Sulla rivoluzione russa dell’ottobre 1917 / di Alain Badiou

È sempre impressionante vedere, nel breve tempo di una vita umana, un evento storico invecchiare, consumarsi, raggrinzire e poi morire...

di Redazione - sabato 30 dicembre 2023 - 611 letture

Tratto da Alain Badiou, Pietrogrado, Shangai. Le due rivoluzioni del XX secolo, Mimesisa, 2023, Titolo originale: Petrograd, Shanghai, La Fabrique Éditions, 2018. Traduzione italiana di Linda Valle.

È sempre impressionante vedere, nel breve tempo di una vita umana, un evento storico invecchiare, consumarsi, raggrinzire e poi morire. Morire, per un evento storico, è quando quasi tutta l’umanità ti dimentica. È quando, invece di illuminare e guidare la vita di una massa di persone, l’evento appare solo nei libri di storia specialistici. L’evento morto giace nella polvere degli archivi.

Ebbene, posso dire che, nella mia vita personale, ho visto la rivoluzione d’ottobre del 1917, se non morire, almeno agonizzare. Mi si dirà: non sei così giovane, dopotutto, e per di più sei nato vent’anni dopo tale rivoluzione. Quindi ha avuto comunque una lunga vita! E del resto, si parla dappertutto del suo centenario.

La mia risposta è questa: quasi ovunque, questo centenario, come il bicentenario della Rivoluzione francese, maschererà e mancherà il senso di questa rivoluzione, il motivo per cui per almeno sessant’anni ha scatenato l’entusiasmo di milioni di persone, dall’Europa all’America Latina, dalla Grecia alla Cina, dal Sudafrica all’Indonesia. E perché, allo stesso tempo e in tutto il mondo, ha terrorizzato e costretto a ritirarsi il piccolo manipolo dei nostri veri padroni, l’oligarchia dei proprietari del capitale.

È vero che per rendere possibile la morte di un evento rivoluzionario nella memoria degli uomini è necessario cambiarne la realtà, renderlo una favola sanguinosa e sinistra. La morte di una rivoluzione si ottiene con una dotta calunnia. Parlarne, organizzarne il centenario, sì! Ma a condizione che ci si sia dati strumenti dotti per concludere: mai più!

Anche in questo caso è già successo con la Rivoluzione francese. Gli eroi di questa rivoluzione, Robespierre, Saint-Just, Couthon, sono stati presentati per decenni come tiranni, persone arcigne e ambiziose, assassini in costume. Persino Michelet, un aperto sostenitore della Rivoluzione francese, voleva fare di Robespierre un dittatore.

Va ricordato brevemente che Michelet fece un’invenzione che avrebbe dovuto brevettare, perché gli fruttò una fortuna. Oggi la sola parola “dittatore” è una mannaia che rimpiazza qualsiasi discussione. Chi sono, dopo Robespierre, Lenin, Mao, Castro e persino Chavez in Venezuela o Aristide ad Haiti? Dittatori. La questione è risolta.

In realtà, è con un’intera generazione di storici comunisti, guidati da Albert Mathiez, che la Rivoluzione francese è stata letteralmente resuscitata nella sua portata egualitaria e universale, a partire dagli anni Venti del secolo scorso. È quindi grazie alla rivoluzione russa del 1917 che è stato ripensato in modo nuovo, vivo e militante, il momento fondamentale della Rivoluzione francese, quello che portava con sé il futuro, la Convenzione montagnarda tra il 1792 e il 1794.

Una vera rivoluzione è sempre la resurrezione di quelle che l’hanno preceduta: la rivoluzione russa ha fatto risorgere la Comune di Parigi del 1871, la Convenzione di Robespierre, la rivolta degli schiavi neri ad Haiti sotto Toussaint Louverture, e ancora, risalendo al XVI secolo, la rivolta contadina in Germania sotto la guida di Thomas Müntzer, e ancora, risalendo all’Impero romano, la grande rivolta dei gladiatori e degli schiavi guidata da Spartaco.

