|
Giro89
Movimento
Capitalismo, dopo
Testo dell'articolo pubblicato
da Le Monde Diplomatique-Il Manifesto, 2 aprile
2002 "Democrazia contro capitalismo"
di Mario Pianta. Recensione a After capitalism,
di Seymour Melman.
Michael Eisner, amministratore
delegato della Walt Disney, ha guadagnato
nel 1998 oltre 15 mila volte il salario medio
di un operaio americano. La
somma delle spese militari degli Stati Uniti tra
1945 e 1995 è superiore al
valore di tutto il patrimonio di ricchezza tangibile
e capitale fisso del
paese. Come possiamo spiegare questi estremi del
capitalismo americano? La risposta comincia da
un'altra domanda: chi decide? Nell'economia come
nella politica questo semplice quesito rivela
molto su
che cosa succede e perché. E' una domanda
rimossa dalla politica, che
rimanda alle regole delle costituzioni formali,
e ancor più dimenticata
nell'economia dove il potere dei manager è
considerato un dato di natura.
Eppure nei rapporti politici internazionali non
ci sono regole formali che
definiscono i poteri globali, e nei rapporti sociali
legati alla produzione
il gioco è assai più intricato di
quanto non facciano pensare le gerarchie
aziendali.
Profitti e potere sono obiettivi congiunti di
chi decide nell'economia come
nella politica, e definiscono il sistema sociale
e produttivo che da tre
secoli chiamiamo capitalismo. Il loro intreccio
si è fatto sempre più
stretto, nelle grandi imprese come nei paesi ricchi.
Qui i profitti si
investono in posizioni di potere - nei mercati,
nella comunicazione, nella
politica nazionale e internazionale - e il potere
assicura a sua volta il
flusso di profitti. Un ruolo chiave ce l'ha l'economia
militare, così
importante negli Stati Uniti: le armi trasformano
il capitale investito
direttamente in potere (e profitti) senza passare
per la produzione di
beni, servizi, consumi e investimenti.
Parte da qui l'ultimo libro di Seymour Melman,
After capitalism. From
mangerialism to workplace democracy ("Dopo
il capitalismo. Dal potere
manageriale alla democrazia sul lavoro").
Melman, professore emerito alla
Columbia University di New York, autore di decine
di testi sulla produzione
industriale, sull'economia militare, su disarmo
e riconversione, a lungo
presidente del Sane, la principale organizzazione
pacifista degli Stati
Uniti, raccoglie in questo volume i temi di una
vita di lavoro. L'asse che percorre l'intero libro
è il contrasto tra l'alienazione
prodotta dalle decisioni di chi ha il potere economico
e politico - i
manager privati e di stato - e lo sforzo per recuperare
il controllo sul
proprio lavoro e la propria vita che da sempre
anima le classi subalterne.
Il cuore del capitalismo viene individuato (con
Marx) nei rapporti sociali
che espropriano i lavoratori, e la ricerca del
"dopo-capitalismo" sta nelle
strade, per nulla ideologiche, ma fortemente politiche,
che consentono a
lavoratori e cittadini di recuperare controllo
sul loro destino. La prima metà del volume
analizza l'insostenibilità della concentrazione
di
risorse, ricchezza e potere nelle mani dei manager
del "capitalismo di
stato" americano. Dietro la facciata un'economia
americana in crescita
record negli ultimi anni, Melman raccoglie l'evidenza
di una realtà ben
diversa. La disoccupazione effettiva, misurata
con standard europei, è
quasi doppia di quella "ufficiale" (l'11%
nel 1996), nel 1997 c'erano due
milioni e mezzo di lavoratori temporanei, 31 milioni
di lavoratori a tempo
parziale, mentre quasi tre quarti delle famiglie
Usa hanno vissuto un
licenziamento dagli anni '80 a oggi. E poi il
18% di americani sono senza
assicurazione sanitaria, 1 milione e 200 mila
sono carcerati, di cui 100
mila occupati nell'emergente complesso "carcerario-industriale",
quasi un
quarto degli americani, compresi molti che un
lavoro ce l'hanno, vivono in
povertà.
Non è solo un disparato elenco di miserie:
è il frutto delle strategie di
globalizzazione dell'economia, di riduzione della
base industriale
americana, di crescente diseguaglianza.
