La poesia della settimana: Alessio Di Giovanni

La Sicilia delle zolfatare. Quella dei "carusi" dentro le miniere nei versi del poeta che ci ha vissuto accanto per tutta la vita.

di Piero Buscemi - martedì 17 dicembre 2013 - 3414 letture

Sudanu li viddana ni la fara

Guardanu li patruna taciturni.
 Carnala e no surfara t’hè chiamari

 Carnala no di morti ma di vivi.
 E vennu a matina: li viditi?

 Parinu di la morti accompagnati,
 vistuti di scuru, li cunfunniti

 mmenzu lu scuru di li vaddunati.
 Scinninu a la pirrera e ognunu ‘mmanu

 Porta la so’ lumera pi la via
 Ca non pi iddi, pi l’ervi di lu chianu

 luci lu suli biunnu a la campia.
 Sempri di ddassutta veni un cantu

 Ca pari di ddu scuru lu lamentu.
 E ni la notti funna scunsulatu

 Lu carcarini…Supra la muntagna
 S’allarga scuru lu celu stiddatu.

 Scinninu muti, e quannu ammanu
 Scumpariscinu ‘na nfunnu a la scuria,

 e si sentinu persi, chianu chianu
 preganu a San Giuseppi ed a Maria

 Ma doppu, accumincianu a travagghiari
 Gridannu, gastimannu a la canina

 Ca lu stessu Signuri l’abbannuna.
 Oh putissiru, allura abbannunari

 Dda vita ‘nfami, dda vita assassina
 Comu l’armali ‘nfunnu a li vadduna.

La Sicilia di Alessio Di Giovanni, poeta dialettale nato a Cianciana (Ag) l’11 ottobre 1872, era quella legata alle tradizioni e alle risorse che il territorio offriva. Era la Sicilia che aveva creduto nel rilancio in un’Unità d’Italia, dopo aver soffocato nella speranza un popolo che si era illuso, diversi decenni prima, di essere stato liberato dai latifondisti con le riforme apportate dai Borboni, in nome di un non ben identificato ideale di riscatto sociale. Era soprattutto, la Sicilia delle zolfatare.

Generazioni di minatori che sin da "carusi" avevano il destino segnato dal buio delle gallerie sotterranee delle zolfatare e un futuro da malato cronico di sinusite, se avevano la fortuna di invecchiare, sopravvissuti ai crolli e alle esalazioni che questo lavoro riservava.

Il padre, Gaetano, era anch’egli proprietario di miniere di zolfo, per quanto le sue attività principali erano quelle di notaio e di studioso del folclore siciliano. Con la nomina a sindaco, che il padre del poeta deterrà per tre mandati consecutivi, Di Giovanni trascorse la sua infanzia nella semplicità della vita di campagna.

Nel 1884 la famiglia Di Giovanni si trasferisce a Palermo, dove il padre tentò di avviarlo alla vita ecclesiastica. Ne seguì un periodo di grave crisi economica per la famiglia, situazione che portò il poeta a dedicarsi integralmente alla scrittura, vivendo nel contempo le sofferenze per le condizioni di semi-povertà e la tenacia dimostrata nei suoi primi tentativi di produzione letteraria.

Nel 1892 abbandona definitivamente l’esperienza ecclesiastica, nella quale non si riconosceva, e si concentra con maggior vigore alla scrittura, dedicandosi al giornalismo. E’ il periodo in cui stringe amicizia con il pittore toscano Garibaldo Cepparelli, con il quale seguirà da vicino il mondo della pittura, scrivendone diverse recensioni per il quotidiano "L’Amico del popolo".

Le condizioni economiche della famiglia lo faranno rientrare a Cianciana, dove ritornerà con la madre e le sorelle, mentre il padre raggiungerà la cittadina di Noto, nel siracusano, per intraprendere la carriera di notaio. Sono di questo periodo le prime importanti pubblicazioni: Canti popolari di Girgenti(1894), Scongiuro! (1895), Maju siciliano (1896).

Fluente anche la sua attività di giornalista, con varie collaborazioni dedicate alla poesia dialettale, che sarà l’idioma dei suoi versi. Fra le tante, la collaborazione con il periodico catanese "D’Artagnan", fondato e diretto da Nino Martoglio, per il quale pubblica l’articolo Cu lu sangu; sulla stessa testata appare Na dumanno a li fumusi pueti e ’Ntra l’aira, traduzione delle Fonografie valdesane di Garibaldo Cepparelli.

L’intensa attività di letterato sarà caratterizzata dalla sua denuncia artistica verso lo sfruttamento del suo popolo e dei suoi carusi, schiacciati dalla fatica del lavoro nei latifondi e nelle zolfatare, e il potere mafioso che tutelava i potenti. E’ una denuncia diversa, forse addirittura più "vera", rispetto a quella che sarà condotta dagli altri grandi interpreti di questo genere letterario, quali Verga o Pirandello.

E’ il dialetto, l’arma in più di Di Giovanni nel raccontare gli umili. Il dialetto che rafforza il destino dei protagonisti, è la lingua utilizzata dagli sfruttati e dai disperati. L’unica lingua che il poeta potesse usare per tradurre la disperazione e la povertà di quegli uomini.


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