Spartaco, Thomas Müntzer, Robespierre, Saint-Just, Toussaint Louverture, Varlin Lissagaray e gli operai in armi della Comune: tanti “dittatori” calunniati e dimenticati, che Lenin, Trockij o Mao Zedong hanno trasformato in quello che sono stati: eroi dell’emancipazione popolare, punti fermi dell’immensa storia che orienta l’umanità verso il governo collettivo di se stessa. Oggi, cioè da trenta o cinquant’anni, dalla fine della rivoluzione culturale in Cina, o dalla morte di Mao nel 1976, è stata organizzata la morte sistematica di questa immensa storia. Il desiderio stesso di tornare a essa è considerato impossibile. Ci viene detto ogni giorno che rovesciare i nostri padroni e organizzare un futuro egualitario globale è un’utopia criminale e un oscuro desiderio di dittatura sanguinaria. Un esercito di intellettuali servili si è specializzato, soprattutto nel nostro paese, la Francia, nella calunnia controrivoluzionaria e nella strenua difesa del dominio capitalista e imperialista. I cani da guardia dell’ineguaglianza e dell’oppressione dei poveri, del proletariato nomade, sono ovunque al comando. Hanno inventato la parola “totalitario” per caratterizzare tutti i regimi politici guidati dall’idea di uguaglianza. Quando si sente parlare, in relazione alla rivoluzione russa, di “totalitario”, si deve automaticamente pensare che dietro di esso, appena nascosto, c’è “egualitario”.

La verità è che la rivoluzione russa del 1917 fu tutt’altro che totalitaria. Ha avuto molte tendenze diverse, ha superato nuove contraddizioni, ha riunito e unito persone estremamente diverse, grandi intellettuali, operai delle fabbriche, contadini dal profondo della tundra. Per almeno dodici anni, tra il 1917 e il 1929, ha attraversato spietate guerre civili e appassionate discussioni politiche. Fu l’esposizione, non di una Totalità totalitaria, ma di un disordine attivo straordinario, attraversato però dalla luce di un’idea, l’idea egualitaria.

Allora, evidentemente, la rivoluzione russa del 1917, con le parole “dittatura” e “totalitario”, non poteva che essere fraintesa e storicamente morta. Per capire qualcosa di questa rivoluzione, bisogna dimenticare tutto ciò che viene detto su di essa. Bisogna tornare indietro alla lunghissima storia dell’umanità, bisogna mostrare come e perché la rivoluzione russa del 1917 in sé, nella sua sola esistenza, è un monumento alla gloria dell’umanità a venire.

Per questo vorrei iniziare con un breve resoconto dell’immensa storia della nostra specie, la storia della bestia umana, la storia di quell’animale strano e pericoloso, geniale e spaventoso che si chiama uomo e che i filosofi greci chiamavano bipede senza piume. Perché il “bipede senza piume”? Perché tutti i grandi animali terrestri sono quadrupedi, ma l’uomo è bipede. E tutti gli uccelli sono bipedi, ma tutti hanno le piume, mentre l’uomo non ce le ha. Quindi solo l’uomo è un bipede senza piume. La rivoluzione russa dell’ottobre 1917, in ogni caso, è stata fatta da una grande massa di bipedi senza piume. Cosa possiamo dire di questa specie animale, a cui tutti noi apparteniamo, a parte il fatto storicamente poco illuminante che è composta da bipedi senza piume?

Innanzitutto, notiamo che si tratta di una specie molto recente, dal punto di vista della storia generale della vita sul nostro piccolo e insignificante pianeta. In ogni caso, non ha più di duecentomila anni, tenendosi larghi, mentre il fenomeno dell’esistenza degli esseri viventi può essere contato in centinaia di milioni di anni.

Quali sono le caratteristiche più generali di questa specie recente? Il criterio biologico di una specie, e della nostra specie tra le altre, è che l’accoppiamento tra un maschio e una femmina di tale specie possa essere fertile. Questo è certamente vero per la specie umana, e spesso, indipendentemente dal colore, dall’origine geografica, dalle dimensioni, dai pensieri o dall’organizzazione sociale dei partner. Questo è il primo punto. D’altra parte, è il secondo punto, la durata della vita umana, altro criterio materiale, non sembra per il momento poter superare i 130 anni, restando larghi. Ma già questo ci permette di fare due osservazioni, certo molto semplici, ma a mio avviso fondamentali, anche per collocare chiaramente la rivoluzione russa dell’ottobre 1917.

