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L’albero di Natale

L’albero di Natale nasce da una strana coincidenza di eventi. L’anno scorso, alcune settimane prima delle festività natalizie...

di Claudio Bergamo - domenica 27 novembre 2022 - 1341 letture

L’albero di Natale nasce da una strana coincidenza di eventi. L’anno scorso, alcune settimane prima delle festività natalizie, ritornato a casa dopo alcuni giorni trascorsi lontano da casa per lavoro, ritrovai l’abete rosso del mio giardino cimato di parecchi metri. Mesi prima avevo chiesto a mio fratello (di professione fa il giardiniere) di farmi il favore di dare una regolata all’albero per prevenire possibili danni ai vicini nel caso ci fossero stati forti temporali e/o trombe d’aria. Chiedere a un fratello un piacere significa attendere la sua disponibilità. È così che dopo mesi dalla richiesta venne alla vigilia di Natale 2021. Non fece una potatura. Lo decapitò.

La vista del mio Abete troncato per più di tre metri dalla sua cima mi fece un effetto terribile. Non piansi ma mi trattenni. Quella sera, era un venerdì, non riuscì a dormire. Mi alzai a notte fonda e di getto cominciai a scrivere le emozioni che il mio albero riportava alla memoria. Nel corso di una notte ho ripercorso 60 anni di ricordi: ricordi familiari e eventi tragici vissuti come le immagini del Vajont trasmesse dalla televisione. Quella sera la visione del mio albero cimato aveva aperto un pozzo di ricordi accantonati ma mai rimossi. È così che scrissi questo breve racconto, ricordi di eventi veri, che per il Natale del 2021 diventò una lettera ai miei figli, alle loro compagne, a mia moglie, a sua sorella e ai suoi figli… Mi rincuorai sapendo che per quel Natale la cima del mio Abete diventò l’albero di Natale nel piazzale della chiesa del mio quartiere. Mia cognata aveva mandato la mia lettera al giovane sacerdote della parrocchia e per Natale i bambini dell’oratorio avevano addobbato l’albero con fiocchi e disegni fatti da loro.

Quest’anno voglio condividerlo con i lettori e le lettrici di Girodivite. Contro ogni muro.


Ciao. oggi per tutti sono il vostro albero di Natale. Una parte di me ha radice lontane, vi racconto la mia storia.

Sono un Abete Rosso, un Peccio, chioma conica, fusto colonnare, corteccia rossiccia che con l’età diventa bruno-grigia a scaglie longitudinali. Sono nato più di 60 anni fa ai margini del Parco Naturale delle Dolomiti Friulane, lungo la strada che porta al passo di San Osvaldo, la strada SR251 che collega il Friuli Venezia Giulia al Veneto.

La mia storia inizia qui.

La notte del 9 ottobre 1963 la terra tremò e io piccoletto, alto poco più di un paio di spanne, udii un forte tuono e fui investito da un spaventoso vento che arrivava dal passo di San Osvaldo. A un centinaio di metri dal passo, lungo il pendio in cui tempo prima un vento amorevole aveva trasportato il seme che, interrandosi nel soffice terreno al limitare della Pecceta, ha permesso la mia nascita, sono cresciuto io.

Di quella sera è indelebile il ricordo, non sapevo cosa fosse successo, i miei amici alberi, molto più alti di me, fremettero a quel fronte ventoso per quattro interminabili minuti per poi udire un silenzio assordante.

Per ore non sapemmo nulla fino alle prime luci del giorno. Poi vedemmo salire in direzione del passo, verso Erto, gente silenziosa con sguardi stanchi e sconvolti: era franato un monte nel lago artificiale della diga del Vajont e aveva cancellato per sempre la vita di migliaia di persone. Quella gente che saliva al passo accorreva in aiuto ai sopravvissuti della tragedia.

Quelli che scendevano dal passo fuggivano dalla disperazione.

Costruirono un muro e chiusero il passo, i militari vigilarono per anni il passaggio.

Dissero che il muro era una sicurezza nel caso si fosse ripetuta una frana nel restante lago rimasto.

