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Partenza e spartenza (1)

di enza - lunedì 25 febbraio 2008 - 5052 letture

Questo vento di febbraio che sferza il viso, aggroviglia i capelli e fa alzare le vesti alle bambine, mettendo in mostra le gambette tornite, intirizzite dal freddo, le mutandine candide rifinite con la trina, a tutti i costi ci vuole portare via. Ieri sera abbiamo salutato gli zii, le zie ed i cugini, fingendo una voluta allegria, forse perchè le novità incuriosiscono sempre e proiettandoci verso il futuro, verso l’ignoto, siamo tutti più curiosi ed in un certo senso anche un pò contenti di poter, forse, realizzare qualche nostra recondita aspirazione. Sì, contenti di non avere la prova del contrario. La partenza in Sicilia viene chiamata spartenza; termine, in un certo senso, più appropriato, perchè pronunciando questo termine "spartire" ci si sente divisi, lacerati in due: da una parte c’è ciò che dolorosamente lasciamo e dall’altra ciò a cui incoscientemente, inconsapevolmente e con leggerezza andiamo incontro.

La casa di via Garibaldi è più lucida e silenziosa del solito, le valigie sono allineate nella stanza da pranzo, la stanza di mezzo, quella calda d’inverno e fresca d’estate, la stanza delle feste e delle riunioni con i parenti. Io, bambina, cerco di fissare tutto nella mia memoria, mi dispiace non potermi portare dietro il bellissimo mappamondo azzurro, regalo di mio padre per il compleanno, ma nella valigia non ci sta e sono costretta a lasciare questa sfera azzurra, compagna di tanti miei viaggi fantasiosi in varie parti del mondo, sulla scrivania, in un angolo. "Arrivati in Africa, ne compriamo un altro" dice mia madre che ha percepito la mia tristezza. Non ricordo se poi ne abbia mai comprato un altro, forse sì, non me lo ricordo, comunque non sarebbe mai stato come quello lasciato in Sicilia.

Sono andata anche a salutare quella rude ed odiosa professoressa dal naso aquilino che disprezza tanto le bambine di paese, lei che è di Catania e si sente figlia di un’altra Sicilia; ma quale Sicilia? Il destino di tanti siciliani onesti è simile a quello di tutti i siciliani dell’isola e del mondo; tutti accomunati dalla spartenza, dal dolore cocente di dovere lasciare la nostra casa, dalle valigie, spesso di duro cartone, valigie piene della nostra infanzia, della nostra gioventù, del nostro dialetto, ricordi ammassati alla rinfusa, come per strappare un pezzo di terra, un pezzo di mare, il giardino del nonno pieno di rose, il sole, le nostre allegre, amare risate, tutto; i nostri affetti aggrovigliati in un nodo duro, doloroso, inestricabile.

Per partire domani, abbiamo preparato i nostri vestiti migliori, le scarpe nuove; tutto deve dare un’impressione di ordine, pulizia, profumo di acqua di colonia di cui mia madre cosparge me e mia sorella Lucia; altrimenti che facciamo? Ci riconoscono, ci chiamano terroni, fottendosene dei nostri begli occhi neri, vivi ed intelligenti. Per non parlare del nostro dialetto, un marchio indelebile, peggio di una carta d’identità che subito toh, spiattella la nostra origine che, spesso, da tanto fastidio agli altri, perchè parla di terra, di campi arsi dal sole, di lotte per la sopravvivenza, in alcuni casi di fame. Ma, a forza di parlare, comincio a divagare, noi non andiamo in Germania o in America, come tanti emigranti, andiamo in Africa, un viaggio lontano, avventuroso ed affascinante. E’ un altro genere di emigrazione, più sottile, meno precaria ed in un certo senso più emancipata. I miei genitori su consiglio dei miei zii, già da un bel pezzo in Africa orientale, vanno a mettere su un’azienda.

Lasciare il mio paese natale.....sento un senso di vuoto, ma mi rende subito felice solo l’idea di non rivedere più quella maledetta insegnante che tutto trasmette, tranne l’amore per la cultura; anzi, andandola a salutare definitivamente, oltre ad un senso di liberazione, ho sentito, io bambina, un senso di orgoglio e di superiorità. Chi crede di essere lei? Sono la protagonista di una bella avventura, l’eroina del momento anche agli occhi incantati delle mie compagne. Vado in Africa io!!! La novità dell’avventura attutisce in me quel velo di tristezza lontana, sopita in un angolo remoto del mio cuore che a tratti lentamente emerge, insinuante e lieve, nel mio animo infantile, lasciandomi un leggero vuoto dentro, una specie di vertigine, come quando da un balcone molto in alto si guarda la strada laggiù e col cuore tremante ci si chiede cosa mai potrebbe succedere se uno dovesse improvvisamente cadere. Ci si distoglie e si cerca di pensare ad altro, perchè solo all’idea di cadere, magari remota ed impossible, ci sentiamo invasi dal panico. Questa idea della partenza è arrivata all’improvviso.