La prima osservazione è che l’avventura cosmica, se così possiamo chiamarla, della specie umana, della bestia umana, è in realtà breve. È difficile da immaginare, perché duecentomila anni sono già qualcosa che si perde nelle immense nebbie, soprattutto se si considerano le sfortunate centinaia di anni che limitano con rigore la nostra avventura personale. Tuttavia, dobbiamo ricordare questa banalità: in termini di storia generale della vita, il tempo di esistenza della specie Homo sapiens – un uomo consapevole, dotto, ci chiamiamo così, è piuttosto pretenzioso – è un’avventura specifica molto breve. Si può quindi sostenere che forse siamo solo all’inizio, che forse siamo proprio all’inizio di questa avventura specifica. Questo per stabilire una scala delle cose che si possono dire e pensare in termini di futuro collettivo dell’umanità. I dinosauri, per esempio, non erano molto amichevoli, almeno secondo i nostri criteri, ma esistevano su una scala davvero immensa rispetto alla nostra specie. Non la contiamo in migliaia di anni, ma in centinaia di milioni. Rispetto ai dinosauri, l’umanità, così come la conosciamo, può considerarsi una sorta di misero inizio.

L’inizio di cosa? Sappiamo che i partecipanti alla Rivoluzione francese pensavano di essere un inizio assoluto. La prova: cambiarono il calendario. E nel nuovo calendario, l’anno I era l’anno della creazione rivoluzionaria della Repubblica francese. Per loro la Repubblica, la libertà, la fraternità, l’uguaglianza, era un nuovo inizio per la razza umana, dopo migliaia di anni di dispotismo e di sventure per la vita del popolo. E fu un inizio non solo per la Francia e i francesi, ma per l’intera umanità. Del resto, per i rivoluzionari del 1793, l’umanità e la Francia non erano molto diverse. Nella Costituzione del 1793 si afferma, per esempio, che chiunque al mondo si occupi di un orfano o si prenda cura di un anziano deve essere considerato cittadino della Repubblica. Abbiamo già questa convinzione che con la Rivoluzione l’umanità cambi, che non abbia più la stessa definizione.

E la rivoluzione russa? Be’, pensava ugualmente di iniziare una nuova fase per il genere umano, la fase comunista, la fase in cui tutta l’umanità, al di là dei Paesi e delle nazioni, si sarebbe organizzata per decidere in comune ciò che per essa ha un valore comune. Il “comunismo” è l’affermazione che ciò che è comune a tutti gli uomini deve essere l’oggetto incessante del pensiero, dell’azione e dell’organizzazione.

Questo per quanto riguarda la nostra prima osservazione: la specie umana, forse, sta solo iniziando a essere se stessa. E forse sotto la parola “rivoluzione”, e in particolare la “rivoluzione del 1917”, dobbiamo intendere: l’inizio, o la ripresa, della storia della specie umana.

La seconda osservazione è che esiste un livello materiale indiscutibile, di natura biologica, quello della riproduzione della specie, della sessuazione, della nascita, dove è in un certo senso dimostrato che siamo tutti uguali. Tutti uguali, forse, solo a questo livello. Ma a questo livello che esiste e che è materialmente assegnato. E poi c’è la questione della morte, che avviene entro parametri temporali più o meno fissi.

Quindi possiamo dire, senza rischio di essere smentiti, che esiste un’identità dell’umanità in quanto tale. E alla fine, questa identità dell’umanità in quanto tale non deve mai, ripeto “mai”, essere dimenticata, quali che siano le innumerevoli differenze di nazione, sesso, cultura, impegno storico, ecc. Tuttavia, esiste una sorta di fondamento inconfondibile che costituisce l’identità dell’umanità in quanto tale. Quando i rivoluzionari cantavano, anche in Russia certo, che “l’Internazionale sarà il genere umano”, dicevano che il genere umano è fondamentalmente unico. Marx lo aveva già detto: i proletari, gli operai, i contadini, che costituiscono la maggioranza dell’umanità, condividono un destino comune e devono avere, al di là di tutte le frontiere, un pensiero e un’azione comuni. Lo ha detto brutalmente: “i proletari non hanno patria”. Che vuol dire: la loro patria è l’umanità. Devono capirlo tutti questi giovani che lasciano il Mali, o la Somalia, o il Bangladesh, o altrove; che vogliono attraversare i mari per andare a vivere dove pensano sia possibile vivere, cosa che non possono più fare nel loro Paese; che rischiano cento volte la morte; che devono pagare scafisti predoni; che attraversano tre o dieci Paesi diversi, la Libia, l’Italia, la Svizzera, o la Slovenia, la Germania o l’Ungheria; che imparano tre o quattro lingue, che fanno tre o quattro o dieci lavori. Sì, sono il proletariato nomade, e ogni paese è la loro patria. Sono il cuore del mondo umano di oggi, sanno esistere ovunque ci siano esseri umani. Sono la prova che l’umanità è una, è comune. Per questo non dobbiamo accoglierli solo come fratelli, ma come un’opportunità. E dobbiamo organizzarci con loro affinché l’umanità possa finalmente iniziare la sua vera vita planetaria.

