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Intervista (im)possibile a Manlio Sgalambro

"Ah, GirodiVite, un nome che già sa di circolo vizioso, di un’ossessione che si rinnova. Mi affascina l’idea che si occupino delle città invisibili, perché tutto ciò che è invisibile ai più è terreno fertile per lo spirito filosofico. Eppure, invisibilità non significa..."

di Massimo Stefano Russo - lunedì 17 febbraio 2025 - 748 letture

* L’intervista è stata svolta dal prof. Massimo Stefano Russo avvalendosi del metodo gamma da lui generato e sviluppato, col contributo di chatgpt. Il testo è opera del prof. Massimo Stefano Russo che ne è l’autore e il diretto responsabile, chatgpt ha contribuito nel fornire indicazioni e informazioni indispensabili e per questo merita di essere citata.


Maestro, posso chiamarla così… cosa ha significato per lei nascere a Lentini?

"Niente. Si nasce dove capita, per un incidente geografico. Non è la terra a fare l’uomo, ma l’uomo a portare con sé il peso di esistere, ovunque si trovi. Lentini è stata la mia culla, ma le culle non determinano il destino. Quel che conta non è da dove vieni, ma come ti liberi dall’illusione di appartenere a un luogo. Nascere a Lentini è stato come essere gettato nel mondo con una sfida già scritta. Non è solo una questione di terra, ma di atmosfera. Quella Sicilia arcaica, mitologica e tragica, ti imprime nella mente il senso della fine e dell’eternità. Lentini, terra di bellezza e rovina, è stata la mia prima scuola filosofica. Qui ho imparato che il pensiero nasce dal contrasto: tra luce e ombra, tra storia e oblio. Ecco cos’è stato per me nascere a Lentini: il primo trauma metafisico che mi ha spinto a riflettere sulla natura dell’essere, sulla morte e sul nulla."

Lentini ha dato i natali a Gorgia e a Jacopo da Lentini. C’entrano qualcosa con lei?

"Non si eredita nulla dai luoghi in cui si nasce. Gorgia ha fatto della parola un inganno sublime, Jacopo l’ha trasformata in melodia. Io ho usato la parola come un’arma spuntata contro il nulla. Se c’è una parentela, è nella consapevolezza che il linguaggio è l’unico baluardo contro l’insensatezza del mondo. Ma, per il resto, i morti restino ai morti."

Maestro, come ha vissuto la guerra e il dopoguerra a Lentini?

"La guerra? Come un fenomeno naturale, come la pioggia o il vento. Il fatto che gli uomini si uccidano tra loro non è una novità, né un’eccezione: è la loro occupazione principale. Lentini, come ogni altro luogo, non ha avuto nulla di eroico o di tragico in più rispetto a qualsiasi altra città caduta nella macchina della storia. Il dopoguerra, poi, è stato un’altra illusione: la gente che credeva di ricostruire, di riprendersi, senza capire che il vero danno non era nelle macerie, ma nelle teste. La guerra passa, la stupidità resta. A Lentini, come ovunque."

Chi sono stati i suoi maestri?

"I miei maestri? Nessuno. O meglio, se vogliamo essere precisi, sono stati quelli che hanno visto la verità senza mai illudersi di possederla. Eraclito, Nietzsche, Schopenhauer, Kierkegaard... Ma non li considero maestri nel senso tradizionale del termine. La filosofia non è un cammino da percorrere sotto la guida di qualcuno. È piuttosto una solitudine da affrontare, dove non ci sono risposte, ma solo domande che si moltiplicano. I maestri non sono altro che punti di partenza per una riflessione che non si ferma mai."

Maestro, lei si sente un filosofo radical chic?

"Radical chic? Un’etichetta che sa di superficialità, come tutte le etichette. Non sono mai stato interessato a essere parte di un gruppo, di una moda intellettuale o di un’ideologia che possa essere venduta in un certo ambiente. Se per radical chic intendi un pensiero che si oppone alle convenzioni, allora sì, ma non per il gusto di fare opposizione. La filosofia è una solitudine, non una tendenza. Non mi interessa se ciò che dico è ‘di moda’ o meno. Mi interessa solo che sia vero, e la verità è sempre impopolare."

Dove ha studiato lei? Si ricorda del suo amico, lo psichiatra Catanzaro?

