La corsa al riarmo tradisce i principi su cui è nata l’Europa / di Paolo Soldini
L’Unione europea non può diventare una NATO senza gli Stati Uniti. Non può in un duplice senso: intanto perché non è in grado di farlo, ma soprattutto perché cercando di farlo perderebbe l’anima, cioè la sua ragion d’essere...
L’Unione europea non può diventare una NATO senza gli Stati Uniti. Non può in un duplice senso: intanto perché non è in grado di farlo, ma soprattutto perché cercando di farlo perderebbe l’anima, cioè la sua ragion d’essere per come è radicata – nonostante tutte le sue debolezze, le sue contraddizioni, il suo inveterato vizio di deludere le aspettative e mortificare le aspirazioni – nella cultura politica e civile dei cittadini europei.
L’accelerazione imperialistica impressa da Donald Trump alla politica degli Stati Uniti ha messo in drammatica evidenza le ragioni del primo “perché”, il quale ora come ora si manifesta nel concretissimo problema del che fare nella guerra d’Ucraina dopo che gli americani si son messi a far l’amore con Putin, ma esiste da tempo, almeno dalla caduta del Muro di Berlino, e continuerà ad esistere se e finché continuerà ad esistere la NATO. Un problema reso evidente dal contrasto tra le due sponde dell’Atlantico che conosciamo bene, articolato intorno al balletto del cosiddetto burden sharing, ovvero il riequilibrio delle contribuzioni nazionali degli europei: il due, il due e mezzo, il tre o addirittura il 5% del Pil di ciascuno stato, come pretenderebbe oggi l’esoso mercante di Washington. Ma l’urgenza del che fare in Ucraina, il concitato e confusissimo dibattito sull’opportunità di mandare laggiù truppe europee, con quale legittimazione internazionale e con quali “garanzie di sicurezza” (ecco la parola magica con cui ci s’illude di far rientrare dalla finestra l’impegno diretto degli Stati Uniti che Trump, Vance, Musk e compagnia bella hanno fatto uscire brutalmente dalla porta), non deve nascondere la sostanza del secondo “perché”.
In difesa dello spirito del Manifesto di Ventotene
L’impostazione che la presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha dato alla discussione sulla “difesa europea” con la sua proposta “mista” di spese con finanziamento comune europeo e spese nazionali, e anche la sua quantificazione nella somma stratosferica di 800 miliardi da suddividere nei diversi bilanci in due anni, appare tale da rappresentare quella perdizione dell’anima europea cui, in modo un po’ retorico, accennavamo prima.
Diciamolo con parole semplici: la costruzione dell’Europa, dal manifesto di Ventotene in poi, è stata un esercizio non solo di democrazia ma anche (o dovremmo dire soprattutto?) di pace. La pace non vuol dire attitudine imbelle: mentre Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni e Ursula Hirschmann scrivevano quel manifesto, nei paesi occupati dai nazifascisti si combatteva con le armi in pugno. Ma quando, finita la guerra, il messaggio di Ventotene cominciò ad essere tradotto in politica e andarono formandosi le prime istituzioni europee, si affermò l’esigenza di costruire un sistema che, articolato all’inizio sul rapporto tra le due potenze continentali storicamente nemiche per antonomasia, la Francia e la Germania, e via via allargato ad altri paesi, rendesse la guerra in Europa non solo impensabile ma materialmente impossibile, secondo la saggia sintesi proposta allora da Robert Schuman. Senza entrare nel merito, fu proprio per soddisfare questa esigenza che si decise di mettere in proprietà comune nella CECA le risorse che in quel tempo erano indispensabili per fare la guerra: il carbone e l’acciaio. Questa consapevolezza della storia dovrebbe spogliare di ogni fastidio di pomposità retorica l’affermazione secondo la quale le istituzioni che si sono via via formate fino all’Unione alla guida dell’Europa hanno garantito una pace di ottant’anni che non si era mai vista prima sul continente. Un esempio di luogo comune che diventa tale proprio perché è profondamente vero.
La NATO è nata da esigenze diverse, anch’esse legittime ma diverse, da un ambito geografico e da un retroterra ideale differente pur se la ragione sociale, per così dire, era la stessa: la difesa della libertà dei popoli. La quale, come sappiamo, dalle strutture di comando civili e militari dell’alleanza atlantica non è stata perseguita sempre con coerenza e rispetto della democrazia, ma ha assolto il compito storico di preservare la libertà dell’Europa dai propositi aggressivi dell’Unione sovietica.
Quand’è che i due diversi piani hanno iniziato a confondersi? C’è chi ritiene che sia avvenuto quando, dopo la caduta dei regimi dell’est e lo scioglimento del Patto di Varsavia, gli americani imposero, vincendo le resistenze soprattutto tedesche, il mantenimento in vita della NATO che pure aveva perso la sua naturale controparte politico-militare. Molti pensano che i governanti statunitensi di allora furono indotti a questo passo dalla volontà di tenere in piedi l’unità di intenti politici tra le due sponde dell’Atlantico, dietro alla quale, a sua volta, c’era una forte diffidenza, soprattutto ma non solo economica, verso la competitività della Germania. Un fattore storico che si rafforzava pesantemente allora nella prospettiva della riunificazione tedesca.
