Discussione
I risultati illustrati nei paragrafi precedenti, ottenuti con un approccio multi-analitico, fanno luce in modo sistematico sull’intero "processo produttivo" che ha portato alla realizzazione del complesso decorativo della Grotta del Crocifisso. In prima battuta, si può affermare che per quanto riguarda i criteri di selezione delle materie prime, le procedure e le modalità di realizzazione degli intonaci di supporto e delle pellicole pittoriche, le maestranze si sono adattate a ciò che era disponibile in loco riducendo notevolmente i costi di produzione, ma dimostrando comunque buone capacità tecniche.
L’affioramento di calcarenite in cui è stato scavato il sito ipogeo (probabilmente in una preesistente cava di pietra sotterranea) mostra una caratteristica unicità, costituita da una componente detritica di natura vulcanica che riflette l’evoluzione geologica del territorio ibleo nel Plio-Pleistocene. La distribuzione delle dimensioni dei pori è caratterizzata da un andamento quasi bimodale, che rende questa arenaria calcarea un "substrato ideale" per uno strato di intonaco con funzione di arriccio. Infatti, la risalita capillare dell’acqua dal sottosuolo non poteva essere eccessivamente ostacolata da eventuali superfici di discontinuità tra il materiale lapideo naturale (calcarenite) e quello artificiale (intonaco). Di conseguenza, la precipitazione di sali solubili sulla superficie esterna sotto forma di efflorescenze (facilmente rimovibili) verrebbe rafforzata e, nel contempo, il rischio di formazione di pericolose sub-efflorescenze sarebbe relativamente ridotto (Randazzo et al. 2020).
L’intonaco utilizzato per preparare la parete da affrescare è stato formulato in modo consapevole e ottimale, in base alle risorse disponibili. Lo strato aderente alla pietra naturale (arriccio) è tecnicamente classificabile come "malta idraulica artificiale", ottenuta miscelando un aggregato costituito da prodotti vulcanici locali altamente reattivi (lave sottomarine e ialoclastite) e una calce aerea. Il legante, ottenuto attraverso la "reazione pozzolanica" tra calce e litoclasti vulcanici vetrosi in presenza di acqua, è stato applicato a un contesto sotterraneo particolarmente umido come quello studiato. La presenza del cocciopesto rafforza le caratteristiche idrauliche dell’arriccio rosato.
Lo strato di tonachino è stato realizzato in modo diverso, mescolando sabbie calcaree locali con un legante a base di calce aerea. In questo modo, grazie alla completa carbonatazione, i pigmenti sono stati fissati in modo più efficace. Queste scelte tecnologiche, nel complesso, ci permettono di dedurre un certo controllo nell’uso ottimale delle materie prime disponibili localmente.
Nonostante la selezione di materie prime ottimali e un sapiente uso delle conoscenze tecnologiche, il microclima estremamente aggressivo ha inevitabilmente portato la pittura murale a deteriorarsi nel corso dei secoli. Infatti, come si è potuto apprezzare dalle misurazioni termoigrometriche, mentre le temperature medie interne rientravano nell’intervallo ottimale 10-24 °C, considerato ideale per un’adeguata conservazione di dipinti murali e affreschi, e i valori di umidità relativa erano sempre superiori alla soglia del 55-65% (secondo la norma UNI 10829: 1999). Di conseguenza, dal calcolo del punto di rugiada si potevano ottenere valori pericolosamente vicini alle condizioni di condensazione, sia per i periodi invernali che per quelli estivi. Nel complesso, questi andamenti contribuiscono alla comprensione delle forme di degrado rilevate nella Grotta del Crocifisso, che hanno delineato l’urgenza di pianificare adeguati interventi di restauro. di pianificare adeguati interventi di restauro.
Tra i prodotti di alterazione e degradazione identificati, predominano i solfati, in particolare il gesso e la singenite. La precipitazione autentica di gesso su pietra carbonatica è dovuta alla reazione chimica tra solfato (SO4 2-) e calcite (CaCO3), con varie possibili origini dell’anione solfato da fonti antropiche, aerosol marini e anche da emissioni vulcaniche, dato che il vulcano Etna dista solo circa 50 km da Lentini (Aroskay et al. 2021 e riferimenti).
D’altra parte, la singenite si origina su substrato calcareo attraverso la mobilitazione idrolitica di metalli alcalini dal vetro vulcanico in presenza di soluzioni percolanti arricchite in anioni solfato.