Aggiungerei un altro argomento comunista. È dimostrato che la capacità intellettuale dell’umanità è anch’essa invariabile come capacità.

Naturalmente c’è stata una rivoluzione fondamentale nella storia dell’umanità tra 15.000 e 5.000 anni fa, di gran lunga la più importante nella storia della bestia umana. Si chiama rivoluzione neolitica. In un arco di tempo che si può contare in pochi millenni, l’umanità, che esisteva, così come la conosciamo, da ben più di 100.000 anni, inventò l’agricoltura sedentaria, la conservazione dei cereali nel vasellame e quindi la possibilità di avere un’eccedenza di cibo, quindi l’esistenza di una classe di persone nutrite da questa eccedenza ed esentate dalla partecipazione diretta ai compiti produttivi, quindi l’esistenza dello Stato, rafforzata dall’esistenza di armi metalliche, e la scrittura, che in origine serviva a contare i produttori di bestiame e a riscuotere le tasse. In questo contesto, la conservazione, la trasmissione e il progresso di tutti i tipi di tecniche furono fortemente stimolati. Vediamo apparire grandi città e un potente commercio internazionale, via terra e via mare.

Alla luce di questo cambiamento, avvenuto diversi millenni fa, ogni altro cambiamento è davvero secondario per il momento, perché, in un certo senso, siamo ancora all’interno dei parametri stabiliti a quell’epoca. In particolare, l’esistenza di classi dominanti e inattive, l’esistenza di uno Stato autoritario, l’esistenza di eserciti professionali, l’esistenza di guerre tra nazioni, tutto ciò ci pone ben oltre i piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori che rappresentavano in precedenza l’umanità. Siamo ancora all’interno di questi parametri. La verità è che siamo neolitici.

Tuttavia, questa rivoluzione non significa che, dal punto di vista delle capacità intellettuali, siamo superiori agli esseri umani prima della rivoluzione neolitica. Ricordiamo l’esistenza di pitture rupestri come quelle della grotta Chauvet, che risalgono a trentacinquemila anni fa, quando molto probabilmente esistevano ancora solo piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori, ben prima della rivoluzione neolitica. La sola esistenza di queste pitture attesta che la capacità riflessiva, contemplativa e idealizzante della bestia umana, così come il suo virtuosismo tecnico, erano già esattamente quelle che sono oggi.

Non è quindi solo a livello biologico e materiale che l’identità umana, attraverso la sua avventura, deve affermarsi, ma senza dubbio anche a livello di ciò che è intellettualmente capace di fare. Questa fondamentale unicità, questo “Stesso” biologico e mentale, è sempre stato l’ostacolo fondamentale alle teorie secondo cui l’umanità non è uguale, teorie secondo cui esistono sottospecie fondamentalmente diverse, solitamente chiamate razze. I razzisti hanno sempre temuto e vietato le relazioni sessuali, per non parlare del matrimonio, tra i membri delle razze che definivano superiori e quelli che dichiaravano inferiori. Hanno fatto leggi terribili affinché i neri non avessero mai accesso alle donne bianche, o gli ebrei alle donne presuntamente ariane. Questa ossessione, che si può far risalire alla storia delle correnti razziste, ha cercato di negare l’evidenza, cioè l’unità primordiale dell’umanità, e si è estesa ad altre differenze, come quelle sociali. È noto che una donna della classe dominante non doveva sposarsi, né avere una relazione sessuale, tanto meno figli, con un uomo della classe operaia. I padroni non dovevano riprodurre la specie con gli schiavi, ecc. In altre parole, ci sono stati lunghi periodi in cui l’affermazione dell’unità della specie era uno scandalo sociale. La rivoluzione russa del 1917, sulla scia della Rivoluzione francese, voleva stabilire per sempre il regno egualitario della specie umana. Voleva lasciarsi alle spalle il neolitico.