Il grande errore di confondere l’Unione europea con la Nato
In ogni caso, la contemporanea presenza di due diversi piani istituzionali largamente coincidenti in Europa, anche se non del tutto, sotto il profilo geografico era già un possibile fattore di interferenza, soprattutto da parte della soggettività politica delle amministrazioni di Washington. Si arrivò al punto che un presidente americano, Bill Clinton, chiedesse al presidente della Commissione europea di condizionare l’ammissione dei paesi dell’est all’Unione appena costituita con il Trattato di Maastricht a una preventiva adesione alla NATO. Questo favorì da parte delle classi dirigenti dei paesi liberati dal disfacimento dell’impero sovietico un fraintendimento che avrebbe provocato non pochi problemi negli anni successivi: il fatto di considerare l’ingresso nella comunità degli europei non tanto l’adesione a un grande progetto politico finalizzato alla costruzione di un sistema federale, quanto una sorta di ingresso in un’area protetta contro il pericolo del Grande Vicino che li aveva soggiogati in passato e ancora era in grado di minacciarli. In questo senso, non aver chiarito allora questo aspetto rese l’allargamento ad est, giusto e assolutamente necessario nei confronti di paesi pienamente europei sotto tutti i profili, un processo ideologicamente monco e ambiguo.
Errore – sia detto en passant – che rischia di essere ripetuto con conseguenze anche più gravi con l’Ucraina, che in nessun modo dovrebbe essere indotta a pensare all’adesione all’Unione, da preparare con un processo necessariamente lungo e laborioso, come una garanzia di protezione nei confronti dei russi. La quale ci deve essere, ovviamente, ma su un altro piano.
L’impostazione del “deciso riarmo europeo” nel modo in cui, anche dal punto di vista lessicale, l’ha presentata la presidente della Commissione chiamando a discuterne i leader dell’Unione risente moltissimo della confusione dei piani. Cosa che stupisce fino a un certo punto chi conosce la storia politica di Ursula von der Leyen, per anni ministra della Difesa della Germania federale, molto legata agli americani e in passato propensa – così correva voce nel periodo in cui erano in forse le sue chance di essere rieletta al Berlaymont – a proporsi come candidata alla segreteria generale della NATO.
Una proposta della quale vanno valutati tutti gli aspetti, a cominciare da quello quantitativo. La cifra di 800 miliardi è talmente grande che non si può immaginare che venga raggiunta senza ridimensionare pesantemente i programmi sociali dell’Unione. Già ora, prima ancora che si cominci ad entrare nel merito, c’è chi si sente autorizzato ad anticipare che dovrà essere deviata sulle spese militari una buona parte dei fondi strutturali stanziati per la coesione, cioè per i programmi vòlti ad aiutare le aree meno fortunate dei paesi membri. Un ridimensionamento delle spese sociali che viene spacciato come “indispensabile” con l’argomento, concettualmente ricattatorio, che ospedali, scuole, posti di lavoro e quant’altro non esisterebbero nemmeno se gli europei non avessero le armi per difenderli da un’eventuale guerra che li distruggerebbe. Chi ragiona così non si lascia neppure sfiorare dal dubbio che i periodi di riarmo, come insegna la storia, hanno quasi sempre favorito la escalation reciproca dei campi avversi fino all’incidente che ha acceso la miccia.
Quante risorse saranno sottratte alle politiche sociali?
Anche il modo in cui, secondo il piano, dovrebbero esser reperite le risorse è molto discutibile e poggia su una evidente debolezza logica. Le parti che dovrebbero essere finanziate con risorse nazionali verrebbero stralciate dal Patto di Stabilità: grande concessione da parte di Ursula von der Leyen, in passato molto decisa ad assecondare i dirigenti dei cosiddetti paesi “frugali” che respingevano tale stralcio come tentazioni del demonio spendaccione all’italiana (infatti il maggiore sponsor di tale impostazione è l’italiano Crosetto). Ma è inevitabile chiedersi che cosa cambierebbe con lo stralcio a parte il fatto che il non computo verrebbe “perdonato” dalla Commissione e non provocherebbe procedure d’infrazione. Dal punto di vista dei bilanci nazionali, cioè dei soldi che i singoli stati hanno in cassa per le spese, le conseguenze sarebbero le stesse. Con lo stralcio o senza lo stralcio, i soldi che finirebbero in cannoni, aerei, bombe e droni sarebbero sempre quelli, tutti da togliere ad altre spese, cioè gli ospedali, le scuole, gli investimenti da proteggere, cosicché il paradigma presentato sopra si mangerebbe la coda.
La realtà è che impostata come lo fa la presidente della Commissione, e anche qualche governo che probabilmente l’appoggerà, la “difesa europea” proprio non esiste come tale. Si tratterebbe, come hanno fatto rilevare già molte voci critiche, tra le quali in Italia quella di Elly Schlein, di un coacervo di difese nazionali gonfiate oltre il minimo sopportabile a spese di altre risorse destinate al benessere dei cittadini.
Sarebbe l’ora di cominciare a fare quello che i responsabili delle politiche europee da quando è scoppiata la guerra non hanno fatto. Agire sul piano della politica. Chiarire quale sia l’obiettivo strategico dell’intervento europeo perché adesso non è affatto chiaro. Porsi il problema dei rapporti con la Russia, che è anch’essa un pezzo di Europa e continuerà ad esistere anche quando la dittatura di Vladimir Putin – speriamo presto – non ci sarà più. Pensare a un sistema di sicurezza collettivo per il continente come quello che fu costruito negli anni ’70 e che, oltre a scongiurare la guerra, pose le premesse perché si affermassero all’est i movimenti di riforma per la libertà e la democrazia. E intanto, per cominciare, smettere di confondere l’Unione europea con la NATO e spiegare la differenza anche a Donald Trump.
L’articolo di Paolo Soldini è stato pubblicato il 5 marzo 2025 su Striscia Rossa.
- Ci sono 0 contributi al forum. - Policy sui Forum -