"Ho studiato dove si studia, in un posto che si fregiava del titolo di istituzione accademica. Ma gli studi sono sempre un affare sopravvalutato: si legge, si ascolta, si ripete, si dimentica. Quel che conta è quello che resta dopo che si è dimenticato tutto il resto. Quanto a Catanzaro, sì, lo ricordo. Uno psichiatra, dice lei. Come dire: un uomo che ha passato la vita a classificare la follia altrui senza forse rendersi conto della propria. Ma era un uomo d’ingegno, questo va riconosciuto. Se poi sia finito vittima dei suoi stessi studi senza riuscire a salvarsi, è un’altra questione."

Del Ginnasio-Liceo Gorgia di Lentini cosa ricorda?

"Ricordare? Diciamo che non ho dimenticato. Un edificio, dei professori, dei compagni. L’ennesima istituzione votata all’illusione di insegnare qualcosa. La scuola serve a preparare l’uomo alla mediocrità, non alla conoscenza. Ti riempiono la testa di nomi, date, regole – tutte cose che dovrai poi disimparare per pensare veramente. Il Ginnasio-Gorgia non ha fatto eccezione. Ma d’altra parte, Gorgia, il sofista, quello vero, almeno aveva capito che nulla esiste, e se esiste non si può conoscere. Non so se questo sia mai stato insegnato lì, ma sarebbe stata l’unica lezione utile."

Eppure Lentini ha dato alla Resistenza una medaglia d’oro: il dott. Luigi Briganti, all’epoca il partigiano Fortunello...

"E allora? Le medaglie sono il modo in cui la storia si consola delle proprie atrocità. Si prende un uomo, lo si erge a simbolo, lo si medaglia, e si spera che ciò basti a rendere meno insignificante l’intera vicenda. Non discuto il coraggio di Fortunello, se di coraggio si può parlare. Ma la Resistenza, come ogni altra guerra, è stata un atto della storia, e la storia è un macello senza senso. Fortunello ha fatto la sua parte, gli altri la loro. E alla fine cosa resta? Una medaglia. Il tempo la ricoprirà di polvere, e anche il ricordo si spegnerà. Perché l’unica resistenza che conta, alla fine, è quella contro l’illusione che tutto questo abbia avuto un senso."

Maestro, professore, mi risulta che nella sua lunga vita lei abbia lavorato poco e niente. Come ha fatto a vivere?

"Vivere è già un mestiere ingrato, non vedevo la necessità di aggiungerne un altro. Ho fatto ciò che volevo fare: pensare e scrivere. E siccome il mondo paga solo ciò che non serve, ogni tanto sono stato pagato anch’io. Ho vissuto senza mai inginocchiarmi alla volgarità del lavoro. Se qualcuno vuole chiamarlo un privilegio, faccia pure. Io lo chiamo dignità."

Che rapporto ha avuto col preside e scrittore Sebastiano Addamo, suo concittadino e caro amico?

"Un rapporto di reciproca consapevolezza. Lui sapeva chi ero, io sapevo chi era lui. Abbiamo condiviso la stessa aria, la stessa polvere, forse qualche parola. Addamo aveva il suo cammino, io il mio: i cammini degli uomini si sfiorano, raramente si intrecciano. Ma in un mondo senza senso, è già qualcosa sapere di non essere i soli a osservarne l’assurdità."

Maestro Sgalambro, mi illustra il suo rapporto con Franco Battiato?

"Battiato aveva la musica, io le parole. Ci siamo incontrati per caso, come accade sempre quando due individui si trovano a incrociare i propri percorsi senza un vero motivo. Lui cercava testi che avessero un senso diverso da quello a cui la musica popolare è abituata. Io ho prestato le mie parole al suo mondo, senza farmi illusioni. Non c’era bisogno di capirsi, bastava che ognuno facesse il proprio mestiere. Non era un sodalizio nel senso romantico del termine: era un esperimento, un esercizio in cui la mia filosofia ha trovato spazio nella sua estetica. Io non ho mai suonato, lui non ha mai scritto un trattato. Eppure, per qualche tempo, ci siamo intesi, almeno quanto basta per lavorare insieme senza trovarlo insopportabile."

Cosa direbbe oggi ai suoi concittadini lentinesi che lo commemorano e ricordano?