Questo meccanismo è già stato osservato nelle "croste nere" sviluppatesi sugli edifici monumentali del centro storico di Catania (Alaimo et al. 1995). Per quanto riguarda le efflorescenze saline, la presenza di salnitro può essere interpretata come direttamente correlata alle attività antropiche. Infatti, la Grotta del Crocifisso è stata a lungo utilizzata anche come luogo di sepoltura dai frati cappuccini che nel XVI e XVII secolo vivevano nel vicino convento.
Inoltre, l’adiacente Grotta di Santa Lucia fu utilizzata come nitreria, come diverse altre località della Calabria e della Sicilia, nel corso del XVIII secolo, per produrre i nitrati necessari alla fabbricazione della polvere da sparo (Fasano 1787).
L’approccio multi-analitico (p-XRF, microscopia ottica, SEM-EDS) ha rivelato la presenza di ocre nei pigmenti rossi, gialli, marroni e verdi. Questi geomateriali inorganici sono facilmente reperibili nel territorio limitrofo alla Grotta del Crocifisso. Infatti, le fibre di ferro sono abbastanza comuni nella regione iblea e si sono originate dall’ossidazione atmosferica dei prodotti vulcanici sottomarini del Quaternario (Grasso et al. 1987; Carbone 2011). Nello stesso territorio, le ocre possono essere presenti anche nei depositi residuali derivanti dalla dissoluzione delle rocce carbonatiche esposte. In questo caso, le ocre rosse e gialle sono state applicate per lo più con la tecnica dell’"affresco" (cioè i colori sono stati stesi su intonaco non ancora asciutto), in accordo con le indagini autoptiche effettuate dai restauratori e le osservazioni al microscopio a luce riflessa.
Alcuni pigmenti sono stati applicati anche con la tecnica del "mezzo affresco", in particolare quelli più scuri, utilizzati per enfatizzare i contorni e le pieghe degli abiti. Questa affermazione è indirettamente corroborata dal degrado relativamente più forte osservato in queste parti specifiche delle rappresentazioni pittoriche, poiché il pigmento non era perfettamente incorporato nel legante.
È noto dalla letteratura passata che una pittura murale realizzata interamente con la tecnica dell’affresco è piuttosto rara e che i pittori sperimentavano e applicavano i colori anche quando l’intonaco era completamente asciutto (Casadio et al. 2004). Inoltre, i pittori del Medioevo applicavano i colori ricercando requisiti quali luminosità, intensità e saturazione, senza sfumature e mezzetinte, per far emergere la forza espressiva della figura e il suo significato della figura e il suo significato simbolico. In questo caso, la tavolozza dei colori rispecchia questi criteri, essendo composta da ocre gialle, brune, rosse e verdi, ocre rosse e verdi, oltre a un pigmento blu organico, mescolato con il bianco di San Giovanni (chiamato anche "bianco di calce").
Il pigmento blu è stato utilizzato in diversi dipinti della Grotta del Crocifisso. Fin dal Medioevo, il colore blu è stato utilizzato per simboleggiare la spiritualità e la trascendenza, essendo generalmente realizzato con la tintura ottenuta dal lapislazzuli (o dall’azzurrite) se le risorse economiche lo consentivano. Tuttavia, i nostri dati sperimentali hanno dimostrato che il pigmento blu utilizzato sul manto della Madonna e su altre figure studiate ha una natura organica. Infatti, le analisi p-XRF e SEM-EDS non hanno evidenziato la presenza di metalli cromofori e, al contrario, hanno mostrato la predominanza del carbonio (Fig. 8E).
Così, principalmente attraverso la spettrometria Raman, è stato possibile identificare il guado, un pigmento estratto dalla pianta Isatis tinctoria. Quest’ultima è una pianta erbacea biennale della famiglia delle Brassicaceae, con un’altezza che varia da 40 a 120 cm. È una pianta infestante le cui foglie fresche contengono i precursori del pigmento indaco, ottenuti attraverso un sistema di macerazione prima di essere essiccati e polverizzati (Guarino et al. 2000). Il rovo era noto anche ai Romani ed era ampiamente utilizzato in tutta Europa e nell’Italia centro-meridionale principalmente come colorante per tessuti e, solo secondariamente, come pigmento per le belle arti.
L’estrazione e la tintura erano infatti processi piuttosto complicati, per cui il pigmento indaco era molto prezioso e apprezzato dalla nobiltà. Il suo uso crebbe in modo esponenziale fino alla prima metà del XVII secolo, quando l’avvento del più economico indaco commercializzato dalle Indie (Indigo tinctoria, già in polvere) soppiantò fortemente la coltivazione del guado in Europa, tranne che nell’Italia meridionale, dove la coltivazione del guado aumentò a partire dal XVIII secolo (Guarino et al. 2000).
