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Com’è profondo il mare

Calabria "nuova" terra dei fuochi?

di francoplat - mercoledì 20 dicembre 2023 - 858 letture

È un fenomeno noto. La nave passa, solca il mare, lo divide, poi le acque spartite si riavvicinano e tutto torna allo stato di quiete. Così, la lunga vicenda delle mafie si è sostanziata di questo andamento marino, dello spiraglio di luce subito richiuso, dello scalpore, delle domande, dei sospetti, dei dubbi, poi tornati quieti e silenti, come mai nulla fosse accaduto. Almeno sino al successivo fragore.

Ne è un esempio emblematico, e non l’unico, la questione dello smaltimento di rifiuti tossici nel nostro Paese. La vicenda della Calabria quale ulteriore “terra dei fuochi”, dopo la nota vicenda campana squadernata da Carmine Schiavone – ex boss dei Casalesi, poi collaboratore di giustizia, morto nel 2015 –, è tornata alla ribalta alcune settimane fa, grazie a una puntata de “Le Iene”, curata da Giulio Golia e Francesca Di Stefano. I giornali ne parlano, l’opinione pubblica più sensibile al tema si interroga, per il momento tace l’alta politica e la ‘ndrangheta forse ridacchia o forse ride fragorosamente.

Come dare torto ai boss? A leggerla così, nero su bianco, sulle pagine dei quotidiani, pare una notizia fresca di giornata. Un grido di allarme dell’ultima ora: «Interramenti e navi a perdere, la ‘ndrangheta sta rendendo la Calabria la nuova terra dei fuochi» (corsivo mio), recita un articolo di “Antimafia Duemila” (8 dicembre 2023), mentre il “Corriere della Calabria” titola uno dei paragrafi relativo alla trasmissione de “Le Iene” in maniera altrettanto eloquente: «La Calabria ‘terra dei fuochi’: “una verità indicibile”» (8 dicembre 2023). Ecco, la nave sta passando, fende le acque, il fondale, per un attimo, s’allarga alla vista. Laggiù è sepolta la verità indicibile. Quale verità? Quella delle cosiddette “navi a perdere”? Quella di un’organizzazione criminale che, da almeno cinquant’anni, sta inquinando terre e acque calabre e non? Quella di un’attività illecita che prosegue imperterrita da decenni ed è stata fiutata dagli inquirenti già a partire dagli anni Ottanta? Quella di navi che attraversano il Mediterraneo e gli oceani e portano nelle stive le future patologie cancerogene di umani e animali e non solo in Campania o in Calabria, ma anche nel Sud America e in Africa?

Purtroppo, la verità indicibile è già stata detta. E non oggi, non ieri, neanche l’altrieri. La materia è enorme, planetaria e non è sufficiente un articolo per contenerla tutta, si dovrebbe raccontare a puntate questa vicenda sporca. Si pensi solo ai legami tra il traffico di rifiuti e quello delle armi che rappresenta uno dei filoni di indagine sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, uccisi in Somalia nel 1994 (anno che tornerà più avanti). Non a caso, un lungo documento prodotto dalla Commissione parlamentare antimafia nel 2018, sui traffici internazionali di rifiuti, concludeva osservando che «gli anni ’80 e ’90 sono stati l’epoca d’oro dei viaggi dei rifiuti pericolosi italiani ed europei verso i paesi extra Ue, con una prevalenza del Nord Africa» e che il «service che funzionava per i rifiuti […] poteva anche essere richiesto ed attivato per altri trasporti, come quello delle armi».

Dunque se, spulciando qua e là nel tempo, si individuano alcuni momenti del legame tra mafie e rifiuti, è possibile comprendere come non ci si possa stupire, sorprendere, non si possa restare sgomenti come davanti a una scoperta vergine. Risalendo la corrente come il salmone, svolgendo il nastro della vicenda all’indietro, è possibile notare il meccanismo delle urgenze che diventano ordinario orrore e, quindi, pacificata, perché dimenticata o rimossa, realtà. Dell’ottobre 2022 è un articolo del “Corriere della Calabria”, che si domandava: «In Calabria c’è un problema di rifiuti tossici?» e si riferiva a un allarme lanciato dal direttore de “La Voce Cosentina” proprio inerente il problema dello smaltimento di sostanze pericolose nel Cosentino, già a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, oltre che in altri siti regionali.

