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Monticchiello:essere oggi senza dimenticarsi

Due passi a Monticchiello durante le giornate del tradizionale Teatro Povero; quando il teatro è comunità.

di Francesco Chiantese - venerdì 4 agosto 2006 - 5891 letture

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Foto d’epoca?
Qualche volta le pose ricordano quelle d’altri tempi, e la piazza con il suo palco diventano l’aia di un podere dove giocare ed immaginare quello che poteva esserci oltre.

Spesso capita di salire su una collina, dopo qualche chilometro di curve nella provincia della provincia senese, e di ricostruire i percorsi umani di un tempo, viaggiando a ritroso, viaggiando verso un futuro che ha sapore di antico. Allora si ha la fortuna di incontrare una comunità ostinata che da quar’antanni quaranta perpetua se stessa generando ancora, in un lavoro quotidiano, nuove radici per risaldarsi ad una terra antica. Capita spesso, appunto, da queste parti.

Questo lavoro certosino di cucitura tra prospettive e basi culturali, diventa qualcosa di vivo e vivente, se lo strumento scelto dalla comunità per persistere è il teatro.

Monticchiello, o la comunità del Teatro Povero di Monticchiello, così come da anni me la figuro da osservatore esterno e vicino, ha in se qualcosa di sacro.

Qui da quarant’anni l’intera comunità si stringe a se stessa attraverso il loro "teatro povero", lontano da quello di Grotowsky eppure tanto vicino ad esso quando si sofferma a parlare dell’essenzialità. Il loro teatro è essenziale. Il loro teatro è qualcosa da nonni coi padri, da padri coi figli; assume una dimensione familiare, quasi come se fosse ancora tramandato, ed a tratti ci sembra che lo sia davvero. Qui il nonno non ti racconta "i bei tempi", ma te li mostra.

Così ogni anno si rinnova il rito dell’autodramma. Qui ogni anno si fa teatro perchè Andrea lo vuole, Alpo anche, Ilvero pure, così Claudio, Daniele, Arturo...fino all’ultimo dei bambini attori. Si fa teatro, a Monticchiello, perchè lo si sceglie di anno in anno, alla faccia dei finanziamenti sempre più bassi e delle difficoltà oggettive del fare teatro oggi.

Quarant’anni, come ricorda con il consueto gioco di parole e suoni il titolo del loro ultimo lavoro, di teatro modificano il modo di stare al mondo di chi vive quest’esperienza, e parlo di un livello di cambiamento sotto lo strato della pelle: qualcosa di interiore; quando però la scelta teatrale appartiene a tutta una comunità a cambiare sono anche, anch’essi in profondità, i legami, i rapporti interni tra gli individui, ed allo stesso modo il modo della comunità di incontrare l’altro.

Il mio invito è a visitare questo splendido borgo medioevale, frazione fortemente autonoma di Pienza, in provincia di Siena a pochi minuti dalle uscite dell’A1 di Chiusi e di Valdichiana; ma non è facile seguire questa mia indicazione.

Monticchiello è una comunità che si rivela ad un turista attento, non frettoloso, senza preconcetti. Questa comunità lotta quaotidianamente contro l’immagine del "contadino bucolicizzato toscano", con cappello di paglia, filo di grano in boccca, e carrettino di formaggi alle spalle.

Qui la resistenza si fa tutti i giorni. Andiamo tutti ad imparare.

Qui, cosa rara in toscana, non si entra in un museo dei tempi andati; non ti viene da pensare al medioevo o al rinascimento. Qui esiste un quotidiano che attira molto di più di una realtà posticcia. Questo qualcosa, però, non è fatto per voi; anche se vi è concesso rubarlo, spiarlo, o avvicinarvi lentamente chiedendo permesso.

Di tutto questo, quotidiano e straordinario, presente e storia, si imbevono i loro spettacoli. Quello di quest’anno, soprattutto, ci riconcilia con il concetto teatrale della magia. Con semplici trovate riesce a mostrare con evidenza i legami tra fatti accaduti di storia recente e contemporaneità, restituendoci una consapevolezza del come realmente funziona la storia, che ci fa tanto bene in questo tempo di dimenticanze. Nulla però è didascalia, nulla è scontato. Si cede alle cose naturali; la storia qui è qualcosa di ovvio, c’è tutti i giorni, come le emozioni tra le più umane. Così sulla scena si alternano scene forti, della memoria locale, legate alla resistenza partigiana ed al suo orgoglio mai morto, con scene ricche di tenerezza; come quando il folletto Alpo entra in scena con il suo clarinetto e la sua fisicità per completare, con un incontro sereno, il racconto che la moglie ha appena finito di fare della propria giovinezza, mentre sulle pareti della piazza scorrono le foto della loro adolescenza e del loro matrimonio. La storia di due uomini, così com’è, che si mescola con la storia di una comunità, così com’è. Naturale. Come nella scena finale, quella in cui si accolgie il gusto del pubblico, quella in cui tutti sono in posa come in quelle fote di un tempo, e la piazza si trasforma in aia, e li vedi tutti lì schierati. Gente di Monticchiello. Ostinata ed orgliosa; testimone della storia e famiglia in attesa di un presente che sta partorendo.

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In scena da soli
Ed ecco i personaggi, di tanto in tanto, fermarsi i momenti di solitudine in cui il dialogo interiore, figlio di Pirandello in qualche modo, si fa dialogo con il proprio tempo presente e con gli spettatori figli di un’altra realtà.

Ecco. Infondo è questo che ci passa per la testa quando impariamo a perderci a Monticchiello; sembra che il paese sia la pancia gravida di una madre e che i suoi abitanti siano in attesa di qualcosa. Forse il modo migliore di vivere di questi tempi. Ed allora occorre fare silenzio, sulle piccole contraddizioni che pure esistono da queste parti, come si resta in silenzio quando alla fine dello spettacolo qualcuno degli abitanti attori si avvicina e ti chiede con umiltà "com’è andata?". Qualsiasi giudizio tecnico, davanti a tanta sacralità, davanti a tanta necessità, davanti a tanta quotidianeità del linguaggio teatrale, sarebbe una bestemmia. Io, ricercatore di teatro troppo giovane per aver visto il teatro, che arranca questo suo teatro, mi inginocchio per ogni volta che ho avuto la fortuna di vedere il vecchio Ilvero alzare un braccio e dire due parole. Qui dal movimento di un braccio, al modo di stare al mondo, si fa "tradizione", come se tradizione volesse dire tradire l’idea che sia ha del proprio essere stati, per concedersi l’essere oggi, senza però dimenticarsi.

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Foto di scena
Una bella foto d’insieme di Umberto Bindi dallo spettacolo Gomiccioli del 2005

Per informazioni maggiori visita il sito www.teatropovero.it Le bellissime foto fanno parte della mostra realizzata da Umberto Bindi per il Teatro Povero. Per contattare Umberto Bindi visitare il sito del Teatro Povero.


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