Intervento del presidente di Un ponte per
L’intervento di Fabio Alberti, presidente di Un ponte per, al congresso nazionale dell’Arci (Roma, 8 Ottobre 2004). E’ l’occasione per ripercorrere la tappe del rapimento di Raad, Manhaz, Simona e Simona, fornire una chiave di lettura della liberazione...
Cari amici, care amiche, grazie.
Grazie per esserci stati vicino, davvero molto vicino, nei giorni terribili che abbiamo appena trascorso. Grazie per la mobilitazione, per le fiaccolate, per gli appelli, per le telefonate, per gli sms per le e-mail.
Grazie per aver compreso senza discutere alcune cautele che abbiamo chiesto al movimento. Davvero, insieme al meraviglioso mondo delle bandiere arcobaleno ci avete permesso di sostenere il peso della responsabilità che ci è piovuto addosso il 7 di settembre. Avete contribuito, in modo determinante, a far si che tutti, in Italia facessero il loro dovere.
Grazie per l’onore che ci fate ad intervenire a questo vostro congresso. Al congresso dell’Arci, una associazione che Tom, il lampadiere, insieme a tutti voi, ci ha fatto considerare anche nostra, insostituibile per il ruolo di perno che ha svolto nel movimento dei movimenti, essenziale per favorire l’affermarsi, in Italia, della autonomia politica della società civile. Tom è stato maestro di tanti e se lo permettete, un po’ anche nostro. All’Arci tutta e a Paolo, suo nuovo presidente, che ne raccoglie il cammino, vanno i nostri più calorosi auguri. Continuate ad esserci vicino, ne abbiamo bisogno.
Abbiamo descritto la storia del rapimento e della liberazione di Raad, Manhaz, Simona e Simona come una metafora della guerra e della pace. Lo abbiamo fatto innanzi tutto per non rischiare di guardare il dito invece che la luna. Per non perdere di vista il contesto. Il contesto non giustifica, ma spiega. Il contesto è un contesto di guerra, in cui atti di barbarie, ed il rapimento è un atto di barbarie, diventano normali. Per quanto dolore provassimo per i nostri cari non abbiamo mai scordato - e abbiamo chiesto di non scordare mai - che loro erano solo quattro di molti milioni di ostaggi. Ostaggi sono gli altri occidentali e gli iracheni rapiti, ostaggi sono le persone incarcerate da mesi senza accuse specifiche, ostaggi sono i bambini che non possono andare a scuola, ostaggi sono i giovani che non possono arruolarsi nella polizia, ostaggi sono i civili nelle città assediate e bombardate dall’alto. Oggi un raid aereo su Falluja ha colpito una festa di nozze. 11 morti e 17 feriti. Ostaggio è l’intera popolazione irachena. Oggi Kennet Bigley è stato barbaramente trucidato. Nella situazione irachena non abbiamo il monopolio del dolore. E le immagini di decapitazioni si alternano nella nostra mente a quelle di Abu Ghraib. Barbarie contro barbarie.
Abbiamo letto decine di ricostruzioni sui motivi del rapimento e della liberazione. A noi sembra invece una storia semplice.
Raad, Mahnaz, Simona e Simona sono stati rapiti perché c’è la guerra e perché vi sono gruppi che considerano tutti gli occidentali, e tutti gli italiani in particolare, parte dell’occupazione del paese. Potrebbero esserci state cause scatenanti, ne abbiamo lette sui giornali alcune decisamente fantasiose. Potremmo fornirvi decine di altre ipotesi. Cercheremo anche noi di comprendere meglio, ma non cambierebbe il giudizio di fondo.
Raad, Mahnaz, Simona e Simona sono stati liberati perché la condanna del rapimento, la richiesta di rilascio e la pressione politica sul gruppo di rapitori è stata fortissima e generalizzata. Il gruppo che ha operato il sequestro è un gruppo politico religioso armato iracheno. Terroristi? Resistenti? Non sappiamo. Quello che sappiamo è che è stato sensibile alle pressione politiche del mondo arabo-islamico.
Per questo abbiamo ringraziato innanzi tutto il mondo arabo e islamico attirandoci le ire di chi confondendo la parte per il tutto considera l’ attuale guerra una battaglia di civiltà. Il mondo arabo islamico è stato il principale protagonista della liberazione, che piaccia o no. Poi ci sono stati molti altri attori. Tutti, veramente tutti, e ne abbiamo dato atto, in Italia, hanno fatto la loro parte. Certo potevamo essere in mano di qualche oscuro disegno politico o di una banda di criminali, sarebbe andata diversamente, ma così non è stato.
Questa è la verità semplice che conosciamo, il resto sono dettagli che ci interessa approfondire, e lo faremo, ma che se messi in primo piano ci fanno perdere lucidità e visione realistica della situazione.
