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Ho perso tre arti in Afghanistan, ma dovevo tornare

La storia del fotografo britannico Giles Duley che torna a Kabul per raccontare le vittime della guerra

di Redazione - martedì 4 giugno 2013 - 3069 letture

Un articolo di Giles Duley


Probabilmente non erano quelle le parole che mia sorella si aspettava di sentire, ma nelle prime settimane successive all’esplosione, con il corpo in preda all’infezione e gli organi che stavano collassando uno dopo l’altro, le sole che mi riuscì di sussurrarle all’orecchio furono: «Sono ancora un fotografo». Può sembrare ridicolo, ma quelle parole rappresentavano il tentativo del mio debole corpo di conservare la propria identità, di attaccarsi a ciò che ancora mi definiva, andando oltre le ferite, la coscienza appannata e il coma indotto.

Alcuni mesi prima sedevo nel caldo feroce del Sudan con Gino Strada, il carismatico chirurgo – e accanito fumatore – che ha fondato Emergency. Ero in visita al progetto realizzato dalla Ong a Khartoum, il modernissimo CentroSalamdi cardiochirurgia, e si discuteva della situazione dei civili coinvolti nel conflitto afgano e del lavoro di Emergency a Kabul. Non ero mai andato in Afghanistan: ho sempre pensato che vi fossero già molti bravi fotografi impegnati in quel Paese e, come mi piace sostenere, se arrivi in un posto e trovi un altro fotografo, significa che sei nel posto sbagliato. Il mio interesse principale, invece, è documentare le storie della sofferenza umana che altri non raccontano. Mentre Gino mi parlava della terribile situazione in cui versano i civili coinvolti in un conflitto che dura da anni, tuttavia, mi resi conto che questa era una storia di cui avevo sentito parlare molto poco. Immediatamente feci una promessa a Gino: sarei andato a documentare il lavoro di Emergency a Kabul.

Pochi mesi dopo ero in Afghanistan, al seguito della 101a Divisione aviotrasportata americana. Stavo preparando Document– la mia pubblicazione di fotografia documentaria – e nell’ambito del progetto avevo deciso di raccontare l’impatto della guerra su una piccola unità militare. Volevo documentare tutti gli aspetti del conflitto, per dimostrare che tutti i soggetti coinvolti in una guerra sono potenziali vittime. Per esempio mi colpisce molto il fatto che l’anno scorso, tra le forze armate statunitensi, ci sono stati più morti per suicidio che uccisi in battaglia.

In una fredda mattina di febbraio, nel 2011, ero al seguito dei militari quando misi un piede su un ordigno. Ho perso tre arti e mi sono ritrovato a lottare fra la vita e la morte per due mesi. Quando ripresi conoscenza ero all’ospedale Queen Elizabeth di Birmingham. Mentre cominciavo ad acquisire la piena consapevolezza della mia condizione fisica una cosa fu subito chiara: molto difficilmente avrei potuto continuare a fare il fotografo. Probabilmente, mi si diceva, non sarei nemmeno più stato autosufficiente. La mia vita sembrava finita. E per quanto ora possa sentirmi colpevole nel dirlo, in quel momento avrei preferito non salvarmi. Per fortuna le persone che mi stavano attorno, la mia famiglia e la mia compagna Jen, mi hanno dato forza e hanno riacceso in me la voglia di combattere. L’ostinazione stava diventando la mia arma migliore – e pensare che quando ero bambino molti mi dicevano che sarebbe stata la mia fine. Nel mio letto d’ospedale decisi che non solo avrei camminato di nuovo, ma che avrei ricostruito la mia vita esattamente com’era prima di calpestare quella bomba. Tre mesi dopo, quando per la prima volta mi sono messo seduto sul letto senza aiuto, quel gesto apparentemente semplice mi sembrò un’incredibile vittoria. E da quel momento seppi che ce la potevo fare. Ero determinato a mantenere la promessa fatta a Gino: volevo tornare in Afghanistan per portare a termine il progetto che avevo iniziato.