Ma il punto più essenziale oggi è probabilmente l’organizzazione sociale dominante. Un’organizzazione sociale dominante, anzi, ancor più dominante in quanto ha ormai conquistato l’intera avventura umana, l’intero spazio mondiale. Si chiama capitalismo, questo è il suo nome proprio, e organizza forme mostruose di disuguaglianza, e quindi di alterità, all’interno dell’unità di principio della specie umana, che può benissimo rivendicare. Ci sono statistiche ben note al riguardo, ma le ripeto spesso perché devono essere conosciute. In realtà, tutto questo si può riassumere in una frase: un’oligarchia globale molto ristretta lascia oggi praticamente senza possibilità di semplice sopravvivenza miliardi di esseri umani, che vagano per il mondo alla ricerca di un posto dove lavorare, sfamare una famiglia, ecc. Allora forse è in gioco il fatto che l’umanità è solo all’inizio della sua esistenza storica. Con questo intendiamo dire che la sua organizzazione dominante, a livello di socialità, a livello di ciò che è l’umanità pratica, l’umanità reale, è ancora estremamente ridotta. Che l’umanità sia ancora neolitica significa questo: non è ancora vero che l’umanità, in ciò che produce, fa e organizza, sia in qualche modo all’altezza della sua unità fondamentale. Dobbiamo pensare e affermare che il vero destino dell’umanità consiste nello sperimentare e realizzare figure di esistenza collettiva che siano all’altezza del principio della sua unità fondamentale. Forse ci troviamo semplicemente nelle fasi di avanzamento, ancora approssimative, di questo progetto. Una volta Sartre disse che se l’umanità si fosse dimostrata incapace di realizzare il comunismo – era l’epoca in cui la parola veniva usata in modo innocente, se così si può dire – allora si sarebbe potuto dire, dopo la sua scomparsa, che non era stata molto più interessante o importante delle formiche. È chiaro cosa volesse dire – l’economia gerarchica collettiva delle formiche è nota come modello di organizzazione dispotica –; voleva dire che se sovrastiamo la storia dell’umanità con l’idea che l’umanità debba e possa produrre un’organizzazione sociale commisurata alla sua unità fondamentale, cioè produrre un’affermazione consapevole di se stessa come specie unificata, allora il fallimento totale di questa impresa riporterebbe l’umanità a una figura animale tra le altre, a una figura animale che continua a sottostare alla legge della lotta per la sopravvivenza, della competizione degli individui e della vittoria del più forte.

Mettiamola in un altro modo. Possiamo pensare che è certo che debba esserci, che sia necessaria, nei secoli in atto, o nei millenni in atto, e a un livello che non possiamo determinare, una seconda rivoluzione dopo quella neolitica. Una rivoluzione che sarebbe alla pari di quella neolitica per importanza, ma che, nell’ordine dell’organizzazione immanente della società, ripristinerebbe l’unità primordiale dell’umanità.

La rivoluzione neolitica ha fornito all’umanità mezzi di trasmissione, di esistenza, di conflitto e di conoscenza senza precedenti, ma non ha eliminato, anzi per certi versi ha aggravato, l’esistenza di disuguaglianze, di gerarchie, di figure di violenza e di potere che pure ha portato a un livello senza precedenti. Questa seconda rivoluzione – la definiamo qui in modo molto generale, siamo a un livello prepolitico, se così si può dire – restituirebbe all’unità dell’umanità, questa unità indiscutibile, il potere sul proprio destino. L’unità dell’umanità cesserebbe di essere solo un fatto e diventerebbe in qualche modo una norma, dovendo l’umanità affermare e realizzare la propria umanità, anziché, al contrario, farla esistere nella figura delle differenze, delle disuguaglianze e delle fragilità di ogni tipo, nazionali, religiose, linguistiche, ecc. La seconda rivoluzione liquiderebbe il motivo, in realtà criminale rispetto all’unità dell’umanità, della disuguaglianza di ricchezza e di modi di vita.

