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Giro87
Movimento
La morte di Tobin: Un economista
d'altri tempi
di emiliano brancaccio, da
Il Granello di sabbia n. 40, www.attac.org
"Un intellettuale non incline
al protagonismo e tuttavia pervasivamente influente".
Con queste parole, alcuni anni fa, Federico Caffè
valutava la figura di James Tobin, sottolineando
il suggestivo contrasto tra il carattere schivo
e gentile dell'economista americano e la straordinaria
capacità dello stesso di incidere sul sentiero
di sviluppo della ricerca economica.
Un contrasto grandemente accentuatosi
negli ultimi tempi, in seguito all'ascesa della
Tobin tax sulla ribalta della politica internazionale.
Da essa Tobin ha ricavato una notorietà
sulla quale, con garbo e senso della misura, ha
sempre teso a ironizzare. Un'autoironia graziosa
che lo rendeva, nell'era del narcisismo debordante,
un uomo d'altri tempi, e che non fu mai spinta
al punto da pregiudicarne la passione civile e
l'impegno politico. La ricerca scientifica di
Tobin è vastissima, come testimoniato dal
documento con cui l'Accademia delle scienze svedese
gli conferì, nel 1981, il premio Nobel
per l'economia: "Si può dire che pochi
economisti contemporanei abbiano avuto, come lui,
un'analoga influenza ispiratrice nella ricerca
economica". Del resto, la sua teoria sulle
scelte di portafoglio, benché ormai vecchia
di mezzo secolo, rappresenta tuttora un punto
di riferimento per buona parte dell'analisi macroeconomica
e finanziaria.
Una possibile chiave di lettura
dell'immensa produzione scientifica di Tobin può
individuarsi nel convincimento, mutuato da Keynes,
che la politica può e dovrebbe esercitare
una grande influenza sulla dinamica dei sistemi
economici. Nella versione base della teoria di
Tobin, le autorità di politica economica
disporrebbero di ampi poteri, tali da influenzare
significativamente i livelli e la struttura dei
rendimenti delle attività finanziarie e
dei beni capitali esistenti in un dato paese.
Attraverso opportune manovre espansive, le autorità
non solo sarebbero in grado di ridurre i tassi
d'interesse e il connesso onere del debito pubblico,
ma potrebbero anche stimolare gli investimenti
delle imprese private, e con essi l'occupazione,
la produzione e la distribuzione dei redditi,
sia nel breve che nel lungo periodo (il che la
dice lunga sui tentativi di volgarizzazione di
Tobin quale mero fautore della politica di "stabilizzazione").
I notevoli poteri che la teoria macroeconomica
di Tobin attribuiva alle autorità politiche
rendono il pensiero di questo autore di grande
attualità.
Tobin, in tal senso, ha sempre
vivacemente contestato l'ideologia delle "mani
legate", in base alla quale l'intervento
politico in economia è sempre inutile,
se non addirittura dannoso. Negli anni della controrivoluzione
monetarista e delle sue infelici applicazioni
da parte di Ronald Reagan e di Margaret Thatcher,
Tobin polemizzò con lucidità e pacatezza
nei confronti della teoria su cui quegli esperimenti
politici pretendevano di fondarsi. Il bersaglio
privilegiato di Tobin era una clausola epistemologica
di cui Friedman si fece portatore, in base alla
quale i "costruttori di modelli economici"
verrebbero autorizzati a ritenere che le famiglie,
le imprese e gli altri operatori economici agiscono
nel sistema come se stessero risolvendo complicatissimi
problemi di ottimizzazione. Questa concezione
della "massaia che fa matematica", che
sopravvive tuttora in molte autorevoli sedi della
cittadella accademica, venne sempre considerata
da Tobin un discutibile paravento per giustificare
politiche reazionarie, sperequative, indifferenti
nei confronti della disoccupazione e della povertà.
Naturalmente, le convinzioni di Tobin sulle potenzialità
dell'intervento politico nell'economia non gli
impedirono mai di riconoscere i vincoli cui quell'intervento
poteva esser sottoposto. Il suo modello originario,
elaborato tra gli anni '50 e '60, rappresentava
del resto il funzionamento di un paese isolato
dal resto del mondo.
Con l'espansione delle transazioni
internazionali, commerciali e soprattutto finanziarie,
Tobin riconobbe la necessità di numerosi
adattamenti per la sua teoria, dai quali emerse
un ruolo ben più modesto per l'intervento
pubblico. In particolare, la libera circolazione
dei capitali rendeva spesso le autorità
politiche incapaci di modificare i livelli e la
struttura dei tassi di rendimento delle attività,
dal momento che in un paese aperto agli scambi
internazionali quei tassi vengono determinati
a livello mondiale. L'idea della Tobin tax nasce
e si sviluppa in questo contesto. Con essa, l'inventore
si proponeva due obiettivi fondamentali, uno per
cosi' dire moderato, l'altro decisamente più
ambizioso: stabilizzare il mercato dei cambi,
riducendo cosi' la probabilità di fughe
irrazionali e perverse; e ripristinare un certo
grado di autonomia nell'azione di politica economica
dei singoli paesi. Il primo risultato verrebbe
conseguito in base all'idea che la tassa induce
gli operatori a ridurre il volume degli scambi
speculativi per evitare continue conversioni di
valuta.
Il secondo risultato emerge dal
fatto che la tassa (scoraggiando i passaggi da
una valuta all'altra) costituirebbe una sorta
di cuscinetto fiscale tra i paesi, consentendo
alle autorità politiche di differenziare,
almeno in parte, i rendimenti delle attività
scambiate all'interno rispetto a quelli prevalenti
sui mercati mondiali. La politica, grazie alla
tassa, tornerebbe dunque a respirare: le possibilità
di manovra crescerebbero, e la spada di Damocle
della fuga di capitale si allontanerebbe. Negli
ultimi mesi, autorevoli editorialisti nostrani
hanno sostenuto che Tobin avrebbe rinnegato la
sua proposta di tassazione degli scambi valutari,
considerandola ormai un inutile retaggio del passato.
Pur con tutti gli sforzi, non sono riuscito a
trovare una sola citazione di Tobin in grado di
confermare la "notizia". Al contrario,
ho potuto notare come, appena pochi mesi fa, egli
sia tornato a sostenere l'assoluta validità
teorica e la fattibilità pratica della
sua proposta. Con i tempi che corrono, il disguido
non dovrebbe meravigliarci: Marx non avrebbe esitato
a parlare di "pugilatori a pagamento".
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