paura, lo Stato buono la sconfigge o, se non è del tutto buono, tanto abbiamo gli eroi che ci difendono o, se gli eroi vengono ammazzati, tanto è un fenomeno superficiale destinato a estinguersi o, se non si estingue, impareremo a conviverci, come con le malattie endemiche. E di rassicurazione in rassicurazione, di processo in processo, di negazione in negazione, scopriamo con triste meraviglia che la vicenda politica italiana è impregnata di un sodalizio criminale complesso, nel quale si inscrive anche l’accordo tra Cosa nostra e ‘ndrangheta, che ha svilito, ammesso mai sia stato realmente operante, l’assetto democratico nazionale.

Sia chiaro: Adornato non ha dato vita a un colpo di Stato. Una conversazione non è né un atto né un fatto politico; è una conversazione. Ma le bombe non sono una conversazione, le stragi non sono un vacuo blaterare, i segnali di allarme di tanti osservatori sul modello evolutivo delle consorterie criminali che non mettono più bombe ma cercano reti di relazioni, e le trovano, non sono la delirante chiacchierata di un uomo con un altro uomo, ma sono evidenze giudiziarie, giornalistiche, sociologiche, storiografiche. Forse, l’hybris mafiosa è giustificata dal fatto che le divinità, da un secolo e mezzo, sono distratte o complici o convinte che al paradiso comune debba accedere solo qualcuno, qualcuno restio ad accettare l’idea che uno scenario democratico sia un mondo possibile, imperfetto forse, ma meno sanguinoso e predatorio, meno vorace ed elitario del mondo in cui passeggiamo ignari di essere, ogni giorno di più, depredati delle nostre spossate libertà.


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