Si può dire che dalla Rivoluzione francese del 1792-1794 non sono mancati i tentativi di raggiungere una vera uguaglianza, sotto vari nomi: democrazia, socialismo, comunismo. Possiamo anche ritenere che l’attuale vittoria temporanea di un’oligarchia capitalista globale sia un fallimento di questi tentativi, ma possiamo pensare che questo fallimento sia temporaneo e non dimostri nulla, se ci collochiamo naturalmente al livello dell’esistenza dell’unità dell’umanità in quanto tale. Questo problema non è una questione che riguarda le prossime elezioni – niente di tutto ciò – ma è una questione di secoli. E su questo punto non c’è altro da dire che “abbiamo fallito, quindi continuiamo a lottare”.

Tuttavia, e questo punto ci porta a guardare da vicino la rivoluzione russa del 17 ottobre, c’è fallimento e fallimento. La mia tesi è quindi la seguente: la rivoluzione russa ha dimostrato, per la prima volta nella Storia, che era possibile avere successo. Si può sempre dire che alla lunga, dopo qualche decennio, è fallita. Ma ha incarnato, e deve incarnare nella nostra memoria, se non la vittoria, almeno la possibilità di vittoria. Diciamo che la rivoluzione russa ha mostrato la possibilità di un’umanità riconciliata con se stessa. Ma di quale vittoria si tratta esattamente?

Solo molto tardi, al massimo qualche secolo fa, la questione del fondamento economico degli Stati, della loro natura di classe, è entrata nel vivo del discorso politico. Allora era possibile sostenere, o addirittura dimostrare, che dietro la forma dello Stato (potere personale o democrazia) si poteva benissimo ospitare la stessa organizzazione sociale oppressiva e discriminatoria, in cui le decisioni statali più importanti riguardavano invariabilmente la protezione della proprietà privata senza limiti assegnabili, la sua trasmissione all’interno della famiglia e, in definitiva, il mantenimento, considerato naturale e inevitabile, di disuguaglianze davvero mostruose. Nel nostro Paese, un Paese privilegiato che si vanta della sua democrazia, sappiamo da fonti ufficiali che meno del 10% della popolazione possiede più del 50% della ricchezza totale! Sappiamo anche che più della metà della popolazione non possiede nulla. Se guardiamo al mondo nel suo complesso, le cose vanno peggio: poche centinaia di persone hanno una ricchezza pari a quella di altri tre miliardi. E più di due miliardi di persone non possiedono nulla.

Quando la questione della proprietà privata e delle mostruose disuguaglianze che essa comporta è diventata più chiara, ci sono stati tentativi rivoluzionari di ordine completamente diverso da quelli che riguardavano solo la forma del potere politico. Questi tentativi miravano a cambiare l’intero mondo sociale. Miravano a realizzare una vera uguaglianza. Volevano vedere gli operai e i contadini, i poveri, gli indigenti, i reietti, arrivare ai vertici della società. La canzone di queste insurrezioni si chiamava L’Internazionale. Diceva: “non siamo niente, saremo tutto”. Diceva: “il mondo deve cambiare le sue basi”. Tutto il XIX secolo è stato segnato dai fallimenti, spesso sanguinosi, di questi tentativi. La Comune, con i suoi trentamila morti nelle strade di Parigi, rimane il più glorioso di questi disastri. Aveva inventato, con il nome di “Comune”, un potere egualitario. Ma dopo poche settimane, l’esercito del potere centrale reazionario entrò a Parigi e, nonostante una feroce resistenza nei quartieri popolari della città, massacrò senza pietà i lavoratori in rivolta e imprigionò e deportò migliaia di rivoltosi. Il fallimento continuò la sua marcia funebre.

È ora di ricordarlo: quando la rivoluzione russa durò più a lungo, per un solo giorno, della Comune di Parigi, il principale leader di quella rivoluzione, Vladimir Ul’janov Lenin, danzò sulla neve. Era consapevole del fatto che, a prescindere dalle terribili difficoltà che lo attendevano, la maledizione del fallimento era stata eliminata!

Che cosa era successo?