Per questo la liberazione di Raad, Manhaz, Simona e Simona è una metafora della pace possibile.
Essa è stata ottenuta con il concorso di tanti utilizzando il metodo del dialogo e della collaborazione. E’ stata evitata ogni azione che potesse nuocere agli ostaggi, per una volta la vita è stata messa al primo posto. E’ stato cercato un rapporto negoziale. Si è cercata la collaborazione degli iracheni. Gruppi di resistenza compresi.
E’ stato detto, con scandalo, che vogliamo sostenere la resistenza. Certo sosteniamo la resistenza pacifica e nonviolenta all’occupazione, ma riconosciamo anche l’esistenza e la legittimità di una resistenza armata. Riconoscere la esistenza e la legittimità di forme di resistenza anche armata all’occupazione è una necessità politica. Senza questo passo non sarà possibile né avviare quel processo politico unitario interno alla società irachena che può portare alla pace, né isolare il terrorismo. Ha fatto bene ad esempio la Francia a chiedere che rappresentanze della resistenza armata siano invitate alla conferenza internazionale. Senza questo passo le elezioni previste in gennaio preluderanno alla guerra civile.
Ma riconoscere l’esistenza e la legittimità della resistenza armata non significa né condividerne i mezzi - gli attacchi ai civili sono crimini di guerra sia che vengano fatti dai bombardieri che dalle autobomba - né condividerne la scelta politica. La volontà di recupero della pace e della sovranità è talmente forte e diffusa in Iraq, in tutte le comunità, che è possibile e desiderabile una via pacifica, fatta di mobilitazione di massa e di disubbidienza civile. L’azione nonviolenta con cui si è messo fine all’assedio della moschea di Ali a Najaf e si è negoziato un accordo tra l’esercito di Al Mahdi e il Governo Transitorio crediamo lo dimostri.
Ma c’è un’altra parte dell’Iraq a cui va dato riconoscimento di legittimità e rappresentatività. E’ la società civile, è quella parte di società che non si fida del Governo Transitorio perché nominato dagli occupanti e non vuole imbracciare le armi perché questo prelude a nuovi intollerabili lutti per la popolazione. E’ probabilmente la parte maggioritaria della popolazione che chiede pace e sovranità. E’ compito nostro sostenere questa che crediamo sia la risorsa più importante per il futuro dell’Iraq e che oggi è schiacciata, quasi annichilita, dal fragore delle armi.
Ci si scandalizza anche per la richiesta di ritiro delle truppe, quando è chiaro a tutti che la presenza militare è oggi una parte del problema e non la soluzione. In termini semplici: dopo Abu Grahib, dopo l’assedio e il bombardamento delle città, l’esercito degli Stati Uniti e i loro alleati non sono credibili per nessuno in Iraq come portatori di pace e democrazia, se mai lo sono stati. Non c’è nulla da fare, anche se lo volessero non potrebbero. Certo ritirare le truppe non basta, lo abbiamo detto fino alla noia, occorre favorire e sostenere un processo politico unitario all’interno del paese, occorrono investimenti consistenti per la ripresa dell’economia e la ricostruzione, occorre il concorso di tutti i paesi dell’area, ma se non si comincia a ritirare gli eserciti non si potrà far nulla di tutto questo e si condannerà la popolazione ad un futuro di violenza.
E queste cose forse non bastano nemmeno. La pace in Iraq, come in Palestina, come in Medio Oriente necessita di nuove idee. Pensiamo che per scongiurare quello che chiamano lo scontro di civiltà e conquistare la pace in Medio Oriente, per noi e per loro, ci sia bisogno di una nuova capacità di analisi e di un nuovo ambizioso progetto politico culturale a cavallo tra l’Europa e il mondo arabo. Il fondamentalismo si è sviluppato, anche con il sostegno iniziale dei paesi occidentali, sulla crisi o la sconfitta delle forze laiche che hanno guidato il processo di decolonizzazione e come reazione a governi dispotici e corrotti, filo-occidentali o meno, in gran parte dei paesi dell’area. Per battere il terrorismo, ancora oggi c’è stato un terribile attentato in Egitto, occorre che emerga una alternativa democratica, indipendente e credibile al fondamentalismo e ai governi cosiddetti arabi moderati. E perché sia credibile occorre che questa alternativa abbia basi solide non solo nel mondo arabo, ma nella società civile mondiale e in Europa. Un progetto politico culturale per la pace in medio oriente è un progetto che deve legare la parte migliore della società europea con la parte migliore della società araba e mondiale. Noi possiamo e dobbiamo contribuire a realizzarlo lavorando all’incontro e allo sviluppo di strategie comuni delle società civili europee e mediorientali.