I precursori dell’indaco possono essere estratti dalle foglie di Isatis tinctoria attraverso un processo di estrazione che prevede l’idrolisi enzimatica di composti aromatici eterociclici (Stoker et al. 1998a), principalmente l’Isatan B (indoxyl-5-ketogluconate) e, in misura minore, l’Indican (indoxyl-β-D-glucoside). L’Isatan B e l’Indican vengono inizialmente idrolizzati attraverso una reazione di catalisi da parte dell’enzima b-glucosidasi contenuto nelle foglie della stessa pianta. La reazione avviene normalmente a un pH debolmente acido, tra 4,8 e 6,0 (Kiernan 2007). Questo meccanismo porta alla formazione di molecole di indossile: un solido giallo-verde solubile in acqua. In condizioni ossidanti e in ambiente alcalino, la reazione procede fino alla dimerizzazione dell’indossile (con prevalenza della forma enolica) e alla conseguente formazione di indaco insolubile (ESM 6).
Per una semplice prova sperimentale comparativa, il pigmento è stato ottenuto in laboratorio per confrontarlo con quello rilevato strumentalmente nella Grotta del Crocifisso (MES 7).
È stata campionata una quantità adeguata di foglie di Isatis tinctoria (circa 5 kg), cresciute spontaneamente nell’area circostante. Le foglie sono state poste in contenitori HPDE (polietilene ad alta densità), riempiti con una soluzione acquosa di HCl al 10% (v/v) per essere sottoposte a macerazione (secondo Stoker et al. 1998b). I contenitori sono stati poi posti in un ambiente privo di luce a una temperatura controllata di 22 °C per circa 36 ore. L’acqua di macerazione ottenuta è stata quindi filtrata con una rete standard di acciaio USA 10 (2 mm). Successivamente, il Ca(OH) 2 è stato aggiunto gradualmente all’estratto filtrato fino a raggiungere un pH di 9,5. L’aria è stata insufflata nell’acqua di macerazione precedentemente filtrata e alcalinizzata per un paio d’ore utilizzando una pompa da vuoto (fase di ossidazione).
Il residuo solido filtrato è stato posto in un forno ventilato a 40°C. Non appena il residuo ottenuto è stato completamente liofilizzato, sono state aggiunte alcune gocce di HCl concentrato diluito in acqua fino a ottenere il colore blu finale.
Infine, il pigmento è stato lasciato decantare e poi recuperato con l’aiuto di carta da filtro ed essiccato a temperatura ambiente. Il pigmento ottenuto è stato osservato al microscopio a luce riflessa e confrontato con i corrispondenti campioni di intonaco. corrispondenti campioni di gesso.
È interessante notare come il confronto effettuato microscopia ottica ha rivelato le stesse caratteristiche morfologiche delle particelle di pigmento e una caratteristiche morfologiche delle particelle di pigmento e una tonalità di blu molto simile a quella molto simile a quella riscontrata nell’intonaco storico, avvalorando così i risultati ottenuti con le ottenuti attraverso le indagini diagnostiche (MES 7).
L’attestazione del blu indaco nelle pitture murali della Grotta del Crocifisso rappresenta un interessante risultato di questo lavoro. Nella letteratura specializzata, infatti, l’uso di questo pigmento è considerato adatto soprattutto agli acquerelli e alle tempere, poiché sembrerebbe incompatibile con medium molto alcalini come quelli dell’affresco (Schweppe 1997; Aceto 2021).
Questa opinione comune, già esplicitamente espressa nel Libro dell’Arte di Cennino Cennini (capitolo LXXII), è in qualche modo avvalorata dal fatto che la sua identificazione nei dipinti murali è ancora oggi relativamente rara. Tra gli esempi più importanti in Italia vi sono il Cenacolo di Leonardo da Vinci (Monastero di Santa Maria delle Grazie, Milano), la Cripta di Santo Stefano (Lecce), Santa Maria della Steccata (Parma) e gli affreschi sulla Leggenda della Vera Croce di Piero della Francesca ad Arezzo (Schweppe 1997; Bersani et al. 2004; Fico et al. 2016; Aceto 2021).
La presente segnalazione è il primo recupero di questo pigmento nella Sicilia medievale e merita la giusta attenzione, poiché, dalle ricerche in corso, potrebbe essere presente anche in diversi altri contesti siciliani simili.
Il pigmento blu della Grotta del Crocifisso è stato applicato con la tecnica del "mezzo affresco" e quindi in condizioni più asciutte rispetto agli altri pigmenti applicati con la tecnica dell’"affresco". Infatti, poiché il guado è relativamente instabile in condizioni di pH fortemente alcalino, è stato consapevolmente applicato quando la superficie dell’intonaco era già asciutta e quasi completamente carbonata, favorendone così la stabilità.
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