Innanzitutto, a partire dagli anni 1914-1915, si verificò un significativo indebolimento del dispotico Stato centrale russo, impegnato in modo sconsiderato nella Grande Guerra del 1914-1918. In effetti, la guerra mondiale aprì una grave crisi del potere monarchico in Russia. Nel febbraio del 1917, una rivoluzione, classicamente democratica, rovesciò lo Stato. Non c’era niente di nuovo: grandi Paesi come la Francia, l’Inghilterra e la Germania avevano già istituito regimi parlamentari, in alcuni casi da molto tempo, con capi di governo eletti. In un certo senso, la situazione russa, con il dispotismo dello zar e il potere aristocratico dei proprietari terrieri, era in ritardo. Ma questa rivoluzione democratica non ha fermato il movimento. Da anni in Russia ci sono gruppi intellettuali rivoluzionari molto attivi, che vedono oltre la semplice imitazione delle democrazie occidentali. C’è una classe operaia giovane in formazione, molto incline alla rivolta e priva di un quadro sindacale conservatore. C’è un’enorme massa di persone estremamente povere e oppresse. Ci sono, a causa della guerra, centinaia di migliaia di soldati e marinai in armi, che odiano quella guerra e che pensano giustamente serva soprattutto agli interessi imperialisti di Francia e Inghilterra contro le ambizioni non meno imperialiste della Germania. C’è infine un partito rivoluzionario solido e vivace, strettamente legato ai lavoratori. Questo partito si chiama partito bolscevico. È allo stesso tempo molto vivace nelle discussioni, ma più disciplinato e attivo di tutti gli altri. All’inizio della guerra era decisamente in minoranza, ma si è sviluppato molto rapidamente con la crisi politica. È molto presente nella giovane classe operaia russa. Alla sua guida troviamo persone come Lenin e Trockij, che combinano una forte cultura marxista con una lunga esperienza militante, ossessionata dalla lezione della Comune di Parigi. Infine, e soprattutto, nate nel movimento della rivoluzione democratica di febbraio, ci sono le organizzazioni popolari locali, comparse ovunque, nelle grandi città, nelle fabbriche, in alcuni villaggi rurali. Queste organizzazioni funzionano come una riunione, una grande riunione di massa, in cui gli oratori presentano la situazione e i vari orientamenti possibili. Queste assemblee popolari, molto diverse tra loro, molto vivaci, hanno obiettivi propri. Ma tutte pensano che le decisioni politiche e sociali debbano essere discusse e convalidate in queste assemblee, e non solo in un governo lontano e timoroso, che si dichiara democratico, ma che continua a proteggere il vecchio mondo russo. Queste organizzazioni si chiamano soviet. La combinazione della forza inventiva e disciplinata del partito bolscevico e delle assemblee della democrazia di massa che sono i soviet costituisce la chiave, dopo la rivoluzione del febbraio 1917, della seconda rivoluzione dell’autunno 1917.

Ciò che è unico nella storia dell’umanità è la trasformazione di una rivoluzione che mira solo a cambiare il regime politico, a cambiare la forma dello Stato, in una rivoluzione completamente diversa, che mira a cambiare l’organizzazione della società nel suo complesso, rompendo l’oligarchia economica e affidando la produzione, sia industriale che agricola, non più alla proprietà privata di pochi, ma alla gestione decisa da tutti coloro che lavorano.

Questo progetto, che si concretizzerà nella terribile tempesta della rivoluzione russa, nella presa del potere, nella guerra civile, nel blocco, nell’intervento straniero, va visto come voluto e organizzato. L’idea generale di tutto questo ha potuto vincere perché era presente, in modo consapevole e volontario, nella maggioranza del partito bolscevico, certo, ma dalla fine dell’estate del 1917, nella maggioranza dei soviet, e in particolare nel più importante di essi, il soviet della capitale, Pietrogrado.

