Il Manifesto di Ventotene è una ca***a pazzesca / di Alessio Mannino

Una delle più grandi sòle gonfiate, cucinate e rifilate da quella pseudo-Europa che è l’Ue di Bruxelles è lo scritto “Per un’Europa libera e unita”, alias il Manifesto di Ventotene...

di Redazione - domenica 23 marzo 2025 - 690 letture

Una delle più grandi sòle gonfiate, cucinate e rifilate da quella pseudo-Europa che è l’Ue di Bruxelles è lo scritto “Per un’Europa libera e unita”, alias il Manifesto di Ventotene. Praticamente ignorato fino agli anni ’80, quando coincidenza volle che l’egemonia neo-liberale ne facilitasse il recupero in funzione legittimante a favore dell’unione monetaria e finanziaria, il testo che Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni redassero nel 1941, al confino sull’isola del Tirreno, rappresenta un esempio da manuale di mito di copertura. Proprio così: un paravento a scopo ideologico, che serve ad attribuire una veste nobile alla realtà, molto meno nobile, del disegno “europeista”, di matrice ordoliberista tedesca, con il decisivo avallo dell’atlantismo americano. Per forza è stato innalzato a riferimento fondativo e citato a ogni piè sospinto, e oggi viene rilanciato in gran pompa distribuendolo come dépliant con il giornale Repubblica nell’adunata di Michele Serra: perché è il prodotto intellettuale più adatto per alzare la cortina fumogena che dura da più di quarant’anni.

Prima di tutto, si presta a essere avvolto in un’aura mitizzante. Spinelli, Rossi e Colorni erano segregati dal regime di Mussolini in quanto antifascisti, e l’antifascismo torna sempre buono in quanto parola magica, abbracadabra che disattiva i cervelli per far palpitare il cuore della Resistenza. Che poi l’antifascismo retorico occulti alla vista l’impianto di fondo, solidamente centrato sugli interessi dei Paesi più forti (Germania mercantilista in testa) e orientato dogmaticamente a demolire i diritti sociali, beh, questo, prima che un’abile strumentalizzazione degli stregoni Ue è un problema, anzitutto mentale, degli antifascisti da maniera.

Gli antifascisti con gli occhi foderati di würstel. Addirittura c’è anche un risvolto leggendario, secondo il quale il manoscritto originale sarebbe stato materialmente vergato in cartine di sigarette, fatte passare clandestinamente dentro un pollo arrosto dalla moglie di Colorni (che di nome faceva, per uno strano scherzo della storia, Ursula, di cognome Hirschmann). Naturalmente non è vero niente: nelle sue memorie, Spinelli racconta che era facile fregare i controlli: la Hirschmann, solitamente, chiusa dalla polizia fascista in una stanza assieme alla inserviente che doveva perquisirla, sganciava una lauta mancia e il gioco era fatto.

Il secondo, e più pregnante motivo sta, tuttavia, nel contenuto del “manifesto”. In sintesi, la tesi centrale è riassumibile così: per rifondare un ordine continentale che assicuri la pace, va rimossa alla radice la causa delle guerre, che i tre autori individuano nella “linea di divisione fra i partiti progressisti e i partiti reazionari”. Noi diremmo oggi: fra la Sinistra e la Destra. Tale contrapposizione, scrivono, deve cadere, per far sì che le “forze popolari” concentrino le energie nella “creazione di uno solido Stato internazionale”. In altri termini, la nuova dicotomia era immaginata tra internazionalisti da un lato e nazionalisti dall’altro. Una semplificazione che stravolgeva non solo il precedente secolo e mezzo di lotta dei lavoratori contro il padronato, ma soprattutto due dati di realtà: primo, il fatto che il vocabolo “internazionalismo”, in loro, si traduceva, come ben sottolineò Lelio Basso nel 1949, in “cosmopolitismo”, “maschera idealista” del “grande capitale americano” (ovvero: essere cittadini del mondo, in concreto, voleva dire aderire a un mondo globalizzato, a quella “libera circolazione delle merci” che era il cavallo di Troia del dominio statunitense); secondo, venivano messi in un solo calderone tutti coloro, comunisti, socialisti, cattolici, che consideravano lo Stato nazionale la cornice realistica per una politica che, pur rigettando il nazionalismo fascista, mirasse a rendere l’Italia un Paese sviluppato e prospero. In pratica, ancora in pieno fascismo, si assimilavano di fatto gli antifascisti che non erano federalisti, cioè la quasi totalità, ai fascisti.

Gli eurofederalisti erano infatti un’ininfluente minoranza. Il loro pensiero aveva affinità e ascendenze in quello liberale. Fu Luigi Einaudi, il teorico italiano del liberalismo “integrale”, economico e politico (detto anche liberismo, distinto da quello “etico” di Benedetto Croce) a usare forse per la prima volta, anticipando di vent’anni Winston Churchill, l’espressione “Stati Uniti d’Europa”. Lo fece in un articolo del 1918 sull’istituenda Società delle Nazioni, intitolato significativamente “il dogma della sovranità”. Vi sosteneva la necessità di costruire una “federazione degli Stati europei” come tappa prodromica a quella mondiale, sulla scia del progetto di “pace perpetua” di Kant. La “sovranità” statuale è “malefica”, scriveva. Di più: se concepita come “assoluta e perfetta”, è “massimamente malefica”. In sé e per sé, a prescindere da chi la governasse.

