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Quei suicidi in carcere

Nel carcere di Marassi, a Genova, si è suicidato un giovane tunisino, Amir Dhouiou di 21 anni, si tratta dell’85 suicidio nel 2024. Si è impiccato. Nel carcere di Genova i posti disponibili sono 535, vi soggiornano 696 detenuti.

di Salvatore A. Bravo - sabato 7 dicembre 2024 - 398 letture

Suicidi

Nel carcere di Marassi, a Genova, si è suicidato un giovane tunisino, Amir Dhouiou di 21 anni, si tratta dell’85 suicidio nel 2024. Si è impiccato. Nel carcere di Genova i posti disponibili sono 535, vi soggiornano 696 detenuti.

Il numero dei suicidi in carcere nell’anno corrente è superiore a quello dell’anno precedente. I suicidi in carcere sono prevalentemente maschili e spesso sono giovani uomini, come le recenti indagini denunciano. Sono esistenze oscure che spesso compaiono nella cronaca come un lampo veloce che si perde nel chiacchiericcio dei media.

Sui suicidi in carcere cade la mannaia del “politicamente corretto”, sono uomini che hanno commesso reati, per cui, sembra, che le loro vite siano “esistenze di scarto”. Non hanno un volto, non hanno una storia, sono solo degli accidenti in una realtà socio-politica dominata dalla gerarchizzazione del dolore. La sofferenza di un uomo che ha commesso un reato, di cui non si conosce la storia, sembra evaporare come il senso di giustizia e di umanità che dovrebbe essere la struttura portante di una società democratica.

In una democrazia “le vite tutte” dovrebbero essere tutelate e sostenute, invece constatiamo l’indifferenza strumentale generalizzata. Talune sofferenze sono usate “dall’industria politica del sistema” per autolegittimarsi, in quanto il consenso è immediato e facilmente spendibile nelle campagne elettorali e, specialmente, serve alla struttura economica per consolidarsi. I giovani carcerati che si suicidano sono, invece, occultati, poiché essi denunciano la verità del sistema capitalistico.

I suicidi sono spesso persone di ambiente proletario, migranti e talvolta persone con fragilità psichica. Ad essi il sistema non offre nulla, poiché non sono veicolo di consenso. I loro solitari e disperati suicidi mostrano l’effetto dei tagli al sociale e delle condizioni fatiscenti delle carceri. Vivere ammassati significa essere solo un numero senza voce. Gli investimenti per il recupero sono praticamente nulli, in quanto puntare sulle spese sociali per giovani uomini che hanno commesso reato, si può ipotizzare, non troverebbe il consenso della popolazione. Quest’ultima negli ultimi decenni è stata addestrata al pensiero astratto e alla meritocrazia. I reati sono letti in modo semplicistico separando il reato e il colpevole dall’intero. La legge è infranta, perché il sistema non offre opportunità agli ultimi, li blandisce col mito della ricchezza facile per abbandonarli alla precarietà e allo sfruttamento.

Le istituzioni deputate al recupero (scuola, consultori, case di recupero e famiglia) sono vissute come un insostenibile onere per i conti pubblici. Gli effetti dei tagli e delle opportunità negate entrano nelle vite dei più fragili, i quali, non poche volte, dopo aver commesso un reato, si ritrovano disperatamente soli e senza prospettive.

Per i migranti il dolore è anche più cocente, poiché sono lontani dalla loro terra, sono persi in un mondo straniero ed estraneo che ha promesso e non ha mantenuto. Ogni suicidio in carcere ci racconta di una vita negata ed è lo specchio del darwinismo sociale in cui siamo caduti. I più deboli soccombono o escono dall’esperienza carceraria in condizioni psichiche peggiori. Il ciclo si autoalimenta e, naturalmente, è utilizzato dal sistema per giustificare il controllo del territorio e l’estensione dei medesimo.

Dinanzi ad ogni suicidio che si consuma nella patria di Beccaria dovremmo mettere in pratica un riorientamento gestaltico soffermandoci sul nome, sulla storia e sull’età del suicida. Non si tratta di vuota contemplazione del dolore, o di pietismo fine a se stesso, ma tali tragedie possono darci la motivazione per continuare a denunciare e ad operare, affinché vi sia il rispetto della Costituzione italiana, la quale afferma chiaramente che la punizione dev’essere rieducativa e non può mancare di umanità. L’articolo 27 lo rammentiamo afferma:

La responsabilità penale è personale.

L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.

Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato [cfr. art. 13 c. 4].

Non è ammessa la pena di morte”.

Siamo distanti da ogni umanità, pertanto spetta a noi il compito di riumanizzare le relazioni denunciando la violenza nelle sue forme polimorfiche. La condizione delle carceri rispecchia la verità del sistema neoliberale, che con il suo individualismo crematistico decreta “i salvati e i dannati”, solo in base al paradigma sociale del denaro. Coloro che non hanno mezzi economici con cui poter comprare formazione, salute e relazioni sono spesso destinati a cadere in un abisso anonimo di dolore. A tutto questo è necessario opporsi, per mostrare che siamo ancora semplicemente “umani”.


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