Mentre l’aereo atterra sull’asfalto dell’aeroporto di Kabul mi sento assalire da un nervosismo mai provato prima. Sono due anni che penso a questo momento, ho lavorato duro per raggiungere questo obiettivo, e ora che ci siamo sono terrorizzato. «Perché l’ho fatto? Perché sono tornato nel posto che mi è costato tre arti e mi ha quasi ucciso?». Ma questa volta non sono solo.

Pochi giorni dopo l’esplosione, mentre ancora ero in terapia intensiva al Queen Elizabeth, c’era già chi voleva raccontare la mia storia e documentare il mio percorso verso la guarigione. Allora non ero particolarmente interessato: la mia storia non sembrava poi così degna di nota. Con il passare del tempo, però, mi sono reso conto che ciò che mi era accaduto avrebbe potuto attirare maggiore attenzione su quello che racconto attraverso il mio lavoro. Uno degli aspetti più difficili del documentare le problematiche umanitarie meno note è convincere la gente a prestarvi attenzione. Attraverso la mia storia personale avrei potuto raccontare tante altre storie, spesso sconosciute. Non sono cambiati né il mio modo di vedere le cose né ciò che faccio, ma la mia voce è diventata molto più forte.

Per questo, quando sono stato contattato dal team di Channel 4 non mi sono fatto sfuggire l’opportunità.

Passiamo la dogana e ci sediamo vicino all’uscita, in attesa che ci vengano a prendere. Vengo sopraffatto dalla paura: sta per esserci un’esplosione, ne sono convinto. La mia parte razionale dice che è improbabile, ma c’è una voce dentro di me che mi ricorda che anche la scorsa volta ho pensato le stesse cose. L’ospedale di Emergency a Kabul si trova nel centro della città. È stato aperto nel 2001 riconvertendo una ex scuola materna. Appena arriviamo viene a salutarmi Lucy, un’infermiera britannica con cui avevo fatto amicizia nell’ospedale di Emergency in Sudan. «Mio Dio, Lucy, sono così felice di vederti. Te l’avevo promesso che sarei arrivato». Le lacrime prendono il sopravvento, i due anni di lotta per arrivare a vivere questo momento hanno la meglio su di me. Ce l’ho davvero fatta. Una delle cose che ho imparato osservando l’attività di Emergency in Sudan è l’attenzione che viene prestata al territorio: l’ospedale deve essere tanto un luogo di cura quanto un’oasi di pace. Mentre la maggior parte degli ospedali in aree di guerra sono caotici, quelli di Emergency si distinguono per il senso di tranquillità. Quando Lucy mi porta a fare un giro per i giardini ben curati in cui i pazienti si rilassano al sole, è difficile credere di essere nel centro di Kabul.

Ma l’apparenza tradisce la realtà. Ogni giorno l’ospedale cura oltre 30 persone provenienti da Kabul o dalle province limitrofe, tutte vittime di guerra ferite – spesso in modo orribile – da bombe, armi da fuoco o armi bianche. Lucy mi aveva scritto varie e-mail prima del mio arrivo e quindi mi ero fatto un’idea del luogo. Quando siamo nella sala del personale, le chiedo di alcuni pazienti di cui mi aveva parlato. Un paio di mesi prima avevano curato sei pazienti della stessa famiglia: si trovavano tutti su un autobus saltato su una mina. Molti passeggeri sono morti; nonna, figlia e nipote, ferite, sono state ricoverate nella stessa corsia. La madre aveva perso entrambe le gambe. Lucy continua, mi racconta del ragazzo che pregava ogni notte dopo aver perso la vista nell’esplosione che ha ucciso il fratello. Hanno chiesto alla famiglia: «Per che cosa prega?». I parenti hanno risposto: «Prega di poter dimenticare, perché l’ultima cosa che ha visto è stata la morte del fratello».