E’ stata un’idea di zio Vincenzo, uno dei fratelli più grandi di mia madre, venuto a cercare moglie in Sicilia, una moglie che deve avere tassativamente virtù quali l’illibatezza (sennò buttana è) ed essere di buona famiglia, intentendo per"buona famiglia", più che l’onestà, il cespite patrimoniale che tale famiglia possiede in modo che la sposa possa portare in dote un pò, anzi se è un bel pò ancora meglio, di "robba". Poi, basta piacersi sommariamente (all’uomo non è richiesta necessariamente la bellezza; è un particolare del tutto trascurabile, l’importante che sia virile, mentre la moglie più giovane è meglio è), il resto viene da sè e come dice un vecchio proverbio siciliano"u lettu metti affettu". In base a questo proverbio in passato sono stati combinati migliaia di matrimoni che hanno visto la donna rassegnata, infelice e perennemente sottomessa all’uomo. La donna è nata per fare figli, accudirli e pulire la casa!!

A dire il vero, zio Vincenzino ci ha provato già due volte a prendere moglie, ma senza successo, forse per il suo naso adunco e prominente o forse perchè ha sempre avuto l’innato vizietto di toccare il sedere alle donne appena conosciute, accompagnando il tutto con sonore e grasse risate, perciò, malgrado i suoi soldi, dopo un pò la donzella lo ha inevitabilmente mollato. Finchè ne ha trovata una carina, molto più giovane di lui, tipica bellezza normanna, occhi azzurri, capelli biondi, ma un pò sorda, cosa ereditaria nella famiglia di lei. E la cosa è andata finalmente in porto, perchè Filippina, (sua madre la chiama Filis Mary per rendere il nome più esotico) questo è il nome della bionda verginella, grazie al suo udito in crisi, non riesce a sentire le stronzate di zio Vincenzo, percepisce solo le sue risate e sorride contenta, dicendo "Vincenzino come sei bello" anzi "Vicinzinu chi beddu ca si". E Vincenzino s’infuoca tutto, diventa allegro, generoso, promettendo mari e monti a tutti i parenti; castelli in aria, sogni ad occhi aperti. E’ infuocato e smanioso come un gatto in amore. Non vede l’ora di sposarsi, per potersi portare a letto la sposina, dopo la benedizione di Santa madre Chiesa, s’intende ( lui se la porterebbe anche senza benedizione, ma bisogna seguire scrupolosamente il protocollo, altrimenti va a finire a schifio anche stavolta), papparsela in un momento e finalmente acquietare tutti i suoi appetiti sessuali.

Ritornando in tema, durante una delle sue crisi d’euforia, dice a mia madre "Ma perchè non vieni in Africa, con le tue mani capaci di creare, con la tua fantasia e la tua voglia di fare, faresti la fortuna tua e della tua famiglia e allontaneresti nello stesso tempo tuo marito dalle campagne e da tutti i problemi che la terra in questo periodo comporta. Quasi, quasi.....pensa mia madre, sempre curiosa di fare nuove esperienze, piena di iniziative, anche un pò insoddisfatta della vita che il paese le offre, desiderosa, in cuor suo di ricongiungersi ai suoi fratelli, con la speranza, mai sopita, di ricostruire la grande famiglia di un tempo, famiglia patriarcale, mutuo soccorso, grandi riunioni e grandi tavolate nelle ricorrenze più importanti; "quasi, quasi mi vado a mettere un bel negozio di stoffe in Africa" e tira fuori tutti i suoi migliori argomenti per convincere mio padre che vede questo progetto con occhi piuttosto scettici. " Mah.....intanto magari cominci ad andare tu con le bambine e poi, in un secondo tempo, se le cose stanno veramente come dice tuo fratello, vi raggiungo io, il tempo di mettere a posto alcune cose...."mio padre ha lo sguardo lontano e pensieroso, lui così preciso, ponderato e razionale da essere chiamato il tedesco, non ama le cose dettate dall’impulso.

