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Ma quante volte l’Italia è stata sconfitta?

Che ci sia una vocazione per la sconfitta da parte dell’Italia? Ci sentiamo meglio nella sconfitta, per qualche masochistico senso del godimento nazionale, più che nella “vittoria” o nel trionfo?

di Sergej - domenica 9 luglio 2023 - 940 letture

C’è una specie di sentimento ricorrente, nella storia italica degli ultimi decenni, quello della “sconfitta italiana” ovvero del ricorrente senso di sconfitta che dopo ogni evento bellico o calcistico ci ritroviamo. Dopo la sequenza di guerre d’indipendenza, non esattamente trionfali, ci siamo ritrovati con la “vittoria mutilata” della prima guerra mondiale. La storia coloniale italica è una sequela di sconfitte: “è successo un ambaradàn” è finito per diventare proverbiale. I pochi trionfi - euforici, eccessivi, troppo belli per essere veri - sono presto stati soffocati e subito dimenticati dalle disgrazie immediatamente successive. Il dantesco “contrappasso” quale destino di questo insieme di popoli che cercano di essere nazione, che è l’Italia? Nel 1943, il 3 settembre, l’Italia firmò con inglesi e statunitensi il trattato di resa, a Cassibile. Dicevamo addio a una politica internazionale del nostro Paese e ci sottomettevamo da allora a Gran Bretagna e Stati Uniti. Da allora siamo Paese occupato. Negli anni Sessanta pensavamo di poter rialzare la testa, se non altro a livello economico, ma ci pensarono bene le uccisioni di Mattei, l’eliminazione della ricerca sul nucleare, l’eliminazione del reparto informatico (Olivetti) a farci calare la testa. Nel 1969 inizia la “strategia della tensione”, seguita dall’immissione dell’eroina nel mercato che bruciò una intera generazione - pare c’era anche un “piano” a riguardo, dei servi inglesi -. Nel 1978 l’uccisione di Aldo Moro ci ricordò chi erano i padroni in Italia, e nel 1994 Craxi, che aveva osato contrastare gli Stati Uniti a Sigonella, se ne fuggì ad Hammamet. Da allora non c’è stato un solo governo che non sia stato accusato di essere la “longa manus” di potentati esteri e internazionali. Lo si diceva di Berlusconi (asservito al neoliberalismo), di Monti e di Draghi (direttamente dai vertici occulti del neoliberalismo), lo si dice del governo Meloni attuale.

Romano_Prodi

Che ci sia una vocazione per la sconfitta da parte dell’Italia? Ci sentiamo meglio nella sconfitta, per qualche masochistico senso del godimento nazionale, più che nella “vittoria” o nel trionfo? Certo, gioiamo quando vediamo la nostra nazionale di calcio vincere qualche partita, o la nostra squadra del cuore che vince - ma quando una squadra vince, non c’è forse subito l’accusa da parte degli altri tifosi a proposito di partite truccate, arbitri venduti, sistema del calcioscommesse che stabilisce a priori chi deve vincere e chi deve perdere?

Quante volte abbiamo rimpianto le (poche) vittorie della sinistra, per le politiche governative poi adottate che nulla avevano di sinistra, e ringraziato in cuor nostro quando siamo stati sconfitti, nelle diverse tornate elettorali, visto il livello e la qualità delle persone che "la sinistra cosiddetta" aveva la sfacciataggine di presentare come "sinistra"? Ci sentiamo meglio quando perdiamo. Diffidiamo delle vittorie. Dicono che ai generali romani in trionfo affiancavano un menagramo che gli ricordava quanto effimera fosse la vita ("ricordati che devi morire..."), mentre poi una parte della cultura cattolica è quella delle autoflagellazioni, del cilicio e delle confessioni di colpa. Ci portiamo, tutti, questo retaggio? Enzo Traverso parla di "malinconia della sinistra"... [1]

Attraverso la semplificazione di vincitori/vinti, vincenti/sconfitti persino quelli che dovrebbe sparire dalla storia trovano un momento di autoidentificazione (residuale, risibile, ma pur sempre identificativo e accomunante). C’è comunque un "noi" contrapposto ancora a un "loro"? Significativamente, proprio quando Marco D’Eramo cita la frase di Warren Buffett [2], non sta ancora una volta indicando un "noi"?

In Libia “abbiamo perso”, non solo politicamente. Ma l’ENI, azienda che determina assieme al Vaticano buona parte della politica residuale internazionale dell’Italia, “ha perso” / “abbiamo perso” e le compagnie petrolifere francesi e statunitensi hanno vinto. Sarkozy, ex avvocato Mediaset, e Merkel ridevano di Berlusconi. Il sentiment, per usare questa brutta parola, dell’Italia è sempre quello di volersi “far volere bene” dagli altri, dagli stranieri - senza mai imparare bene la lingua degli altri. D’altra parte, anche i regnanti Savoia nei primi decenni non parlavano mica italiano… Dei parvenu sulla scena internazionale, vocianti e incapaci di distinguere la forchetta per l’insalata da quella per il pesce. Il made in Italy è tutta una invenzione recentissima - dopo secoli di fame e povertà vera… che rischia di essere l’ultima risata chioccia, quella che si fa fuori tempo, quando tutto è già finito. Perché dopo gli anni neri delle bombe e delle stragi, e quelli immondi berlusconiani, di trippa ne è rimasta ben poca.

Il marketing riciccia parole d’ordine del passato, vecchie idee (il “piano Mattei” e altri riverberi simili) proprie di chi ha ascoltato da giovane qualche raccontino, senza averlo mai capito davvero. Questa classe politica di decerebrati, come i vecchi - quelli che hanno costruito l’Italia delle macerie di oggi - li definiscono. L’angustia del presente ci fa sentire forte il senso della sconfitta di questi anni.

[1] Malinconia di sinistra : Una tradizione nascosta / Enzo Traverso ; traduzione di Carlo Salzani. - 1 ed. - Milano : Feltrinelli, 2016. - 246 p., [X] : br. ; 22 cm. - (Campi del sapere Feltrinelli). - Tit.orig.: Left-Wing melancholia. - ISBN 978-88-07-10523-4.

[2] In: Dominio : La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi / Marco D’Eramo. - 4 ed. - Milano : Feltrinelli, 2021. - 252 p., [4] : br. ; 22 cm. - (Campi del sapere Feltrinelli). - ISBN 978-88-07-10554-8. - a pag. 10 cita l’aneddoto che riguarda Warren Buffett, "uno degli uomini più ricchi del mondo": "a un inviato del New York Times disse candidamente: ’Certo che c’è la guerra di classe, ma è la mia classe, la classe ricca che la sta conducendo, e noi stiamo vincendo’ (26 novembre 2006). Cinque anni dopo, nel 2011, Buffett ribadiva il concetto e affermava non più che i ricchi questa guerra di classe la stavano vincendo, ma che l’avevano già vinta: ’Di fatto negli ultimi vent’anni è stata combattuta una guerra di classe, e la mia classe l’ha vinta [...]. Se c’è una guerra di classe, l’hanno vinta i ricchi’".


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