Nei giorni seguenti, piano piano, ritrovo i miei ritmi. Sto imparando a tenere in mano la macchina fotografica, bilanciandola su ciò che resta del mio braccio sinistro. La mia grande paura è non riuscire a fare foto belle come quelle che facevo prima dell’incidente, e i primi giorni non mi tranquillizzano. Ogni sera guardo le foto scattate durante la giornata con il cuore pesante. Mi sembra di essere incapace di catturare l’essenza delle storie che vedo. La mia condizione di mutilato, invece, favorisce relazioni nuove per me: parlo per ore con le persone che hanno perso degli arti recentemente o che stanno per subire amputazioni.

Un giorno parlavo con un ragazzino, Sediqullah, e con suo padre, un uomo robusto della valle del Panshir. Sediqullah aveva le mani bendate e il viso pieno di schegge. Mi hanno spiegato che il bambino, curioso come molti suoi coetanei, ha trovato una spoletta inesplosa che gli è scoppiata fra le mani. Anche il padre mi ha mostrato le sue ferite, subite durante l’occupazione russa. Un missile è esploso vicino a lui e i frammenti gli si sono conficcati nel collo e nel corpo. Era stato creduto morto e messo in una bara, ma all’ultimo momento ha ripreso conoscenza. Guardandolo gli ho detto scherzosamente: «Beh, allora immagino che ci siano due bare vuote che ci aspettano». Si è messo a ridere e mi ha dato un forte abbraccio.

Nei giorni seguenti entro in maggiore confidenza con Sediqullah e suo padre. Quando arriva il momento dell’operazione Sediqullah mi chiede se sarò presente in sala operatoria. Gli uomini della valle del Panshir, nell’Afghanistan settentrionale, sono famosi per la loro forza e tenacia e si vantano di vivere nell’unica valle in Afghanistan mai conquistata dai britannici, dai russi o dai talebani. Quando lo portano in sala operatoria, Sediqullah ha dipinti sul volto quegli stessi segni di orgoglio e dignità. Mi guarda e sorride. Mentre lo mettono sul tavolo operatorio e gli allargano le braccia, sebbene io possa percepire la sua paura, fissa il soffitto con atteggiamento di sfida. Alzo la macchina fotografica e scatto alcune foto, poi gli mostro il pollice rivolto verso l’alto e gli sorrido mentre l’anestesia comincia a fare effetto. Assisto alla maggior parte dell’operazione e poi mi allontano per parlare con suo padre. Vuole sapere quanto siano gravi le ferite alle mani. Sono forse una delle poche persone al mondo che può dire: «Ha perso solo le falangette di alcune dita, non è nulla».

Ancora una volta il padre ride forte e mi abbraccia. Quando quella sera ho cominciato a rivedere le foto della giornata, la foto di Sediqullah – le braccia larghe, l’espressione di sfida eppure innocente – mi è saltata agli occhi. Ce l’avevo fatta! «Sapevo che ci saresti riuscito. Sono fiera di te» mi ha detto Lucy.

Ogni giorno al reparto di terapia intensiva arrivano nuovi pazienti con ferite orribili. Molti non ce la faranno. Molti hanno impiegato un tempo infinito per raggiungere l’ospedale. Uno dei ragazzi che arrivano si era nascosto in casa della zia per la notte, mentre fuori infuriava una battaglia tra forze americane e talebane. Un proiettile ha attraversato il muro di fango della casa e gli ha perforato la spalla prima di frantumargli la mascella. Per 10 ore, tutto ciò che ha potuto fare è stato rimanere sdraiato in attesa che la battaglia cessasse anche solo per qualche istante, mentre la zia strillava. Alla fine il padre è riuscito a portarlo in auto fino a Kabul, impiegandoci altre 10 ore.

