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Giro88
Movimento
La grande menzogna delle guerre pulite
La nuova dottrina militare
americana: da Le Monde Diplomatique, aprile 2002.
«Le forze armate americane
sono pronte per ogni compito che il nostro comandante
supremo ci indicherà». È la
dichiarazione di fine febbraio del generale Richard
Meyers, capo di stato maggiore della difesa degli
Stati uniti. Dietro ai proclami bellicosi del
presidente George W. Bush, ripetuti nel corso
del recente viaggio in Asia, la gigantesca macchina
militare americana si prepara così alle
imminenti aggressioni contro i paesi accusati
di formare «l'asse del male», l'Iraq
per primo. Alla base, una nuova dottrina di difesa,
nonché armamenti moderni, sperimentati
con successo in azione: nel Golfo, nel Kosovo,
in Afghanistan.
di Paul-Marie de la Gorce
*
Il 31 gennaio scorso, parlando
a un gruppo di giovani ufficiali all'Università
della difesa nazionale a Washington, Donald Rumsfeld,
segretario alla difesa americano, ha esposto la
nuova dottrina militare degli Stati uniti. «Dobbiamo
agire ora - ha dichiarato - per avere una capacità
di dissuasione su quattro importanti teatri di
operazione»; e ha quindi sostenuto che oggi
gli Stati uniti devono essere in grado «di
battere simultaneamente due aggressori, mantenendo
al tempo stesso la capacità di condurre
una controffensiva di vasta portata e di occupare
la capitale di un paese nemico, per insediarvi
un nuovo regime (1)». Si tratta di una svolta
importante rispetto alla dottrina in vigore fino
a ieri.
L'evoluzione degli obiettivi fondamentali della
difesa si è svolta finora in tre fasi essenziali.
Prima degli anni '70, la politica di difesa americana
si era posta l'obiettivo di prepararsi a condurre
«due guerre e mezza». Nello spirito
della guerra fredda, in cui gli stati comunisti
sembravano costituire un blocco unico, bisognava
prevedere l'eventualità di una guerra contro
l'Unione sovietica, di un'altra di natura analoga
contro la Cina, e contemporaneamente di un terzo
conflitto di dimensioni più ridotte, a
livello regionale, contro paesi nemici privi di
una capacità militare comparabile a quella
dei due Grandi: ad esempio la guerra di Corea,
quella del Vietnam, o le spedizioni militari in
Libano, in Guatemala o a Santo Domingo.
Il divorzio tra l'Unione Sovietica e la Cina ha
poi indotto il presidente Richard Nixon ad adottare
il concetto di «una guerra e mezza»,
che prevedeva un solo conflitto di vasta portata,
con l'Unione sovietica o con la Cina, e un conflitto
limitato del tipo già preventivato.
Infine, nel 1992, subito dopo la fine della guerra
fredda, l'amministrazione di Bush (padre) fece
pubblicare un documento intitolato Base Force
Review: questa nuova dottrina prevedeva «due
conflitti regionali importanti» (Major Regional
Conflicts). L'amministrazione Clinton confermò
questi orientamenti, dapprima nel 1993 sulla Bottom-Up-Review,
e successivamente nel 1997 sulla Quadriennal Defense
Review, ove questi conflitti venivano definiti
«guerre di teatri importanti» (Major
Theater Wars) (2) .
Nel suo discorso del 31 gennaio, Donald Rumsfeld
non si è accontentato di estendere la prospettiva
conflittuale da due a quattro «teatri importanti»,
ma ha anche tentato di definire con maggior precisione
le minacce che gli Stati uniti dovrebbero affrontare.
Ha così associato nello stesso schieramento
nemico le organizzazioni terroristiche con «ambizioni
mondiali» e gli stati che le sostengono,
e più particolarmente quelli suscettibili
di spalleggiarli con armi di distruzione di massa
(nucleari, biologiche e chimiche) delle quali
si starebbero dotando.
A definire la minaccia non è più
solo la fonte da cui proviene, ma anche la sua
natura. «Dobbiamo prepararci alle nuove
forme di terrorismo - ha specificato Rumsfeld
- così come agli attacchi contro il potenziale
spaziale americano e alle cyber-aggressioni contro
il nostro sistema di comunicazioni, senza dimenticare
i missili cruise, i missili balistici, gli armamenti
chimici e le armi biologiche».
Per giustificare in anticipo il considerevole
aumento delle spese militari americane, Donald
Rumsfeld ha enunciato i sei principali obiettivi
della nuova politica di difesa: la protezione
del territorio nazionale e delle basi americane
all'estero; la proiezione di potenza offensiva
verso teatri operativi a grande distanza; la distruzione
dei rifugi del nemico; la sicurezza dei sistemi
di informazione e di comunicazione; lo sviluppo
applicativo delle tecniche necessarie alle operazioni
combinate sul campo; la protezione dell'accesso
allo spazio e del potenziale spaziale degli Stati
uniti.