Tale concezione corrisponde pantograficamente all’ossessione di Spinelli&C: lo Stato sovrano come fonte del male. I liberali sognavano una società con meno Stato possibile: idem i federalisti europei. Perché lo Stato non può non essere nazionale. Se non lo è e si allarga, diventando multinazionale (come fu l’Austria-Ungheria), cambia forma e diviene qualcos’altro: diventa impero. E un impero, com’è noto, non segue più la logica di autodeterminazione dei popoli, ma quella contraria: quella imperiale, di espansione e sottomissione dei popoli. L’Unione Europea attuale si trova in questo limbo: non è né Stato, né impero. È un’alleanza di nazioni che hanno ceduto sovranità nel nevralgico campo della finanza pubblica, attraverso la moneta unica.

Fatto sta che i Ventotene boys non si dichiaravano liberali, al contrario: la futura “rivoluzione europea” avrebbe dovuto essere, testualmente, “socialista” (sic). Un socialismo, il loro, un po’ vago. Lo descrivevano come un sistema in cui le “forze economiche” non avrebbero più dominato “gli uomini”, e nel quale “nazionalizzazioni su scala vastissima” avrebbero redistribuito “in senso egualitario” le ricchezze di “pochi privilegiati”. A parte l’ironia di usare la parola “nazionalizzazioni” per chi voleva le nazioni voleva abolirle, è interessante evidenziare che la redistribuzione, effettivamente rispondente a una spinta socialista, era tecnicamente affidata all’ampliamento della proprietà. In buona sostanza, si pensava a un’economia di piccoli e medi proprietari (un po’ come nel distributismo), con la precisa finalità di mandare una volta per tutte in soffitta il conflitto fra capitale e lavoro.

Eccolo, il centro oscuro del Manifesto di Ventotene: la neutralizzazione della conflittualità sociale. Il sogno bagnato di ogni liberale (o del socialdemocratico da compagnia, che scodinzola dietro il capitalismo ammantato di buone intenzioni). Tanto che, sempre a opinione di Spinelli e soci, l’assemblea costituente avrebbe dato risultati “scadenti”, se il “popolo” fosse stato ancora “immaturo”, ossia impastoiato nello scontro di classe. La preoccupazione degli europeisti ante litteram era la pacificazione, una laboriosa bonaccia da materializzare grazie al “mercato unico”. Formula, quest’ultima, contenuta nel successivo “Manifesto dei federalisti europei”, di pugno del solo Spinelli, in cui non casualmente cadeva ogni accenno alla non meglio definita “rivoluzione socialista”. Spinelli, diciamolo, sarà stato una gran testa, ma era una testa confusa: era liberoscambista e keynesiano, per la programmazione economica e per il libero mercato di capitali, era stato espulso nel 1937 dal Partito Comunista e vi si riavvicinò molto tempo dopo, nel 1978 (eletto come indipendente nelle sue liste nelle prime elezioni del parlamento europeo, nel ’79 e poi ancora nell’’84), curiosamente teorizzando meno spesa pubblica, meno spesa sociale, contenimento dei salari e un improbabile e ultra-statalista “servizio obbligatorio di lavoro” per i giovani. Ora, d’accordo che sul finire dei Settanta il Pci di Enrico Berlinguer era posizionato sulla solidarietà nazionale, l’austerità e l’accettazione dell’ombrello atlantico, ma Spinelli sembra farlo apposta, a non far capire cosa diavolo volesse. Forse perché non lo aveva chiaro neanche lui.

Di sicuro, il suo eclettismo non risultò granché apprezzato. Negli anni ’80 venne incaricato di redigere una bozza di rielaborazione dei Trattati istitutivi di quella che, ai tempi, si chiamava ancora Comunità Economica Europea. Ne uscì un “Progetto Spinelli” che, ça va sans dire, aveva il suo caposaldo, in mezzo a una serie di rassicuranti concessioni al sociale, nella solita, scontata e obbligata libera circolazione di merci e capitali. Risultato: lettera morta. Per lui, ovviamente. Perché poi il mercato unico si estremizzò, come sappiamo, con l’euro e l’imposizione del rigorismo teutonico, scolpiti nella pietra dei Trattati di Maastricht e Lisbona. E fu così che vinse l’aggressione in piena regola del capitale ai danni del lavoro, eretta a legge sacra dell’Europa. Certo, non di un’Europa federale, spinelliana. Ma il federalismo neo-kantiano, da anime belle, è sempre stato ciò che dicevamo all’inizio: la caramella al cui interno, fra le righe e nemmeno tanto fra le righe, si nascondeva il veleno del Manifesto di Ventotene. Il sopravvalutatissimo, e per nulla innocente, Manifesto di Ventotene.


L’articolo di Alessio Mannino è stato pubblicato il 15 marzo 2025 da La Fionda.



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