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Non è un paese per vecchi

“Non è un paese per vecchi” non è soltanto un "road movie - noir". Il succo del libro è tutto nelle riflessioni dello sceriffo Bell, a partire dall’incipit...

di Giuseppe Artino Innaria - martedì 11 settembre 2007 - 6197 letture

Titolo: “Non è un paese per vecchi”. Autore: Cormac McCarthy. Pagine: 251. Editore: Einaudi. Anno di pubblicazione: 2006. Traduzione: Martina Testa.

Da una parte Chigurh, incarnazione di una violenza assoluta, feroce, inesorabile, fine a se stessa; dall’altra lo sceriffo Bell, impegnato ad arginare e contrastare il dilagare di quella violenza; in mezzo Moss, inseguito da entrambi dopo essersi impossessato di un consistente malloppo di dollari rinvenuto nel macabro scenario di una strage di trafficanti di droga.

“Non è un paese per vecchi” non è soltanto un "road movie - noir". Il succo del libro è tutto nelle riflessioni dello sceriffo Bell, a partire dall’incipit. C’è materia per una trama avvincente, ma Cormac McCarthy non si compiace di avere tra le mani un soggetto efficace per un film d’azione. Via via la storia si fa quasi frammentaria, salta anche la "consecutio temporum", perché quel che conta è lo spunto che la vicenda offre alla sconsolata presa di coscienza del vero protagonista del libro, lo sceriffo Bell.

Moss è destinato a soccombere: ha posto in secondo piano i valori della famiglia e del lavoro cedendo alla lusinga di un facile arricchimento, ma non sa essere violento fino in fondo e anche lui, come la moglie, diventa vittima di una brutalità cieca.

La violenza solo in apparenza insegue le sirene del denaro, mentre, sganciata dalla logica predatoria, si rivela totalmente autoreferenziale: la carneficina dei contrabbandieri di droga sembra indicare la prima pista; tuttavia, Moss trova una morte sì cruenta ma non collegata alla difesa del bottino; Chigurh inizialmente sembra mettersi sulle tracce di Moss per soffiargli il bottino, in realtà si smaschera esclusivamente come il tragico esecutore di una arbitraria legge di efferatezza.

Davanti ad uno spettacolo di imperversante barbarie, lo sceriffo Bell si interroga su come tutto ciò possa essere incominciato, su come si possa essere arrivati a questo. Ed è la stessa domanda che legge negli occhi dei vecchi (“E’ come se si fossero svegliati all’improvviso senza sapere come sono arrivati lì dove sono. Be’, in un certo senso non lo sanno davvero”). Bell si sente ormai impotente ad affrontare un mondo in cui non riesce più a riconoscersi, che non sa dove andrà a finire. Aveva creduto di riuscire, in una certa misura, a riportare un po’ d’ordine ed adesso, invece, scopre di non essere più in grado di proteggere la propria gente. Nel corso delle sue meditazioni arriverà a dire che “ci stiamo facendo comprare con i nostri stessi soldi” e ad una giovane giornalista confiderà che “i guai cominciano quando si inizia a passare sopra alla maleducazione” e che “quando non si sente più dire Grazie e Per favore, vuol dire che la fine è vicina”: “alla fine si arriva a quella sorta di crollo dell’etica mercantile che lascia la gente morta ammazzata in mezzo al deserto dentro una macchina, e allora è troppo tardi”.

McCarthy attinge volutamente alla lingua parlata per esprimere lo stato d’animo dell’uomo comune dotato di buon senso disorientato da un panorama apocalittico. Eppure “Non è un paese per vecchi” è anche un’opera di intensa poesia. Conservatore nell’anima, McCarthy vede nei sani valori del passato la chiave del futuro: consapevole che la sua generazione ha dilapidato il capitale sociale e l’eredità morale dei padri, auspica un domani in cui si sappia riscoprire la strada da loro tracciata. E’ questo il chiaro messaggio dei due sogni che chiudono il romanzo in una estrema tensione emotiva.


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