Tuttavia, i cambiamenti annunciati dal segretario
alla difesa non riguardano la dottrina sull'uso
delle varie forze. Quest'ultima procede da quella
che è stata denominata la «rivoluzione
negli affari militari», legata alle nuove
tecnologie in materia di precisione nei tiri a
lunghissima distanza e di informazione permanente
sulle forze in campo e sugli eventuali bersagli.
Si è arrivati così al concetto centrale,
denominato «controllo strategico»,
che consiste nel porsi in permanenza in condizioni
di identificare la situazione dell'avversario,
di ridurre la sua potenza con la distruzione pianificata
delle sue capacità militari, industriali
e politiche e di annientarle ove necessario, al
fine di ottenere il suo arretramento o la sua
capitolazione. Ciò non implica necessariamente
l'occupazione del territorio in gioco, o di quello
del nemico, almeno nella prima fase di un conflitto.
L'azione terrestre deve riguardare unicamente
gli obiettivi prescelti dal potere politico -
cioè dal governo americano.
Gli strateghi hanno sempre sostenuto di aver concepito
questa dottrina di «controllo strategico»
per rispondere a tutte le forme di conflitto.
La sua applicazione si effettua in funzione della
natura dello stato avversario, della sua popolazione,
della sua potenza industriale, delle sue infrastrutture,
delle dimensioni dei suoi agglomerati urbani,
ma soprattutto del suo regime politico e di ciò
che occorre fare per rovesciarlo o neutralizzarlo.
Nella sua applicazione, la dottrina presenta dunque
la massima apertura all'empirismo. Ciò
significa tra l'altro che gli esperti americani
(all'interno dell'amministrazione come nei think
tank convenzionati col governo) ne hanno studiato
attentamente l'attuazione durante la guerra del
Golfo e quelle di Bosnia e Kosovo.
Il controllo come strategia In Iraq, l'offensiva
aerea americana è durata 43 giorni, seguiti
da soli quattro giorni di operazioni terrestri;
in Bosnia ha colpito 300 bersagli, al prezzo di
due aerei perduti e di due uomini uccisi, mentre
le operazioni terrestri erano condotte dagli alleati;
in Kosovo i bombardamenti aerei sono durati 78
giorni, e si sono dimostrati efficaci soltanto
contro obiettivi civili della Serbia, del Montenegro
e sullo stesso territorio del Kosovo. In quest'ultimo
caso non c'è stato nessun caduto da parte
americana; il Pentagono ha riconosciuto soltanto
la perdita di un aereo F 117 e di una quindicina
di apparecchi radiocomandati. Gli esperti hanno
riconosciuto l'insuccesso quasi generale delle
operazioni contro l'esercito jugoslavo, ammettendo
che i carri armati distrutti dalla Nato non sono
stati più di dodici o tredici, come aveva
peraltro indicato il comando jugoslavo: un numero
ben lontano dai quelli dei bollettini vittoriosi
emessi durante la guerra dai servizi d'informazione
e di propaganda dell'Alleanza.
Ciò nonostante, sempre secondo gli esperti,
l'efficacia dei lanci è costantemente aumentata
col progredire dell'esperienza.
Quanto alla guerra in Afghanistan, anche qui è
stata applicata la stessa dottrina, adattata però
alla natura particolare del terreno e alla disposizione
delle forze in campo. In una prima fase in cui
la priorità veniva data alla formazione
di un potere politico da insediare al posto dei
taliban, gli attacchi aerei sono stati diretti
contro le strutture militari avversarie (aeroporti,
mezzi blindati, depositi di materiali e munizioni)
con l'uso complementare di missili cruise lanciati
da aerei o da navi da guerra, con un altissimo
grado di precisione.
Nella seconda fase, il cui obiettivo era l'occupazione
del territorio da parte delle forze dell'Alleanza
del Nord e poi delle milizie pashtun reclutate
sul posto, si è passati ai bombardamenti
massicci. Questi attacchi «a tappeto»
hanno permesso alle forze di terra, reclutate
o sostenute dagli Stati uniti, di progredire con
l'aiuto di alcune unità speciali americane,
senza doversi impegnare in vere e proprie battaglie.
A Mazar-i-Sharif e poi a Kabul le truppe sono
entrate senza combattere, anche se poi vi sono
stati veri e propri massacri.
