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Giro87
Movimento
Ricordare Romero
di Ettore Masina. Questo testo
è stato fatto circolare grazie alle mailinglist
di Peacelink.
In molti luoghi della Terra - e
in molti luoghi italiani in questi giorni
si commemora l'anniversario della morte di monsignor
Oscar Arnulfo Romero,
arcivescovo di San Salvador, assassinato con un
colpo di fucile mentre
celebrava una messa. Sono passati 22 anni da quel
giorno, eppure milioni e
milioni di cattolici (ma non solo di cattolici
e non solo di cristiani)
continuano a farne memoria.
Fare memoria non significa ricordare. Fare memoria
significa rendere
attuale un fatto, un protagonista, le ragioni
di quel fatto, la fisionomia
di quel protagonista, come se fossero accanto
a noi, per noi significanti.
E allora: attuale El Salvador, abbandonato dai
riflettori della cronaca,
dopo una guerra civile che lo ha allagato di sangue?
Attuale un uomo morto
da tanto tempo, senza lasciare trattati teologici,
faraoniche costruzioni,
opere d'arte, congregazioni religiose, istituti
secolari? Attuale un santo
che il Vaticano non ha (ancora?) riconosciuto
come tale? Attuale il suo
"caso" quando cento altri si sono accumulati
in questi anni?
La gente risponde che sì. Romero non è
mai stato un mito e sono i miti ad
avere bisogno, per sopravvivere, di mass-media,
di omaggi formali, di
ceralacche apposte a pergamene fra volute d'incenso;
e sono i miti ad
essere logorati dalle celebrazioni, ridotti spesso
a statuine per i
cruscotti delle automobili o a grandi statue per
le piazze, a devozioni che
sfiorano la magia, a titolari di santuarî
che richiamano allegri picnic più
che meditazioni evangeliche.
Romero è stato un mito soltanto per i suoi
avversari, quelli che lo hanno
descritto come un "vescovo rosso", perché
stava dalla parte dei poveri e si
opponeva, fino a morirne, all'ordine pubblico
degli squadroni della morte.
Mentre lui camminava per i villaggi della sua
terra, fra donne violate e
campesinos uccisi dopo elaborate torture, l'ambasciatore
del Salvador
presso la Santa Sede, nella sua suite al Grand
Hotel, offriva a importanti
monsignori cene prelibate e ghiotte notizie: quel
Romero permette che i
suoi preti alternino la mitraglietta all'aspersorio,
dicano la messa
fumando e usino il caffè invece che il
vino per le eucarestie. I monsignori
prendevano nota. Cinque dei sei vescovi del Salvador
odiavano Romero: uno
di loro amava vestirsi da colonnello dell'esercito,
un altro i campesinos
lo chiamavano "tamagàs" che è
il nome di una vipera velenosa e versipelle.
Su questo Romero che non voleva capire che Mosca
e Belzebù erano alle porte
scrivevano a Roma lettere collettive, in cui la
frase più tenera suonava
così: un povero pazzo. Quanto ai nunzi
apostolici, vescovi ridotti a fare i
diplomatici, tutti a dire: quest'uomo crea turbamenti
fra Stato (fascista)
e Santa Sede. Si ingigantì così
il mito del vescovo che "piaceva ai
guerriglieri", del vescovo-Che Guevara, o,
la caricatura del povero,
ingenuo monsignore strumentalizzato dai comunisti.
Se non fossero odiosi certi giochi di parole,
si potrebbe dire che Romero
non fu un mito, fu un mite. Soltanto contro chi
osava ordinare il genocidio
dei poveri la sua voce ebbe accenti infuocati.
Per il resto la verità è che
egli, a una immensa turba di poveri, che per secoli
si erano troppo spesso
sentiti predicare soltanto la croce dei doveri,
diede l'annunzio che
accanto ai doveri essi avevano dei diritti, e
li esortò a chiederne il
riconoscimento, mettendosi insieme, nella nonviolenza
attiva. No, non fu un
vescovo "rosso", la sua intransigenza
nei confronti del materialismo
dialettico fu sempre ferrea. Ma fu un vescovo
"liberatore". Aveva scritto
un poeta che, a causa delle continue repressioni,
ogni salvadoregno nasceva
già mezzo morto. Romero si chinò
su quelle mezze-vite ascoltandole e
facendone suoi i dolori e poi annunziando loro:
siete i figli prediletti
del vangelo.
Fu immensamente amato dai poveri. e forse in tanta
avarizia di
riconoscimenti da parte del Vaticano non c'è
soltanto il peso di parole
profetiche annotate come "eccessive",
ma anche un grano di invidia da parte
di coloro che vorrebbero essere chiamati padri
da ricchi e da poveri e in
realtà sanno bene che il vero amore cristiano
viene da coloro che hanno
fame e sete di giustizia.
La gente (molta gente) sente che quel monsignore,
il quale, nella prima
parte della sua vita conobbe soltanto la pratica
della preghiera e
dell'elemosina, ma poi si lasciò convertire
dal popolo, è un santo che si
vorrebbe avere per amico; ed è per questo
che alla fine di ogni mese di
marzo gremisce le chiese nel suo ricordo. E nel
ricordo di Romero, il
popolo cristiano scopre che il suo sangue germina
sacerdoti e vescovi che
affrontano intrepidamente gli oppressori dei poveri,
proferendo il "Non ti
è lecito!" che fu di Giovanni il Battezzatore:
vescovi e preti assassinati,
per questo, come i sei gesuiti salvadoregni massacrati
nel 1986. il vescovo
guatemalteco Gerardi, e forse il colombiano Duarte;
vescovi in costante
pericolo di vita, oggi, come alcuni brasiliani,
haitiani, africani. Aveva detto, un giorno, Romero:
"Se mi uccideranno, risorgerò nel
cuore del mio popolo". Erano passati 12 anni
dal suo martirio quando fu firmato l' accordo
di pace fra il governo salvadoregno e le forze
guerrigliere. Quel
giorno, nella piazza del palazzo presidenziale,
ebbe luogo una grande
festa: finalmente dopo tanti anni i salvadoregni
potevano radunarsi senza
paura: muchachos con il fazzoletto rosso del fronte
rivoluzionario accanto
a quelli con le divise dell'esercito, in pace.
Famiglie disgregate si
ricomponevano dopo anni d'assenza. Poi le orchestrine
cominciarono a
suonare, centinaia di coppie si allacciarono nelle
danze. Su una facciata
della cattedrale c'era un'immensa fotografia di
Romero con la scritta:
"Monsignore, sei risorto nel cuore del tuo
popolo": Passando accanto a quel
muro, i ballerini buttavano baci. Qualcuno, tenendo
la dama o il cavaliere
con la sinistra, si faceva il segno della croce.
Non dimenticherò mai
quello spettacolo: e penso che pochi santi abbiano
avuto una così gioiosa,
affettuosa canonizzazione.
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