Ma sono necessarie alcune condizioni politiche. Una è la rinuncia definitiva al controllo del prezzo dell’energia, l’altra è la rinuncia all’idea di universalismo dello stile di vita e dei modelli istituzionali occidentali. Crediamo che il movimento se è per la pace e non solo contro la guerra ha molto da lavorare in questo senso e ne ha la possibilità. Abbiamo vissuto in questi ultimi anni una esperienza unica di lavoro comune ove contenuti, unità ed autonomia ci hanno permesso di affermare la società civile come attore politico in Italia. Le nostre idee hanno fatto molta strada dentro la società italiana dobbiamo continuare così.
Ritorneremo in pazza tutti insieme il 30 ottobre, contro lo scontro di civiltà, contro il razzismo, per la pace, i diritti di tutti, per una nuova politica estera. Sarà una nuova occasione per dire che continuiamo a esserci e a essere una speranza per il futuro.
Se permettete vorrei infine utilizzare questa occasione anche per togliermi qualche sassolino dalla scarpa. In questi giorni, come sapete, è in corso una campagna di denigrazione della nostra associazione e delle nostre operatrici. Pensiamo che questo riguardi tutto il movimento per la pace. Non parlo di Libero, la mazzetta di giornali è già nella mani degli avvocati. Parlo di un’opera più sottile tesa a mettere in dubbio le basi morali di chi fa solidarietà.
No. Gli operatori di Un ponte per all’estero non guadagnano 7/8000 euro come qualche giornale ha scritto. Gli operatori di Un ponte per all’estero guadagnano 1200 euro, in Iraq hanno una indennità aggiuntiva di disagio di 300 euro e si pagano il pranzo.
No. Un ponte per non ha finanziamenti occulti. Il nostro bilancio è formato per un terzo dal vostro sostegno, dalle sottoscrizioni di privati, per un terzo da contributi di enti locali italiani e per un terzo da contributi delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea. Il nostro bilancio è certificato a disposizione di tutti.
No. Non abbandoneremo l’Iraq. In questa vicenda abbiamo contratto un debito di riconoscenza verso la popolazione irachena. Ma non manderemo nemmeno gente allo sbaraglio a rischiare la vita in una situazione ove la percezione del confine tra umanitario e militare è stata ormai cancellata. Non abbiamo mai amato gli eroi. La situazione ci obbliga a ripensare le modalità del nostro lavoro. Ne stiamo discutendo, e vorremo che questa discussione, che riguarda tutti, la facessimo insieme. Sappiamo che abbiamo una responsabilità in questo senso nei confronti di tutto il movimento.
Sì. Per l’ufficio di Un ponte per a Baghdad sono passati tutti, è passato Baldoni, come Gareeb e la Castellani. Dall’Ufficio di Un ponte per a Baghdad sono passati l’Ics, Intersos, Terres des Homme, la Cgil, Beati costruttori di pace, Pax Christi, la Fiom, la Uisp e molte altre organizzazioni. E’ passata la delegazione di parlamentari contro la guerra. Nei 12 anni di nostra attività in Iraq sono passati sul Ponte artisti, atleti, professori universitari, giornalisti, parlamentari, assessori comunali, pacifisti nonviolenti, militanti antimperialisti, turisti, archeologi. Sono passati nei due sensi, dall’Italia all’Iraq, dall’Iraq all’Italia. Molti di questi hanno stretto legami di conoscenza che hanno poi avuto uno sviluppo autonomo. Ne siamo felici. E’ questa la mission principale della nostra associazione che padre Balducci ha voluto definire "un ponte sul baratro scavato dalla guerra".
Siamo stati e vogliamo continuare ad essere strumento di incontro. Non incontro tra culture o tra civiltà, non abbiamo questa ambizione, semplicemente incontro tra persone di culture diverse, convinti che il conoscersi è il solo vero antidoto al razzismo e alla guerra.
Vogliamo continuare a farlo. Nei prossimi mesi non potendo più portare gente in Iraq, insieme a voi dell’Arci e ad altre associazioni faremo il contrario: porteremo gli iracheni in Italia. Esponenti della società civile, delle associazioni femminili, dei diritti umani, degli studenti, dei disabili, dei sindacati, personalità religiose attraverseranno questo ponte per incontrare la società civile italiana. Teniamo molto a questo progetto lo consideriamo parte di quel progetto politico-culturale per la pace in medio oriente di cui riteniamo ci sia assoluto bisogno.
Vorrei finire con una citazione. Alle volte litighiamo tra di noi perché abbiamo una visione diversa delle cose. Alcuni vedono il bicchiere mezzo pieno, altri mezzo vuoto. Ebbene qualcuno ci ha detto che "il problema non è come vediamo il bicchiere, il problema è riempirlo". La frase è di Raad Abdul Aziz, operatore di pace rapito a Baghdad il 7 settembre 2004 e liberato il 28 settembre.
Questa è anche la nostra e crediamo la vostra filosofia. Grazie e ancora auguri.
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