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Una giornata al Cozzo Corvo

Le due sorelle e il cugino malato. Bombardamenti e fuga dal paese.

di Antonio Carollo - martedì 19 giugno 2007 - 4683 letture

Cominciammo la breve discesa che portava all’ingresso della tonnara. Il mare era una distesa immobile azzurro-pallida. Sullo specchio d’acqua davanti ai bassi capannoni di ricovero della tonnara erano ancorati due barconi lunghi e massicci, pronti ad accorrere sulla zona della tonnara per imbarcare i malcapitati e ingenui tonni che in branco avessero la ventura di entrare nelle grandi camere di cattura. Il disco del sole, sospeso sull’orizzonte, cominciava ad indorare il pallore del mare. Sulla destra la torre del castello mostrava i merli tra gli alberi di alto fusto affacciati sull’orlo dello strapiombo sugli scogli. In discesa tutti i santi aiutano. Ciccio non faceva altro che tenersi in curera, cioè si faceva spingere dall carretto, non curandosi affatto di procedere un po’ più svelto. ’A Marinnuzza (madonnina) passammo davanti alla casa di mia zia Marina. Due stanzette: una al pianterreno e l’altra al primo piano. Era tutto chiuso. Da quando in quella casa si era consumata la tragedia del figlio Antonio i miei zii l’avevano quasi abbandonata. Lo zio Turi e la moglie Marina erano agricoltori. Avevano tre figli. Nino, rimasto in Canada dopo un breve soggiorno in quel Paese di tutta la famiglia, France, casalinga, e Antonio, studente. Abitavano poco distanti da noi. Zia Marina, sorella maggiore di mamma, veniva spesso a casa mia. Trattava mia madre quasi come una figlia: le dava consigli soprattutto sui cibi da preparare. Ricordo una sua caponatina, un piatto appetitoso fatto da melanzane fritte a pezzetti, pomodoro (due minuti nell’acqua bollente per poi levare la pelle e i semini) a pezzi, olive bianche disossate, sedano bollito a pezzetti, peperoni verdi fritti a pezzetti, capperi, cipolle rosolate, zucchero e aceto, il tutto messo a macerare in un barattolo di vetro. Io ne andavo matto. La zia veniva per qualche minuto ma anche per qualche ora, a volte. Le due sorelle si sedevano nell’angolo accanto alla vetrina e, cucendo o sferruzzando, chiacchieravano. Tra l’altro parlavano molto dei loro genitori e dei loro fratelli e sorelle, dei tempi in cui passavano alcuni mesi in una grande casa in campagna, ai Pilieri, vicino San Nicola, a due passi dal passaggio a livello della strada di S. Onofrio. Da questi discorsi, le rare volte che non ero in strada a giocare con una frotta di miei coetanei, emergeva la figura di mio nonno Antonio, che conoscevo solo dalla fotografia in bella mostra in vetrina. Era morto tre mesi dopo la mia nascita. Aveva fatto in tempo a tenermi in braccio. Era un bella figura di uomo, statura media, pelle bianca (mia madre diceva che quando si toglieva la camicia le sue spalle erano del colore del latte), biondo, occhi azzurri, baffi e pizzetto color dell’oro, lineamenti regolari. Era stato l’artefice delle fortune della famiglia. Possedeva bei frutteti, oliveti, vigne e case. Era stato agevolato dalla fine ingloriosa del feudo del Marchese Artale, che si estendeva dalla montagna di PizzoCane fino alla ferrovia, in pratica circa un terzo del territorio di Trabia. La proprietà era stata frazionata e parecchi piccoli proprietari trabiesi acquistarono, all’inizio del secolo, diversi appezzamenti all’asta o per mezzo di intermediari. “Ti ricordi? Lo chiamavano ’u sinnacu di San Nicola perché vi conosceva tutti e faceva tanti favori” ai suoi poveri abitanti. lo chiamavano don Antoni e gli portavano chilate di pesce. “Baciamu le mani, don Antoni”. San Nicola in quell’epoca era un piccolo villaggio di pescatori a quattro chilometri da Trabia. Zia Marina parlava anche del disgraziato figlio Antonio. Qualche volta sorprendevo zia e mamma con le lacrime a dirotto; si asciugavano subito il viso col fazzoletto e restavano zitte. Il mio ricordo di Antonio risale alla primavera del ’43. Io ero un ragazzino irrequieto. Già giocavo in via Vaianisi con i miei cuginetti Franco, Mario, Pina, con il compagno di scuola Ignazio Palmisano, Giacomino Teresi e qualche altro. Mia sorella Giuseppina, di otto anni più grande, aveva il compito di sorvegiarmi da lontano. La mamma mi aveva assegnato quella strada: non dovevo allontanarmi da lì; in effetti l’avevo scelta io perché in quella via vi abitavano gli zii Pippina e Pippino con i loro numerosi figliolini e lo zio Totò con la moglie Zia Mariannina e i quattro figli Pina, Terina, Giannina e Mario. Non c’erano pericoli di traffico: non esistevano macchine, solo verso sera cominciavano a rientrare dalle campagne i primi carretti. Giocavamo, i maschi, con i nuciddi (nocciole