La gente del posto lo chiamarono il MURO DELLA VERGOGNA.

Io sono stato testimone di questa vergogna fino al giorno che due giovani, lui alto e robusto dai capelli neri, lei una bella ragazza dai capelli rossicci, scesero da una Fiat 850 berlina. Avevano parcheggiato in uno spiazzo ai margini della strada, a pochi metri da me. Dall’auto scesero anche tre ragazzini in pantaloni corti e maglietta in gita domenicale in una calda estate del ‘65.

Quel giorno iniziò la mia seconda storia. Il maggiore dei tre ragazzini mi vide e rivolgendosi alla ragazza dai capelli rossicci, che chiamò zia, le chiese se non fosse meglio prendermi e portarmi a casa. Avvalorò la richiesta asserendo che in quella posizione prima o poi qualche vacanziere sprovveduto mi avrebbe travolto. Fu così che mi ritrovai in un vaso di terracotta a festeggiare il primo Natale lontano dal luogo in cui ero nato.

Ero un sopravvissuto, non conoscevo il luogo in cui mi portarono, dal terrazzo con vista orto in cui rimasi per alcuni anni non sentivo spirare il fresco vento che scendeva dal pendio boscoso in cui ero nato.

Ero straniero in terra straniera. Mi confortava sentire parlare il padre e la madre di quei tre ragazzini dai pantaloncini corti con un idioma famigliare, che conoscevo bene per aver ascoltato prima le voci degli operai mentre costruivano quel muro della vergogna e poi il vociare dei gitanti della domenica che si fermavano nei miei pressi.

Crebbi in fretta finché il più piccolo di quei tre ragazzini, che nel frattempo cresciuto portava i pantaloni lunghi e coltivava la passione per le piante, mi mise in terra.

Nel giardino di quella mamma amorosa, con i figli e le piante, crebbi e crebbero i tre ragazzini.

Un giorno il maggiore dei tre ragazzini conobbe una piccola grande ragazza e decisero di metter su casa e portarmi con loro.

Fu così che inizio la mia terza storia.

Nel nuovo giardino non vedevo le montagne e non sentivo il vento sussurrare tra le foglie il magico silenzio della Pecceta. E stato confortevole veder crescere sotto di me due nuovi piccoletti che di anno in anno crescevano quanto me. Ero alto, troppo alto affinché i due piccoletti potessero raggiungere i miei rami per addobbarmi con le luci del natale. Ero felice che le mie pigne fossero raccolte e dorate per festeggiare il loro Natale.

Sono trascorsi molti Natali dall’inizio della mia migrazione dalla terra friulana alla pianura lombarda. Ho messo radici in un piccolo spazio di terra facendomi largo tra gettate di cemento e innalzandomi sopra i tetti delle case. La solitudine e l’assenza del conforto e appoggio dei miei parenti alberi si fa sentire quando da sopra i tetti arrivano delle improvvise follate di vento che mi fanno oscillare paurosamente.

La saggezza della donna che mi accolse in casa sua la prima volta continua a suggerire amorosamente il mio benessere. È molto più vecchia di me e di storie da raccontare ne ha molte. Ha vissuto come me l’emigrazione, la fatica del radicamento in nuove terre, le ristrettezze ma anche le gioie per la crescita dei figli prima dei nipoti dopo e per ultimo l’arrivo di una dolcissima pronipote che ama innaffiare i fiori che continuano a crescere attorno alle mie radici. Per questo amore antico per tutto e per tutti ha consigliato all’altro suo ragazzino, che con i pantaloncini corti mi ha raccolto sulla strada del passo San Osvaldo, di mettermi in sicurezza.

È così che oggi una parte di me troneggia abbellito da albero di Natale sul sagrato della chiesa, testimone di una dolorosa migrazione da un luogo nel quale dall’anno in cui inizia la mia storia molti bambini, dopo quella spaventosa notte, non festeggiarono più il Natale.

A ricordo di tutti loro, e a quanti grandi e piccini sono ancora sul cammino della speranza per superare i muri della vergogna, dedico questa mia storia.

Con affetto

Il vostro Albero di Natale



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