L'intera città di Kandahar, dove i taliban
si erano rifugiati in ordine sparso, è
stata praticamente distrutta. Quanto al numero
delle vittime dei bombardamenti, non è
mai stato reso pubblico.
Nel complesso, per l'Afghanistan come per l'Iraq,
la Bosnia e il Kosovo, i responsabili americani
hanno motivo di credere che il loro concetto di
«controllo strategico» si possa applicare
sempre, con inevitabili varianti, ma con sufficiente
efficacia, tanto da aver consentito agli Stati
uniti di raggiungere sostanzialmente, e a un costo
per loro irrilevante, i propri obiettivi politici.
Gli artefici e i sostenitori della dottrina militare
americana espongono senza alcun imbarazzo o complesso
il legame esistente tra questo concetto di «controllo
strategico» e gli attuali progetti di difesa
antimissilistica. Naturalmente, invocano la minaccia
da parte di taluni stati di capacità militari
limitate, ma ugualmente in grado di raggiungere
gli Stati uniti con missili a media e lunga gittata
(3). E assicurano che la potenza aerospaziale
americana presuppone l'invulnerabilità
del territorio statunitense, mentre i mezzi di
difesa antimissilistica dispiegati all'estero
in mare avrebbero soltanto funzioni di appoggio.
In questa luce, la correlazione tra il concetto
di «controllo strategico» e il progetto
di difesa antimissilistica si rivela più
determinante di quanto risulti dalle spiegazioni
ufficiali. Questo progetto, denominato Missile
defense system (Mds), ha sollevato molte obiezioni,
ma la determinazione americana le ha ridotte al
silenzio. Nessuno ha protestato nemmeno quando
il governo di G.W. Bush ha dichiarato pubblicamente
la sua intenzione di denunciare il Trattato Abm
del 1972. E neppure quando, senza alcun riguardo
per il preavviso di sei mesi previsto in casi
del genere, l'America ha sperimentato con successo
il lancio di un missile anti-missile da una nave
di superficie.
La scelta del nemico Questo progetto di Mds prende
avvio da un'analisi strategica fondata sulla superiorità
assoluta degli Stati uniti in tutti i settori
della difesa. Gli strateghi - cioè i membri
della commissione costituita per lo studio del
progetto, sotto la presidenza di Donald Rumsfeld,
e lo stesso segretario di stato Colin Powell -
ne hanno dedotto che non era più il caso
rinchiudersi nell'antico concetto, determinante
ai tempi della guerra fredda, di dissuasione reciproca
e di parità nucleare. A parer loro bisognava
invece perseguire obiettivi molto avanzati di
riduzione degli arsenali nucleari, in un contesto
in cui Russia e Stati uniti avrebbero mantenuto
i loro mezzi di dissuasione pur non essendo interessati,
né intenzionati, ad attaccarsi reciprocamente.
Il corollario di quanto sopra è che il
territorio americano, le aree considerate di interesse
vitale e situate presso gli alleati, così
come le basi aeree e americane all'estero, devono
essere difese da un sistema antimissilistico.
Contro chi? Per gli uni il nemico potenziale,
le cui capacità offensive sarebbero distrutte
da uno sbarramento antimissilistico, potrebbe
essere uno dei cosiddetti «stati canaglia»
(rogue states) denunciati dalla diplomazia americana.
Per altri, si tratta evidentemente della Cina.
Oggi però questa discussione è superata.
Il nemico potrebbe essere uno di quegli stati
che non vengono ormai più definiti «stati
canaglia», ma potrebbero essere «interessati»
a progetti di dispiegamento di armi di distruzione
di massa. Potrebbe anche trattarsi della Cina,
designata senza mezzi termini come l'eventuale
avversario nel documento emanato dal Comitato
dei capi di Stato maggiore, intitolato Joint Vision
2020. Di questo testo è stata pubblicata,
nel giugno 2000, una versione edulcorata in cui
la Cina è definita Peer Competitor - cioè
rivale di pari livello.
Chiaramente, la prima zona esterna protetta da
un Missile defense system dovrebbe essere Taiwan,
allo scopo di impedire alla Cina di assumerne
il controllo. Lo stesso avverrebbe per le basi
aeree e aeroterrestri americane installate nel
Kirghizistan e nell'Uzbekistan in modo «stabile»,
se si deve credere a Donald Rumsfeld. Per mantenere
la sua credibilità, la Cina sarà
costretta a portare il proprio sistema missilistico
a un livello di gran lunga superiore a quello
attuale, sia sul piano quantitativo che su quello
delle prestazioni. Secondo informazioni degne
di fede, di origine americana, entro i prossimi
dodici anni un centinaio di missili terra-terra
a testata nucleare, e quindi invulnerabili agli
attacchi preselettivi, potrebbero colpire il territorio
americano (4).