siciliane); con quattro nuciddi facevamo un cumuletto a piramide; si tirava a sorte chi doveva tirare per primo; si fissava la distanza dei tiri e chi colpiva uno dei mucchietti se lo incamerava. Io avevo quasi sempre le tasche dei pantaloncini gonfie di nuciddi che mostravo con orgoglio e ironia agli altri; lo stesso facevano a me i compagni quando le cose non mi andavano bene. Altri giochi erano: quello degli strummuluna (palle di legno, con un pizzo di ferro ben appuntito, che con maestria avvolgevamo con un tratto di cordicella e lanciavamo sul terreno facendolo girare come una trottolina); il gioco consisteva nel colpire ’u strummuluni che per sorte doveva fare da bersaglio; chi non lo colpiva si sottoponeva il suo attrezzo alla stessa penitenza e alla fine riceveva il tot di pizzate stabilito. Chi riceveva meno pizzate vinceva; altro gioco: il lancio di monetine di mezzo soldo o di uno o due sul marciapiede; chi faceva arrivare, lanciandola dalla distanza concordata, la monetina più accosto al muro vinceva tutte le altre monetine in gara. Spesso passavamo parecchio tempo a costruirci i giocattoli: camioncini, pattini, carretti, pupazzi di creta. Con l’entrata degli americani c’era abbondanza di cuscinetti a sfera che servivano da ruotine per i nostri piccoli veicoli Si giocava pure ai quattro cantoni, a calcetto con una palla di pezza, alle corse spingendo una ruota costituita dal cerchione di una bicicletta o di un triciclo; in questo caso infrangevamo gli ordini di non allontanarci da via Vaianisi. Le cuginette e le loro amichette giocavano tra loro al girotondo, a saltelli con la une, coi quadratini disegnati col gesso, a quattro cantoni (questo gioco spesso insieme a noi maschi), alle massaie. Mio cugino Antonio sapeva quanto ero spericolato e svelto in questi giochi. Qualche volta, passando per strada, si soffermava a guardarci, divertito. Era un giovane di ventidue anni bruno di carnagione, ben piantato. Un giorno, già malato, spinto dalla mamma, andai a trovarlo. La zia mi guidò verso la sua stanza. “Ogni tanto mi domanda di te. Ntuniuzzu sempri a iucari è?” disse. Mi aprì la porta: “Tonio, talia cu c’è”. La zia richiuse la porta e andò via. Antonio era a letto. Credo che fosse affetto da pleurite, malattia pericolosa allora, curata con scarsi rimedi perché si era in tempo di guerra e non esistevano ancora gli antibiotici. Si sollevò con un sorriso. Mi accarezzò sulla testa. “Ntoniucciu, sempri in movimentu si. Curri com’u ventu dietru ’o carruzzunu, è veru?” Io mi schermii, un po’ intimidito; risposi sorridendo e con cenni di assenso col capo. Era cambiato, il volto pallido e affilato, una folta capigliatura castana e sottili baffetti, le mani ossute e diafane. “Non ti alzi?” gli dissi.”Per ora no, quannu ’u dici ’u dutturi” mi rispose. Gli passò sul volto un’ombra di tristezza. Dalla canottiera e dal pigiama un po’ aperti si intravedeva una piccola parte di torace peloso e molto smagrito. “Non ti preoccupari, appena guarisciu vegnu a iucari cu tia. Va beni?” Fu l’ultima volta che lo vidi. Da lì a poco la guerra cominciò a farsi sentire. Cadde una bomba sulla parte bassa,del paese, centrò una casa dove dormiva una famiglia di quattro persone: tutti morti, la casa un ammasso di macerie; rimase in piedi solo una parte del muro lato mare. Il paese si svegliò in preda al panico. Dopo una settimana caddero altre bombe; fu distrutta la casa du pa’ ranni e da ma’ ranni (padre grande e madre grande) i miei bisnonni che erano morti da qualche anno. Per fortuna era vuota; zio Totò, con la famiglia, per l’insistenza di mio padre l’aveva lasciata da pochi giorni andando a rifugiarsi in una casa di campagna. Con lo stesso raid fu colpita la grande casa con giardino del Cavaliere Sanfilippo; vi perse la vita la figlia maggiore. Fu un fuggi fuggi generale verso la campagna. Noi eravamo già nella casa del Cozzo Corvo. Fu in quei giorni che mio padre, preoccupato per i mitragliamenti (passava un aereo e giù una mitragliata) e per le cannonate in mare, pare tra unità marine nemiche, decise di sfollare alle grotte di Burgio. Anche zia Marina, zio Turi Greco, la figlia France e il figlio malato Antonio si trasferirono in campagna, proprio in questa casetta sulla spiaggia che adesso guardavo con un senso di vuoto. Nella stanza al primo piano vi era morto Antonio mentre gli americani martellavano di bombe la stazione e il porto di Termini Imerese. Tirai dritto. Diedi un leggero colpo di frusta sul dorso di Ciccio (piano, per carità) per farlo svegliare. Ciccio girò il capo verso di me, non so se per cacciarsi una mosca o per rimbrottarmi, e continuò col suo solito passo.

(4-continua)


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