Un esempio eclatante è contenuto, già nella primavera del 1917, nel programma generale che Lenin fece circolare nel Partito, affinché animasse le discussioni in tutto il Paese. Tutte le componenti di questo programma, di questo insieme di decisioni possibili, sono orientate all’idea di una rivoluzione completa e globale di tutto ciò che esisteva, di fatto, dal neolitico. Questo testo è talmente notevole che ne presento un commento dettagliato nel secondo capitolo di questo libro. È un testo in cui Lenin mostra ciò che deve essere fatto rispetto alla situazione della Russia, tenendo conto sia della guerra mondiale, che continua, sia della rivoluzione di febbraio. Ora, questo “fare”, e il pensiero che lo accompagna, pone al centro del processo a venire gli elementi fondamentali di un’uscita dal neolitico: la collettivizzazione della proprietà agraria, industriale e bancaria, e la fine dello Stato centralizzato. Quanto allo stile politico, lontano dal “volontarismo” violento attribuito a Lenin, è fatto di pazienza, discussione e persuasione. È uno stile politico basato sulla pazienza e sulla durata, proprio nel momento in cui si tratta di passare da una sequenza di rivoluzione borghese classica a una sequenza completamente nuova di sconvolgimento integrale dell’organizzazione sociale.

E difatti, è proprio perché questo orientamento generale, fissato in aprile, diventerà maggioritario all’inizio di ottobre nei grandi soviet operai, in particolare in quello di Pietrogrado, che la situazione potrà oscillare in direzione di una vittoriosa insurrezione comunista.

Su queste basi, e attraverso gigantesche prove legate alla particolare situazione della Russia, si verifica effettivamente, a partire dal 17 ottobre, la prima vittoria, nell’intera storia dell’umanità, di una rivoluzione postneolitica. È vero che la stessa insurrezione di ottobre, la presa del potere, fu più un’iniziativa del Partito comunista che una decisione di massa dei soviet; che la guerra civile costrinse il potere rivoluzionario a una concentrazione e a una disciplina spesso violente; sappiamo che, all’inizio degli anni Venti, Lenin, malato, era profondamente preoccupato per questo stato di cose e voleva, secondo le sue stesse parole, che la burocrazia statale fosse sottoposta al controllo di quello che chiamava un “ispettorato operaio e contadino”. Sappiamo che dall’inizio degli anni Trenta, dal 1929 in poi, con il primo piano quinquennale, sotto l’implacabile guida di Stalin, si passò da “tutto il potere ai soviet” a “tutto il potere alla completa fusione del partito comunista e dello Stato”, e quindi alla scomparsa del potere dei soviet. Questa trasformazione della forma di potere prepara, in lontananza, ma prepara, un’industrializzazione di certo molto necessaria e molto rapida, ma che è in definitiva legata al lavoro forzato, alle deportazioni e al Terrore, che raggiungerà il suo apice nel 1937-1938. Ma prepara anche, dopo la morte di Stalin, la stagnazione nel ruolo ufficiale di grande potenza mondiale, e poi il ritorno, sotto forma di catastrofe, all’ovile del capitalismo e del mercato mondiale.

Perciò tutto questo è ora esposto alla morte storica, all’oblio concertato. D’ora in poi, la rivoluzione russa viene giudicata dal punto di vista del ritorno al consenso neolitico.

Tuttavia, qualunque siano stati gli avatar di questa avventura inaudita, e qualunque sia la situazione attuale di ripresa del potere globale da parte delle cricche neolitiche contemporanee, possiamo sapere che la possibilità di vittoria di un mondo postneolitico è possibile. Che tale mondo può esistere, e quindi deve esistere. E che, di conseguenza, l’attuale dominio del capitalismo globale è sempre e solo un passo indietro senza interesse né futuro. Questo dominio della moderna forma di proprietà privata che è il capitalismo ha portato nel XX secolo e porterà nel XXI secolo solo a guerre feroci, con decine di milioni di morti. Il capitalismo è morte. La rivoluzione comunista dell’ottobre 1917 è, a livello del futuro dell’umanità, l’inizio della vita. Questa rivoluzione rimane la base su cui sappiamo che, nonostante le apparenze passeggere, il capitalismo dominante è già, e per sempre, una cosa del passato. Il nostro dovere è quello di abitare questo passato, che ci è stato imposto, per costruire l’abitazione politica di un presente reale, di una vita reale, che rimanga rivolta verso la seconda mutazione, quella postneolitica. Di questo presente vivo che lotta contro la morte, la rivoluzione russa rimane un emblema che, per quanto possa apparire passato, è comunque, contro la morte, rivolto verso il futuro.


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