Sgalambro libero e anarchico
Manlio Sgalambro fu pensatore libero e anarchico, si possono non condividere talune posizioni politiche, ma egli è stato testimone di libertà. La libera individualità è stato il sentiero che ha battuto durante la sua esistenza...
Ricordare Manlio Sgalambro
Difendere la sovranità nazionale non denota la difesa dei soli interessi strettamente economici di una nazione, è valorizzazione dell’identità culturale in toto della stessa. Chi ama autenticamente la propria identità vive con gioia la libera espressione delle altrui identità nazionali con cui confrontarsi e compararsi senza nevrosi.
Riconoscere i contributi culturali in ogni campo frutto dell’impegno dei cittadini della comunità nazionale favorisce la consapevolezza delle potenzialità e dei limiti che ogni storia patria reca con sé. Rimuovere dalla storia gli uomini e le donne che hanno rielaborato in nuove forme il pensiero e la scienza del patrimonio comune, significa porre le condizioni per un genocidio culturale. Molti nomi della filosofia e della poesia italiana giacciono sconosciuti alle nuove generazioni, le quali in questo modo diventano cittadini formali di una nazione che disprezzano. Si ama di uno Stato l’identità e la si difende senza contrapposizioni nazionaliste, se la si conosce. Nel nostro tempo le oligarchie plutocratiche lavorano per la dimenticanza. Chi non ha memoria non ha punti di riferimento e più facilmente si piega alla violenza dell’ordine costituito.
Manlio Sgalambro scrittore e filosofo è oggi quasi sconosciuto. Le istituzioni sono troppo prese dal tagliare i programmi scolastici e la cultura, pertanto la dimenticanza-ignoranza regna ed impera. La nuova stella cometa che brilla sulla nazione è l’opacità dell’oblio.
Filosofia e libertà
Manlio Sgalambro fu pensatore libero e anarchico, si possono non condividere talune posizioni politiche, ma egli è stato testimone di libertà. La libera individualità è stato il sentiero che ha battuto durante la sua esistenza. Nel tempo del conformismo e del timore panico per le individualità autentiche fu maestro di libertà.
La scrittura in Manlio Sgalambro è di una vivacità ironica sempre elegante al limite dell’elitario. La fatica per non scendere da un tale livello di maestria nell’uso vissuto della parola dev’essere stato notevole. Il disprezzo verso la filosofia che diviene sistema veritativo e che si trasforma in rassicurante ossessione ci rammenta che la filosofia deve lasciarsi toccare dalla vita e non può rifugiarsi in rassicuranti empirei.
La definizione divenuta ossessione compulsiva dei filosofi uccide la vita e il pensiero. La filosofia deve dunque emanciparsi dalle certezze che servono al filosofo come “casa e rifugio” contro la vita che tutto sbriciola nella sua camaleontica corsa:
“L’evidenza dunque è come un peso, un macigno, e chi ce l’ha ne vorrebbe fare a meno, se ne sbarazzerebbe volentieri. Ma quando essa ti marchia a fuoco, quando ti cattura, per te è finita. Tu hai quella evidenza e basta. Nessuno potè levare la sua evidenza a Platone. Ma nemmeno al più disponibile Seneca... Immagina di voler discutere con Hegel e ti proponi di levargli l’evidenza. Ma tu scherzi! Gli puoi levare la vita, ma non l’evidenza. Solo i filosofi in titulo se la lasciano sfilare senza neanche accorgersene. Anzi, accompagnano la svestizione con canti e danze, grattandosi dove capita. Dunque nessun filosofo (che tragga il suo titolo non dallo Stato, ma dalla propria natura) può rinunciare alla sua evidenza. Perché anche se tu lo volessi, anche se migliaia di volte ci provassi, inutile, non potresti togliertela di dosso. Così non puoi che parlare di essa. Vorresti invece parlare d’altro, darti al bel tempo... Ma no, non puoi farlo. L’evidenza si insinua ovunque” [1].
Possedere un’evidenza presunta è una sciagura, essa contamina la fonte della vita e la ostruisce con la sua ingombrante presenza. Il filosofo è grande, quando si libera nel tripudio dionisiaco dal peso della definizione:
“Forse ci vuole una certa disposizione, il destino segnato, insomma, perché ti capiti questa sciagura. Giacché avere una evidenza è certamente la disgrazia più nera che possa capitare a un filosofo. Egli è come imprigionato, immobilizzato da mille laccioli: non può fare un passo, non il più piccolo movimento senza che l’evidenza non lo redarguisca, dicendogli dove deve andare e che cosa deve fare” [2].