Ma il «nemico» potrebbe trovarsi anche
tra gli stati appartenenti all'«asse del
male», secondo la definizione data dal presidente
George W. Bush nel suo discorso del 29 gennaio
scorso; un asse che comprenderebbe la Corea del
nord, l'Iran e l'Iraq. Ma questi tre paesi non
sembrano avere alcun rapporto con l'organizzazione
terroristica responsabile degli attentati dell'11
settembre. E non sono neppure dotati di armi di
distruzione di massa, dato che quelle dell'Iraq,
ad esempio, sono state smantellate.
Contro questi tre obiettivi, gli ispiratori ed
artefici della nuova dottrina strategica ripropongono
il loro concetto di ricorso alle forze convenzionali.
Per ogni singolo caso sono stati studiati scenari
diversi. Si sa già che per l'Iraq un'offensiva
aerea, contro bersagli accuratamente selezionati,
dovrebbe essere scatenata solo dopo la costituzione
di forze di sostegno terrestri, reclutate sul
posto, in vista di un'operazione complessiva che
dovrebbe concludersi soltanto con il rovesciamento
del regime del presidente Saddam Hussein.
Quanto all'Iran, date le sue dimensioni geografiche,
demografiche, economiche e militari, una guerra
convenzionale contro questo paese appare improbabile.
Gli scenari studiati vanno dal blocco parziale
- che comporterebbe la formazione di una coalizione
disciplinata, difficile da realizzare - a una
serie di attacchi «chirurgici» contro
gli impianti industriali e militari sospettati
di produrre armi di sterminio. Ma nessuno di questi
scenari può evitare un susseguirsi di reazioni
e di contro-misure impossibili da controllare.
La prossimità della Cina limita - pur senza
escluderle - le ipotesi di operazioni aeree o
aeroterrestri contro la Corea del nord. È
stata prospettata anche la possibilità
di accordi negoziati con il governo nord- coreano,
per limitare la produzione, lo sviluppo e l'esportazione
di missili, sull'esempio degli accordi conclusi
a suo tempo con riguardo all'eventuale costruzione
di armi nucleari.
Il fatto che l'amministrazione americana sia decisa
a fronteggiare, in questi tre casi, tutta una
gamma di ipotesi di conflitto, e rifiuti di mettere
in conto qualsiasi altro scenario di crisi, è
sufficientemente dimostrato dall'andamento delle
spese militari. Certo, non si può dire
che il nuovo bilancio americano abbia inaugurato
un rilancio generale della spesa bellica: quelli
dell'ultimo periodo dell'amministrazione Clinton
avevano raggiunto 259 miliardi di dollari nel
1998 e 279 miliardi nel 1999, passando a 290 nel
2000 e a ben 301 miliardi di dollari nell'anno
fiscale 2000-2001 (5). Ma si può senz'altro
parlare di un colpo d'acceleratore: dai 328 miliardi
di dollari stanziati dagli Stati uniti per il
2001-2002 si passerà l'anno successivo
a 379 miliardi; e si potrebbe arrivare a 450 miliardi
di dollari nel 2007. Lo shock degli attentati
ha provocato un'impennata di alcune voci di bilancio,
come quella dedicata alla lotta contro il bio-
terrorismo, passata da 1,4 a 3,7 miliardi di dollari
(6).
La lezione è chiara. Dopo aver annunciato
che ritiene necessario e legittimo il ricorso
alla forza per il raggiungimento dei suoi obiettivi,
l'amministrazione americana sta radunando a questo
scopo tutti i mezzi necessari.
note:
* Giornalista, autore, in particolare,
di Dernier Empire. Le XXIème siècle
sera-t-il américain? Grasset, Parigi, 1996.
(1) Afp, 31 gennaio 2002.
(2) Sull'andamento complessivo
di questa evoluzione, si legga in particolare
Michael T. Klare, «La nuova strategia militare
degli Stati uniti» e Paul-Marie de La Gorce,
«Washington rilancia la corsa agli armamenti»,
Le Monde diplomatique/il manifesto, rispettivamente
del novembre 1997 e del dicembre 1999.
(3) Ammiraglio Marcel Duval, «Le
projet de bouclier antimissile américain»,
(«Il progetto di scudo anti-missile americano»),
Géopolitique, Parigi, n° 7, gennaio-
marzo 2002.
(4) Intelligence et Sécurité,
Parigi, gennaio 2002.
(5) Office of Management and Budget.
Congressional Budget Office.
(6) Judith Miller, «Bush
to Request big spending push on bio-terrorism»,
New York Times, 4 febbraio 2002.
(Traduzione di E. H.)
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