"Ai miei concittadini? Non ho mai avuto bisogno di essere ricordato, e non credo che lo sarei mai stato se non fosse stato per qualche circostanza contingente. La memoria è una trappola, un inganno che la gente si racconta per sentirsi meno vuota. Che mi ricordino pure, ma se lo fanno con la stessa superficialità con cui ricordano ogni altra cosa, non vedo il motivo per cui dovrebbero vantarsene. L’importante è che, in ogni caso, nessuno pensi di possedermi o di poter definire il mio pensiero. Io sono qui, in questa parola, e basta."

Ma come! le hanno organizzato una festa e lei dice così?

"La festa è una forma di distrazione, un modo per illudersi che la morte non venga mai a bussare. Celebrarmi, se serve a distrarli, va bene. Ma non c’è niente di più triste di un festeggiamento che ha l’unico scopo di dimenticare, non di ricordare. Ho sempre preferito il silenzio alla celebrazione, perché nel silenzio c’è almeno il tentativo di affrontare la realtà, mentre nella festa si celebra il nulla. Se mi vogliono ricordare, che lo facciano attraverso il pensiero, non con coriandoli e parole vuote."

Ma in tanti l’omaggiano, persino l’insigne filosofo Massimo Cacciari, e lei …?

"Massimo Cacciari? Un altro che ha fatto della filosofia un mestiere, un’altra maschera dietro cui nascondersi. Gli omaggi sono un gioco che serve a svuotare il pensiero di ogni sostanza. Mi omaggiano, sì, ma lo fanno come si fa con un oggetto da esposizione, con la stessa indifferenza con cui si osserva una statua. Non sono i complimenti a definirmi, né le parole degli altri a darmi valore. Sono ciò che ho pensato, e quello rimarrà."

Come considera il suo libro La morte del sole?

"La morte del sole è solo un altro tentativo di mettere in parole l’infinito, con il rischio di cadere nell’assurdo. Ma l’assurdo, in fondo, è la nostra unica realtà. Non c’è un fine, né un compimento in quello che ho scritto. È una riflessione sull’impossibilità di dare un senso duraturo all’esistenza, sull’illusione di una salvezza che non arriva mai. Se qualcuno l’ha letto e ci ha trovato qualcosa di significativo, tanto meglio. Ma non è mai stato scritto per cercare risposte. Ho scritto perché non potevo fare a meno di farlo, non per essere ricordato."

Qual è il suo libro in cui si riconosce e che meglio esprime il suo pensiero?

"Mi riconosco in tutti i miei libri, come ci si riconosce in un paesaggio che non cambia mai. Ogni opera che ho scritto è stata un tentativo di svelare l’inevitabile, di affrontare il nulla con la forza della parola, di rendere visibile ciò che è invisibile. Se devo dirne uno, forse La morte del sole è quello che meglio esprime il mio pensiero. Non per vanità, ma perché affronta la realtà della fine, dell’assenza, senza alcuna consolazione. Quella fine che è anche il principio di tutto. Ma non c’è una risposta definitiva. Ogni libro è una parte di ciò che ho pensato, e ogni parte è una parte del tutto. Tutti sono necessari, eppure nessuno è mai definitivo."

Che rapporto ha avuto col filosofo Massimo Cacciari?

"Un rapporto di stima intellettuale, ma senza illusioni. Cacciari è un pensatore di valore, ma è stato sempre preso dall’inganno della politica e dalla ricerca di una soluzione che non esiste. Noi siamo fuori dalla storia, o meglio, la storia è fuori di noi. Con lui, ci siamo incontrati su alcuni punti, ma siamo rimasti distanti su tanti altri. La filosofia non è mai un campo di battaglia per trovare alleati, ma un luogo dove la verità viene affrontata in solitudine. Cacciari ha cercato risposte politiche, io ho preferito fermarmi nell’assurdo."

E se le intitolassero un istituto scolastico?

"Sarebbe una contraddizione grottesca. Dare il mio nome a un istituto scolastico significherebbe fraintendermi del tutto. Le scuole esistono per trasmettere illusioni rassicuranti, per insegnare a obbedire, per creare individui educati alla mediocrità. Io ho passato la vita a demolire certezze, non a costruirle. Intitolarmi una scuola sarebbe come dedicare una chiesa a Nietzsche: un magnifico scherzo."