Questo tipo di storia accomuna molti; eppure, per ogni persona che sopravvive a un viaggio come questo, molti altri non ce la fanno. Torno a pensare alla storia che mi ha raccontato Lucy, quella delle tre generazioni di una stessa famiglia ferite nello stesso momento in una provincia limitrofa. Ci sono volute 17 ore per raggiungere l’ospedale. A me sono bastati meno di 30 minuti dopo l’esplosione, eppure mi è sembrata la mezz’ora più lunga della mia vita. Mi immagino che cosa debba essere passato nella mente di quella donna durante il viaggio, non solo la sua sofferenza, ma il fatto di assistere al dolore della figlia e della madre, senza possibilità di aiutarle.

Ogni paziente che incontro ha alle spalle una storia straziante, a volte quasi impossibile da comprendere e da digerire. Un uomo assiste quotidianamente suo fratello Najibullah, paralizzato in un letto; Najibullah era in autobus quando un missile americano è esploso nelle vicinanze. Alcuni frammenti gli si sono conficcati nella colonna vertebrale. Ora sta diventando sempre più debole e i medici ci confidano che non gli resta molto da vivere. Eppure ogni giorno, instancabilmente, suo fratello si prende cura di lui. Mai senza un sorriso, gli spazzola i capelli, gli solleva il morale con barzellette e gli taglia la frutta con gentilezza. Ci dice che suo fratello era «quello bravo all’università» e «il cocco di casa» e per questo se ne prende cura. Ogni giorno, il fratello maggiore mi saluta con un sorriso e mi tende un quarto della mela appena tagliata. Trovo insopportabile vedere questa forma d’amore quando già conosco il destino di quell’uomo. Per noi è così facile ascoltare storie di guerra al telegiornale e non rapportarci con coloro che devono viverle. Eppure quello che ho sempre visto è che a fine giornata le persone sono uguali, in tutto il mondo: stessi sogni, stesse speranze e stesso desiderio che i propri cari siano al sicuro.

Una cosa che mi colpisce qui in Afghanistan è la mancanza di strutture mediche. L’ospedale di Emergency a Kabul e la sua rete di presidi sanitari nell’area sono uno dei pochi complessi medici gratuiti a disposizione degli afgani e i soli ospedali a occuparsi seriamente delle vittime di guerra. Negli ultimi dieci anni e più, nel corso del cosiddetto «processo di costruzione della nazione», non è stato ancora costruito un solo ospedale funzionante. Quali che siano i torti e le ragioni di questo conflitto, non posso fare a meno di pensare che se facciamo una guerra in un Paese straniero abbiamo innanzitutto il dovere di prenderci cura dei civili coinvolti. Che siano le nostre armi o quelle dei talebani a fare vittime, per rivendicare una superiorità morale e per conquistare «le menti e i cuori» dobbiamo prenderci cura dei civili. Non solo: è semplicemente perché siamo esseri umani che dobbiamo sentire il dovere di aiutare chi ha bisogno. Gli afgani non smettono mai di stupirmi per la loro tenacia e la loro forza. La maggior parte delle persone che ho incontrato in questo viaggio ha conosciuto solo guerra, crescendo in un contesto di violenza e morte, ma nonostante questo la gente ha un atteggiamento positivo verso la vita: in tutti i miei viaggi non ho mai visto tanta compassione per il prossimo come qui. Emergency ha curato oltre 3 milioni di afgani su una popolazione di 28 milioni: un dato stupefacente.

Il penultimo giorno torniamo al Centro protesi della Croce Rossa internazionale per le foto di rito, anche se in realtà non sentivo l’esigenza di fare molti altri scatti. Mentre ci prepariamo alla partenza incontriamo un ragazzo, Ataqullah, e suo padre. Sono qui perché Ataqullah deve ricevere una nuova protesi per la gamba e fare la prima prova per una protesi del braccio. Poco più di anno fa, andando a scuola, ha calpestato una mina. Il padre lo ha portato all’ospedale di Emergency a Kabul: il viaggio è durato otto ore duranti le quali Ataqullah non ha mai perso conoscenza.

