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Mai più un’altra GORE’E

Galgan guirabì, galgan guirabì, allc sub tel, din’l dem Senegal». Inizia più o meno così una delle canzoni che ogni bambino senegalese impara nei primi anni di vita.

di giovanni d’agata - mercoledì 21 aprile 2010 - 3511 letture

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“Le compagnie commerciali europee che, per tre secoli, hanno effettuato la tratta degli schiavi, saccheggiando al passaggio il continente nero, hanno lasciato da qualche parte degli archivi. Bisogna trovarli”.

Galgan guirabì, galgan guirabì, allc sub tel, din’l dem Senegal». Inizia più o meno così una delle canzoni che ogni bambino senegalese impara nei primi anni di vita. Parla di una barca che si allontana dalla spiaggia e che un giorno, sicuramente, ritornerà al porto. ’imbarcazione, il «galgan», è la piragua, uno dei simboli della cultura di molti Paesi africani.

In quasi tutti i racconti popolari senegalesi, i protagonisti sono pescatori che escono al’alba e tornano al tramonto carichi di pesci. Eppure, la maggior parte delle navi che per secoli sono salpate dalle coste di questo Paese hanno intrapreso viaggi di sola andata. Di fronte alla penisola di Cap Vert, a pochi chilometri da quella che oggi è la dinamica e caotica capitale del Senegal, Dakar, si trova un’isola tristemente famosa in tutto il mondo. ’isola di Gorée è uno dei pochi luoghi in cui si conservano le tracce della più tragica diaspora della storia: la tratta transatlantica degli schiavi africani.

Tra il XVI e il XIX secolo, più di 20 milioni di persone sono state deportate verso il Nuovo Mondo dopo essere state violentemente sradicate dai loro villaggi. Migliaia di «small village» simili a quello da cui era partito il padre di Barack Obama e che il presidente degli Usa ha citato nel suo discorso di insediamento alla Casa Bianca, incendiando la gioia e la speranza della comunità afroamericana. Per quattro secoli le navi degli schiavisti europei hanno trasportato verso una nuova e sconosciuta terra gli antenati dei milioni di cittadini dalla pelle scura che popolano ’America e il Sudamerica.

Un viaggio totalmente spesato, certo non comodo, ma con la sicurezza del «posto di lavoro» al’arrivo. Una tratta feroce che il mondo fatica a ricordare. Varcare la soglia della Maison des Esclaves, che sorge nel bel mezzo del’Isola di Gorée, provoca una strana sensazione di impotenza e rispetto. Le guide turistiche locali offrono per pochi centesimi una lunga e sofferta spiegazione della tragedia che tra quelle pareti si è consumata fino a duecento anni fa. Nelle minuscole celle del piano terra, tra il 1776 e il 1807, sono state stipate centinaia di migliaia di schiavi.

Rimanevano rinchiusi anche per settimane prima di essere messi al’asta e venduti ai mercanti olandesi, portoghesi, inglesi o francesi. I trafficanti vivevano in abitazioni di lusso che ancora si possono apprezzare nei piani superiori della Maison. Sulle pareti delle stanze, decine di incisioni raccontano la vergogna e lo stupore dei visitatori europei e americani: «Solo un piano separava la vita sfrenata di pochi dalla miserabile sorte di molti, come potevano vivere felicemente quassù sapendo quel che succedeva sotto i loro piedi?», si chiede qualcuno, in inglese.

Nel cortile interno, dietro ’enorme bilancia in cui veniva pesata la merce si apre un breve tunnel. La porta che tutt’ora si schiude nella parte posteriore della Maison dà direttamente sul’Oceano Atlantico. È il punto più occidentale del continente africano, ’ultimo centimetro di suolo calpestato da chi salutava per sempre la terra natale per imbarcarsi verso la miseria o la morte: un’altissima percentuale degli schiavi infatti non arrivava a destinazione o moriva ancor prima di lasciare Gorée.

Secondo le ricostruzioni di alcuni storici, i depliant turistici del’isola ingannano sulle cifre. Non sarebbero milioni gli schiavi che sono partiti da questo imbarcadero, bensì solo alcune centinaia ’anno. Ciò nonostante, Gorée si è trasformata nel simbolo universale della barbarie. I più famosi musicisti senegalesi, tra i quali Youssou N’ Dour o i Gorée Drums, hanno dedicato canzoni commoventi a questi ventitrè ettari di terra, abitati oggi da poco più di mille persone che vendono ai turisti piatti di pesce, collanine e artigianato, insieme al dovere della memoria.

Molti capi di Governo, e lo stesso Papa Wojtyla, hanno realizzato visite ufficiali nel’isola negli ultimi decenni. Un predecessore di Obama, Bill Clinton, ha scelto proprio Gorée, nel 1998, per pronunciare uno dei suoi discorsi più emotivi e carichi di speranza, annunciando un prossimo «rinascimento africano» e promettendo al’America, al’Africa e al mondo intero ’inizio di una «nuova era». Le parole di Clinton sembrano oggi avere una straordinaria forza profetica. Ma a Gorée i bambini non hanno ancora smesso di intonare «Galgan guirabì», nel’attesa che il primo presidente afroamericano della storia degli Stati Uniti dimostri che quelle parole non erano vane e che le navi torneranno al porto cariche di pesci, un giorno, dopo la tempesta.


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