Ma Vincenzino è così convincente e mia madre così euforica ed entusiasta che alla fine capitola e mette a tacere i suoi dubbi. Pur nell’euforia del momento, in me ogni tanto fa capolino una vaga tristezza, una cocente nostalgia di cose perdute, di cose che sto per perdere; l’abitudine di tutti i giorni, i gesti ripetuti, le consuetudini che servono a costruire la storia di ogni individuo. Non me ne rendo perfettamente conto, ma so che non rivedrò più, o almeno per lungo tempo, zia Concettina, la sorella di mio padre, quella che mi sorride sempre così dolcemente che pur in silenzio, mi fa sentire il calore del suo affetto così forte, così profondo, quella che nelle lunghe e fredde serate invernali incanta noi bambine, tutte sedute in cerchio intorno al braciere, con le sue favole antiche, favole non scritte, tramandate di padre in figlio; indovinelli buffi e divertenti che ci fanno ridere felici. Tante di noi fra un indovinello ed una favola si addormentano e siccome fuori fa freddo rimaniamo a dormire nel lettone di zia Concettina, a za Tittina, in mezzo alle lenzuola tessute a mano, fresche di bucato, sotto la coltre pesante, così pesante che sembra un’armatura. Ma tutto profuma d’affetto, tutto profuma di casa; con zia Tittina, noi nipoti, ci sentiamo protette ed al sicuro, al calduccio come in un nido e persino la coltre "a ncuttunata", così maledettamente pesante, diventa leggera.

Non potrò più giocare con le mie cugine o con la mia amica Lucilla, quella con cui parlo per ore, dalla mia terrazza che si affaccia sulla sua. Dalle nostre terrazze si vede il mare, il porto di Augusta con le sue navi bianche; sembra quasi un paesaggio irreale tanto è bello e perfetto ed il mare nelle giornate limpide sembra quasi di toccarlo. Ma tutto è vago nel mio animo di bambina, sento un leggero nodo di pianto salirmi in gola, forse potrei nascondermi ancora nella stanza di mezzo sempre in penombra, fare in modo che mia madre nella confusione si dimentichi di me o dire semplicemente che rimango con mio padre, dopo si vedrà.......Mia sorella con i suoi capelli dai boccoli biondi, i suoi occhi neri sognanti, sembra quasi non capire, un pò spaesata anche lei, e trotterella da una stanza all’altra, attaccata alle gonne di mia madre. Pensieri vaghi, appena accenati, nascono timidi e titubandi in fondo al mio cuore, ma non ho nessuno con cui condividerli.

La spartenza comincia a farsi strada dentro di me, pian, pianino....La domenica pomeriggio, al tramonto, si scende in piazza, forse a salutare ancora degli amici o forse a fare qualche voto al Santo protettore del paese, non ricordo.E’ arrivata l’ora degli addii, dei saluti frettolosi, delle strette di mano, degli auguri di buon auspicio. Non lo so, mi sento trascinata da una parte all’altra, confusa e traballante come se fossi ubriaca, in questo gelido febbraio ventoso che ancora mi schiaffeggia. A tratti, arriva l’odore di salmastro dalla vicina marina ed io apro le narici per assaporare questo odore salato che sa di alghe, di sole, di vento, di aghi di pino marittimo, quasi a farmene una riserva, in caso non lo dovessi più sentire. Mi volto a guardare la piazza ed il rosso tramonto che illumina la chiesa del Santo, le tegole dei tetti, i passanti ed i miei amici, Alfredo, Adriana, Nuzzo, Guido, Ersilia che mi salutano con la mano. Una piccola lacerazione dentro di me, quei saluti hanno il sapore di un addio.

Ecco la spartenza: il destino ci divide, non faremo più i compiti insieme, non correremo più per le stesse strade note ed anguste, strade ventose d’inverno che ci riparano dal caldo in estate. Strade dalle case affiancate, una accanto all’altra, quasi a darsi sostegno e coraggio nell’affrontare il fardello, a volte pesante, della vita. Case dalle cui finestre a volte proviene un canto e a volte il buon profumo della salsa o dei peperoni fritti. Case fatte con amore, pazienza e sacrificio, le cui imposte nascondono gioie e dolori agli occhi inopportuni; case sul cui davanzale, in estate, troneggia sempre l’immancabile pianta di basilico. E’ ora di andare, mia madre mi trascina per la mano, si è fatto tardi, mi strattona leggermente ed il cappotto si alza scoprendomi un pò le gambe, mentre io continuo a camminare, voltandomi indietro a guardare la piazza ed i miei amici che si vanno perdendo lontano nella luce del tramonto che lentamente volge al crepuscolo. Questo gelido vento di febbraio non ci lascia in pace, ci inghiotte e ci trascina via.


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Partenza e spartenza (1)
5 marzo 2008, di : Antonio

Credo che verrà fuori un bel racconto lungo o un romanzo. M’interessa molto la tua esperienza di vita. Aspetterò le altre puntate. E’ impressionante come la forza dei sentimenti riscalda la scrittura. A presto. Antonio