In tanti mi chiedono se mi capita di piangere quando scatto le foto, se arrivo mai a un punto in cui l’emozione si fa troppo forte per proseguire. Sono sempre andato avanti trovando il distacco necessario, ma oggi è diverso. Attraverso l’obiettivo vedo Ataqullah lottare impacciato per fare i primi passi, sorretto dalla sua nuova gamba di plastica e con un braccio penzolante. Mentre lo seguiamo è circondato da protesisti e medici. Tutto ciò che riesco a vedere è un bambino piccolo e smarrito, disorientato da una marea di adulti. Incitano e spingono, fissano cinghie e arti di plastica mentre Ataqullah osserva con sguardo assente. Alzo la macchina, cercando di catturare la scena che si svolge davanti ai miei occhi, ma l’unica cosa a cui riesco a pensare è tutto ciò che ho passato negli ultimi due anni e come, a 40 anni, quell’esperienza mi abbia quasi piegato. L’unica cosa che riesco a pensare è che nessun bambino di sette anni dovrebbe passare quello che ho passato io. Che nessun bambino di sette anni dovrebbe subire menomazioni di questo tipo, né ricevere un’eredità di dolore e disabilità come questa, saltando in aria mentre va a scuola. Non riesco a staccarmi dal suo sguardo freddo, sperduto, con gli occhi enormi che fissano inespressivi l’obiettivo. Per una volta, non ce la faccio a continuare. Abbasso la macchina, appannato dall’emozione, ed esco dalla stanza.

Dal mio ritorno dall’Afghanistan ho avuto il tempo di riflettere sul viaggio e di chiedermi se ne sia valsa la pena o no. La gente mi chiede: «Non ti penti di esserci andato la prima volta? Vale la pena di perdere le gambe per qualche foto?». La domanda è stupida, perché ovviamente nessuna foto vale quel prezzo, ma ho sempre ritenuto che il principio valesse ogni sofferenza. Ironicamente, essere saltato su quella bomba con le conseguenze terribili che ne sono derivate mi ha confermato che andare in quei luoghi per raccontare queste storie fosse, e sia, la cosa giusta da fare. Ogni giorno devo fare i conti con le mie ferite: sono un monito per ricordarmi che nel mondo ci sono migliaia di persone che soffrono, senza neppure poter contare sul supporto medico ed emotivo che io invece ho. Soffrono senza avere voce, e − fortunatamente − nonostante ciò che mi è accaduto, io sono ancora in grado di raccontare le loro storie. Come potrei non continuare questo lavoro? Inoltre sono convinto che tutta questa esperienza abbia fatto di me non solo un fotografo migliore – più ponderato, appassionato ed empatico – ma anche un uomo migliore. Sarò sempre in debito con coloro che hanno reso possibile questo viaggio: medici, infermiere, chirurghi, fisioterapisti, amici, la mia famiglia e Jen.

Recentemente qualcuno ha chiesto a Jen e a me che cosa ci augurassimo per il futuro. Entrambi abbiamo risposto che vogliamo vivere l’anno più noioso della nostra vita! Sogno di trascorrere il sabato sera davanti alla televisione mangiando cibi da asporto e sorseggiando un bicchiere di vino. Soprattutto, però, ora che ho realizzato questo documentario e ho ripreso a raccontare storie, spero di poter archiviare questa parte della mia vita e fare un passo avanti, smettendola di essere il protagonista della storia. Come ogni civile ferito in Afghanistan merita, desidero essere descritto non per ciò che ho perso o per ciò che è cambiato in me, ma per ciò che ancora sono. Un giorno, se qualcuno scriverà un epitaffio per me, mi auguro che non mi ricorderà come un tri-amputato, ma semplicemente come Giles Duley, fotografo. Perché è quello che sono.


L’articolo di GilEs DulEY è stato pubblicato (su autorizzazione dell’Observer) nel numero 66, marzo 2013 di Emergency che ringraziamo.


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