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Se vuoi la pace devi mandare i soldati in guerra?

Ancora una volta, c’è qualcosa che non funziona nel nobel per la pace.

di Sergej - sabato 12 dicembre 2009 - 2254 letture

Aveva suscitato perplessità. Il nobel per la pace a Barak Obama. La speranza che (è l’ultima a morire) un presidente giovane, bello, nero e democratico dopo diversi anni di grigiore e di una politica internazionale basata sugli ultimi conati dell’imperialismo statunitense potesse svoltare l’umanità su un sentiero virtuoso. Di contro, la permanenza della realtà di un Paese non solo in crisi finanziaria ma consustianzalmente in guerra: consustianzalmente perché è solo tramite l’economia di guerra che si può mantenere coesa una realtà sociale in disgregazione come quella degli Stati Uniti, che si può sovvenzionare l’industria privata, che si può finanziare la ricerca e l’innovazione, e non ultimo che si può mantenere il controllo sulla fornitura delle materie prime a basso costo senza cui tutto il cappello del capitalismo salta in aria. Dare il nobel a Obama è stato, come spesso è accaduto con il nobel, un azzardo - la manifestazione di una speranza - vi ricordate il nobel dato ad Arafat? -. C’è, in questa propensione all’azzardo, qualcosa che non funziona nel meccanismo di assegnazione dei nobel per la pace. Del resto, è il più "politico" dei premi, quello su cui maggiormente ci si divide e si formano i partiti pro e contro.

Oggi il discorso di accettazione di Obama del premio. Anche questo discorso destinato a suscitare discussioni. Riporto un ampio brano documentario. Voi, che ne pensate?

Dal discorso di Obama per il nobel sulla pace

"Ho ricevuto questo onore con grande gratitudine e grande umiltà. È un riconoscimento che parla alla nostra più alta ispirazione: quella per la quale, nonostante tutta la crudeltà e durezza del mondo, sappiamo che non siamo semplici prigionieri del fato.

Le nostre azioni contano, e possono indirizzare la storia nella direzione della giustizia.

E tuttavia sarei reticente se non riconoscessi la considerevole controversia che la vostra generosa decisione ha generato. In parte, è dovuta al fatto che io sono all’inizio, e non alla fine, del mio impegno sullo scenario mondiale. Paragonato ad alcuni giganti della storia che hanno ricevuto questo premio - Schweitzer e King, Marshall e Mandela - i miei risultati sono minimi. E poi ci sono uomini e donne nel mondo che sono stati incarcerati e percossi perché cercavano giustizia, ci sono quelli che lavorano duramente nelle organizzazioni umanitarie per portare sollievo ai sofferenti, i milioni che, senza riconoscimenti, con la loro calma e il loro coraggio sono fonte di ispirazione anche per i più cinici. Non posso contraddire chi trova che questi uomini e donne - alcuni conosciuti, altri ignoti a tutti tranne a quelli che aiutano - si meritano di gran lunga più di me questo onore.

Ma forse l’argomento più profondo che accompagna la consegna di questo premio riguarda il fatto che io sono il Comandante in capo di una nazione in mezzo a due guerre. Una di queste sta finendo. L’altra è un conflitto che l’America non ha cercato, un conflitto nel quale siamo stati affiancati dalle altre 43 nazioni - Norvegia compresa - nello sforzo di difendere noi stessi e tutte le nazioni da altri attacchi. Siamo ancora in guerra, e io sono responsabile del dispiegamento di migliaia di giovani in una terra lontana, a combattere.

Nel corso della storia umana, filosofi, religiosi e uomini di Stato hanno cercato di regolare il potere distruttivo della guerra. È emerso il concetto di «guerra giusta», che suggeriva che una guerra è giustificata soltanto quando rispetta alcune precondizioni: se è l’ultima risorsa rimasta o è autodifesa, se l’uso della forza è proporzionato e se, per quanto possibile, i civili sono risparmiati. Per la maggior parte della Storia il concetto di guerra giusta è stato raramente osservato. La capacità degli esseri umani nell’escogitare nuovi modi per uccidersi l’un l’altro si è dimostrata inesauribile. Le guerre tra eserciti cedettero il passo alle guerre tra nazioni, guerre totali in cui la distinzione tra combattenti e civili divenne confusa. Nello spazio di trent’anni, questa carneficina sommerse due volte questo continente.

[...] Dobbiamo riconoscere la dura verità: non potremo sradicare durante la nostra vita i conflitti violenti. Ci saranno momenti in cui le nazioni - individualmente o in concerto con altre - troveranno che l’uso della forza non è solo necessario ma moralmente giustificato. Faccio questa affermazione con in mente quello che Martin Luther King disse in questa stessa cerimonia anni fa: «La violenza non porta mai a una pace permanente. Non risolve i problemi sociali, ne crea solamente di nuovi e più complicati». Come persona che sta qui come diretta conseguenza dell’azione di King durante la sua vita, sono un testimone vivente della forza morale della non violenza. So che non c’è nulla di debole, nulla di passivo, nulla di naïf, nel credo e nelle vite di Gandhi e King.

[...] Per cominciare, credo che tutte le nazioni - forti e deboli - debbano aderire agli standard che regolano l’uso della forza. Io - come ogni capo di Stato - ho il diritto di agire unilateralmente se è necessario a difendere il mio Paese. Tuttavia sono convinto che aderire agli standard rafforza chi lo fa e isola, e indebolisce, chi non lo fa. Il mondo si è stretto al fianco dell’America dopo l’11 settembre, e continua a sostenere i nostri sforzi in Afghanistan, a causa dell’orrore di questi attacchi insensati e riconosce il principio dell’autodifesa. Allo stesso modo, il mondo riconobbe la necessità di contrastare Saddam Hussein quando invase il Kuwait: un consenso che mandò un chiaro messaggio riguardo ai costi di un’aggressione. Al contrario, l’America non può insistere che altri rispettino le regole che essa stessa rifiuta di seguire. Perché quando non le seguiamo, la nostra azione può apparire arbitraria, e indebolire la legittimità di futuri interventi, non importa quanto giustificati.

[...] Da qualche parte, oggi, un giovane dimostrante attende la brutalità del suo governo, ma ha il coraggio di manifestare. Da qualche parte, oggi, una madre, affrontando il fardello della povertà, trova lo stesso il tempo di istruire i suoi bambini, c’è qualcuno che crede che nel mondo crudele ci sia lo stesso posto per i suoi sogni.

Viviamo seguendo il loro esempio. Possiamo riconoscere che l’oppressione sarà sempre con noi, e ugualmente lottare per la giustizia. Possiamo capire che siamo in guerra, e ugualmente lottare per la pace. Possiamo farlo perché è la storia del progresso umano, perché è la speranza di tutto il mondo. E in questo momento di sfide deve essere il nostro lavoro qui sulla Terra."

Fonte: La Stampa


Riportiamo quanto scrive Luca Sofri:

"Se cercavate una ragione per dare il Nobel per la Pace a Barack Obama, eccola qua: è il primo a cercare di descrivere cosa sia, la pace. Il primo ad avere il coraggio di dire che quello che si può fare per la pace non è solo cantare “Imagine all the people” ma è anche cercare di perseguirla quotidianamente senza illusioni ma con concretezza. Sapendo quando è il tempo della non violenza e quando è il tempo della violenza. La pace è la riduzione della sofferenza nel mondo, e ci sono orribili guerre che sono servite a questo, come tutti sanno."


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