Lei ha scritto oltre a canzoni anche poesie.

"Canzoni, Poesie? Ho scritto parole, e se qualcuno ha avuto l’ardire di chiamarle canzoni o poesie, è affar suo. La poesia è un esercizio inutile come ogni altra forma d’arte, ma almeno ha il pregio di non nascondere la sua inutilità. Non credo nei poeti ispirati, nei vati, nei sacerdoti della parola: credo in chi sa che la parola è solo un giocattolo rotto e continua comunque a usarlo."

Lei ha scritto le parole della canzone La cura, musicata da Battiato. Cosa l’ha ispirata? Com’è nata l’idea?

"Ispirata? Parola pericolosa. Diciamo che è nata come nascono tutte le cose: per caso e per necessità. Non credo all’ispirazione, credo alla combinazione di parole che generano un effetto. La cura è stata scambiata per una canzone d’amore, il che è già un fraintendimento. Io parlavo di protezione, di un’attenzione quasi metafisica verso l’altro, che non è detto sia un amante o un caro, potrebbe essere anche un’entità astratta, un’idea, persino se stessi. La gente ci ha visto quello che voleva vedere. Ed è giusto così. Ma se pensano che io abbia voluto scrivere una ‘poesia d’amore’, si sbagliano di grosso."

A chi è dedicata La cura? Chi è la protagonista?

"Domande inutili. Chi cerca un destinatario, una protagonista, vuole ridurre un testo a un episodio privato, a una storia personale. Io non scrivo per qualcuno, scrivo contro qualcosa: contro l’ovvio, contro la banalità dei sentimenti spiegati. La cura non è dedicata a nessuno perché non ha bisogno di esserlo. È il ritratto di una voce che si prende carico dell’altro, chiunque esso sia. Potrebbe essere una donna, un figlio, un’ombra, persino un sé stesso frammentato. O forse nessuno. Le parole non hanno padrone, una volta scritte appartengono a chi le legge e a nessun altro."

In quale sua canzone si riconosce?

"Riconoscersi in una canzone è un esercizio sentimentale che non mi appartiene. Io non ho scritto per specchiarmi, ma per demolire, per disfare il senso. Ma se proprio dovessi scegliere, direi L’ombra della luce. Lì c’è lo spazio per il nulla, per il silenzio che avanza, per quell’assenza che è l’unica cosa certa. Il resto sono solo note che passano, parole che si dissolvono. Come tutto."

Cosa direbbe oggi ai suoi concittadini lentinesi?

"Lentini è un luogo come tanti altri, intriso di storia e di polvere, ma che nel fondo non ha mai cambiato nulla. Oggi come ieri, viviamo nel tentativo di mascherare la realtà, di renderla sopportabile. Se vogliono ricordarmi, non fatelo con le solite cerimonie e parole vuote, ma pensate a ciò che ho scritto, a ciò che ho pensato. Le parole servono a sfuggire dalla condizione umana, ma la verità, se mai esiste, si nasconde dietro il silenzio. Ai miei concittadini direi: non vi illudete di avere un posto privilegiato nella storia. Siamo tutti dentro un flusso che non ha direzione. Meglio non credere nella memoria, ma nella riflessione."

Maestro Manlio Sgalambro cosa dice ai lettori della rivista online Girodivite le città invisibili e al suo direttore?

"Ah, GirodiVite, un nome che già sa di circolo vizioso, di un’ossessione che si rinnova. Mi affascina l’idea che si occupino delle città invisibili, perché tutto ciò che è invisibile ai più è terreno fertile per lo spirito filosofico. Eppure, invisibilità non significa inesistenza, ma piuttosto rifiuto di essere catalogati dalle categorie usuali del pensiero. Le vostre città, dunque, sono più reali di quanto vogliate ammettere. Quanto al direttore della rivista, sappia che ogni pubblicazione nasce già con il germe della sua fine. La vera sfida non è sfuggire a questo destino, ma rendere la decadenza un’arte, come si fa con un buon requiem. Solo così potrà vivere oltre la propria inevitabile dissoluzione. Quindi il mio invito è questo: costruite, ma senza aspettarvi di essere ricordati. L’effimero è la sola gloria che ci è concessa nel nostro tempo.”



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