Tra il 1970 e il 1995 solo il 20% più ricco
del paese ha aumentato la
propria quota del reddito, dal 43 al 49%, e guadagna
ora 13 volte di più
del 20% più povero. Il 5% più ricco
ha visto crescere la propria quota del
50% se consideriamo i dati delle dichiarazioni
dei redditi. Considerando il
potere di acquisto del tempo di lavoro, tra il
1993 e il 1998 gli americani
devono lavorare di più per acquistare lo
stesso paniere di beni essenziali;
soltanto abbigliamento, scarpe e benzina sono
diventati meno cari. Il rovescio della medaglia
è la concentrazione di risorse nel settore
militare. Un milione e mezzo di persone nelle
forze armate, 725 mila
dipendenti civili del Pentagono, oltre 2 milioni
e 200 mila dipendenti
nelle industrie militari, la metà della
spesa del governo federale
destinata alla difesa, il 55% della spesa pubblica
per ricerca e sviluppo
che se va in nuovi armamenti (1). L'eredità
della guerra fredda ha
presentato un conto preciso: tra il 1940 e il
1996 la spesa militare Usa è
stata (a prezzi del 1996) di 17 mila miliardi
di dollari, di cui 5.800
miliardi spesi sulla armi nucleari, prodotte in
oltre 70 mila pezzi (p.99).
Solo questo dato è oltre il doppio del
valore attuale di tutti gli impianti
dell'industria manifatturiera Usa.
Gli effetti di questa spesa militare hanno sostenuto
la domanda nelle
politiche keynesiane del dopoguerra, ma hanno
indebolito la capacità
produttiva Usa in campo civile. La produzione
militare si basa su una
logica di rigonfiamento dei costi, sprechi e sottrazione
di risorse scarse
come i ricercatori e gli specialisti delle tecnologie
avanzate. Il
risultato è che il nuovo bombardiere B2
- prezzo due miliardi di dollari
l'uno - costa più del suo peso in oro.
Ci ricorda qualcosa tutto questo? Un
capitolo del libro ripercorre la traiettoria dell'Unione
sovietica
sprofondata sotto il peso della militarizzazione
della sua economia e della
centralizzazione del potere nelle mani dei manager
di stato.
La seconda parte del libro è dedicata alla
ricerca di alternative al potere
manageriale, ricondotte alla categoria di "democrazia
sul lavoro"
(workplace democracy) contrapposta alla logica
gerarchica ed espropriatrice
del potere manageriale. Secondo Melman, i fondamenti
per far entrare la
democrazia nel lavoro sono la ricomposizione tra
chi prende le decisioni e
chi le esegue, la solidarietà e la fiducia
tra i lavoratori, e
l'uguaglianza di fronte alle regole sulla produzione.
Le tracce di questa alternativa vengono trovate
nei nuovi contratti
sindacali dei macchinisti, dell'auto e dell'acciaio
negli Usa che tutelano
le condizioni di lavoro, nell'esperienza della
Saturn, la fabbrica GM
costruita sulla base di rapporti cooperativi con
forza lavoro e sindacato,
nella crescita della sindacalizzazione nei servizi
"poveri" (assistenza,
pulizia, etc.) come nelle professioni "alte"
(medici, docenti universitari,
etc.), nelle corporate campaigns con cui il sindacato
attacca l'immagine e
il consenso delle aziende con cui sono in lotta.
Si criticano invece le
strade illusorie, come gli Esop (Employee stock
ownership plan) americani
che distribuiscono ai dipendenti pezzi di proprietà
delle imprese senza
riconoscere loro alcun potere di controllo.
Fuori dagli Usa si guarda alle esperienze delle
cooperative di Mondragon
nei Paesi Baschi, ai kibbutz israeliani di ispirazione
egualitaria, alle
reti di piccole imprese nell'Emilia Romagna, alla
co-determinazione
tedesca, ai nuovi fondi d'investimento sindacali
del Canada, fino alle
piccole esperienze di auto-organizzazione, di
cooperative comunitarie, di
scambi non monetari, di economia partecipata che,
secondo Melman, "stanno
trasformando "dal basso" il capitalismo
di stato" (p.439).
In questo approccio, questo volume è in
straordinaria sintonia con i
movimenti globali che non cercano il potere, ma
vogliono trasformarne la
natura, non vogliono rimpiazzare le persone al
vertice, ma cambiare il modo
in cui si prendono le decisioni collettive. E
i movimenti nati a Seattle
sono citati proprio per segnalare l'ampiezza della
ricerca di
quest'alternativa. Perché - ci ricorda
Melman - "né l'economia dei mercati
globali nè il neoliberismo promettono un
viaggio tranquillo. La stessa
concentrazione delle scelte dei manager aziendali
e di stato su queste
strategie promette non solo una successione senza
fine di crisi
internazionali, ma il percorso turbolento di guerre
senza fine" (p.15).
Scritto prima dell'11 settembre e della "guerra
infinita" di Bush, questa
capacità di anticipazione è il regalo
che ci viene da un intransigente
radicale di 85 anni.
Seymour Melman, After capitalism. From managerialism
to workplace
democracy. New York, Knopf, 2001, pp-529
Nota
(1) Su questi temi si veda anche Claude Serfati,
La mondialisation armée.
Le désequilibre de la terreur. Parigi,
Textuel, 2001, 173 pp.
|