Non si scrive per i lettori, la filosofia in tal maniera decade a mercato e a pratica astratta, se si rivolge al mercato e ai lettori. Chi legge usa solo gli occhi, pertanto non vive con la totalità di se stesso il pensiero filosofico. La filosofia dei “lettori” non è più tale, è solo un esercizio colto di lettura per persone che non sanno trarre da sé i grandi temi. Kant scrisse per i lettori, egli è parte di un processo di decadenza, poiché il filosofo vive e testimonia con la carne i grandi temi:
“Non è un semplice espediente retorico quello per cui Kant, nella Kritik der reinen Vernunft, si rivolge al ’lettore’. La faccenda è invece che davanti alla posizione di un ’Io’, di un ’Soggetto’ - o quali che siano i termini con cui si identifica ’l’Autore’ -, all’interlocutore viene assegnato solo il compito di leggere, e quindi la liaison è quella tra un Io e un lettore, e niente di più. La confusa presenza di ’altri’ la troviamo, per così dire ante christum, nei ’dialoghi’. Qui ’tutti’ fanno ressa. Senza una ragione comune, infatti, il dialogo non potrebbe essere istituito” [3].
Parola e vita
I falsi filosofi sono parte dei processi di plebeizzazione imperante. Essi sono solo “facitori di parole”. La parola uccide la vita, la allontana e la tratta come nemica, anziché sentire-pensare la vita, si interpone tra sé ed essa con le interminabili discussioni. La parola barocca e il rimestare nel già stato sono il sintomo più evidente dell’assenza della creatività e della vita interiore: da sé non si trae nulla, per cui ci si perde in inutili e interminabili dialoghi in cui si approda al “niente”:
“La filosofia, considerata academice, è la capacità dei filosofi di mestiere di discutere all’infinito di tutte le evidenze senza averne nessuna. Rapporti di lavoro e contratti condizionano il taglio del loro pensiero. «Non si penserà che, ’dopo Nietzsche’, la verità possa ancora essere una evidenza» dicono, pieni di sdegno, i filosofi accademici. Ma l’evidenza non si presenta a piacere, e non perché ’dopo Nietzsche’ non se ne possano avere” [4].
La terminologia di cui si beano i filosofi, in realtà è il segno della morte vita e creatività. La terminologia è come l’ascolto di risonanza di colui che accosta l’orecchio alla conchiglia, essa fa affiorare il mare, ma è solo una lontana e sbiadita copia del mare. La terminologia è ciò che resta della vita vissuta e giunta a noi in forma cadaverica nella forma dei termini:
“Quanto alla terminologia filosofica, è una salvaguardia di cui non si può fare a meno. Immaginare di pensare senza di essa è impossibile. Voglio ancorarmi a un esempio che vale per tutti: per un teologo Dio è un termine tecnico, non un pezzo di carne. Ciò che fece parte di una storia vivente ora fa parte di una terminologia” [5].
Il giudizio sul comunismo fu impietoso, ma i veri comunisti non temono i giudizi radicalmente critici, si confrontano con essi. Egli che difendeva l’individualità aristocratica dello spirito, vide nel comunismo il desiderio delle individualità incapaci di essere tali. Essi vogliono fondersi e confondersi in una unità informe e untuosa:
“M.S. Io sono un comunista disperato. Traggo cioè l’idea di comunismo - che non confondo con quella balorda di ’società migliore’ - non dalla storia, da cui non mi sognerei di aspettarmelo, ma contro la storia e per così dire da un’altra parte. Tu conosci la mia indignazione per essere nato, la mia inutile passione per l’inutile nulla. Vuoi il comunismo, ti dico? Allora non vuoi né un ’io’ né un ’noi’, ma una indistinzione, un muco, una poltiglia in cui ogni differenza sia ormai solo approssimativa e vaga. Non vedi dunque come esso sia uno stato regressivo, dove sbarazzarsi del peso della propria bestiale individualità - o, se ti sembra meglio, del prìncipium individuationis - è già godere di un nulla relativo?” [6].
Manlio Sgalambro fu simile al vulcano che connota la sua terra: la Sicilia. Sentì fortemente la forza magmatica ed eruttiva della vita che distrugge e crea in mille forme ed ha la forza plastica di risorgere. Similmente al nolano Giordano Bruno pensò con la sua terra. Il pessimismo virile di Manlio Sgalambro non deprime, perché ci pone domande, mentre ci riporta nel gioco crudele della vita:
“Non considero la ’vita’ un fenomeno unitario. Ma esistono tante vite quante sono le vite. Per cui parlare della ’vita’ (nel senso in cui ne parlano) mi sembra del tutto inesatto. Esistono tante vite, ma nessuna ’vita’. L’esercizio più notevole che hanno fatto i filosofi al riguardo concerne (dovrei dire, concerneva) quell’Ente che andava per i più sotto il nome di Dio. Penetrare nella ’vita’ di Dio, che era l’essere altro per eccellenza, costituiva il punto più estremo della conoscenza. Ma qui Dio o un insetto si equivalgono. L’Insetto, come Dio, è ’Altro’ per sempre” [7].
[1] Manlio Sgalambro, De mundo pessimo, introduzione “Lo scrittore di filosofia”, Adelphi edizione, 2004 pp. 19-20
[2] Ibidem, pag. 18
[3] Ibidem, pag. 23
[4] Ibidem. pag. 17
[5] Ibidem pag. 12
[6] Ibidem, Dialogo sul comunismo, pag. 114
[7] Ibidem, De Coelo, pag. 88
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