Nel dicembre 2020, era la volta de “La Gazzetta del Sud online”, con un articolo firmato da Arcangelo Badolati, a trattare la questione con questo incipit: «Il nemico invisibile e la terra svenduta dai boss. Patologie tumorali incipienti svelate da uno studio dell’Istituto superiore di sanità, informative desecretate dei servizi segreti, dichiarazioni di collaboratori di giustizia e di faccendieri internazionali, indagini condotte a più riprese dalle procure distrettuali di Catanzaro e Reggio, dimostrano l’interesse certo della ‘ndrangheta verso il traffico di rifiuti e di scorie nocive e radioattive». Lo studio dell’Istituto di sanità, elaborato due anni prima, metteva in evidenza la sovra mortalità dovuta a patologie quali epatiti virali, tumori epatici, tumori renali e malattie dell’apparato digerente; ciò in 18 zone considerate pericolose e dislocate in tutte le province calabresi. Non era stato stabilito un nesso causale forte tra morti e rifiuti nocivi, né lo è stato in seguito, ma l’interesse della ‘ndrangheta per i rifiuti era tutt’altro che una favola.

La sopra citata informativa desecretate del Sisde è datata 1994; datazione questa che, di fatto, arretra di molto la percezione del fenomeno, almeno per quanto riguarda gli apparati di sicurezza. Quello stesso 1994 in cui Legambiente e l’Arma dei carabinieri – con l’istituto di ricerca “Eurispes” – presentavano il primo rapporto sulla criminalità ambientale in Italia e in cui veniva coniato il termine “ecomafia”, cinque anni dopo entrato nel vocabolario della lingua italiana. Resoconto dal quale emergeva «uno scenario preoccupante sull’illegalità ambientale nel nostro Paese e sul ruolo che giocava in questo settore la criminalità organizzata di tipo mafioso», un quadro che narrava di rifiuti speciali pericolosi che dal Nord finivano nelle regioni controllate dalle mafie. A parlare è la Direzione investigativa antimafia, siamo nel 2019, un anno dopo l’articolo di Badolati, e lo faceva nella relazione del primo semestre (gennaio – giugno), con un focus dal titolo “Mafie e rifiuti”, di estremo interesse e reperibile in Rete. Un documento il cui incipt precisa, senza ombre di dubbio, il grande interesse delle consorterie criminali per la questione qui analizzata: «Trasi munnizza e n’iesci oro», entra immondizia ed esce oro, frase colta in un’intercettazione ambientale e pronunciata da Vincenzo Virga, mafioso trapanese, la cui famiglia era specializzata nello smaltimento clandestino dei rifiuti.

La Dia sintetizza la vicenda rifiuti e il loro illecito smaltimento attraverso un documento che merita considerazione almeno per due aspetti: da un lato, rileva come le rotte, tradizionalmente volte da Nord a Sud della penisola – dalla Lombardia e dal Veneto, in particolare, verso Calabria, Sicilia, Puglia o Campania –, siano mutate nel corso degli anni, tanto nella direzione Nord-Nord quanto in quella inversa Sud-Nord. A questo riguardo, risulta interessante quanto affermava nel 2017 il procuratore aggiunto di Brescia, Sandro Raimondi, circa il fatto che tale illecito aveva fatto diventare, a suo parere, Brescia stessa e le zone limitrofe una nuova “terra dei fuochi”. Aggiungeva, inoltre, che le imprese del settore avevano imparato a fare a meno delle organizzazioni ‘ndranghetistiche o camorristiche, «l’imprenditore del nord ha imparato a fare da solo, in modo autarchico». Dall’altro lato, il documento della Dia acquisisce importanza pure in un’altra direzione, volta ad allargare il tema delle responsabilità in materia di smaltimento clandestino dei rifiuti. Non si pensi, osservano gli estensori della relazione, che gli attori del ciclo dei rifiuti siano ascrivibili a un ambiente criminale esclusivamente mafioso, perché ciò «allontanerebbe da un’analisi aderente alla realtà: il crimine ambientale è un fenomeno in preoccupante estensione proprio perché coinvolge, trasversalmente, interessi diversificati. […] Quasi sempre, infatti, nei reati connessi al traffico illecito dei rifiuti si intrecciano condotte illecite di tutti i soggetti che intervengono nel ciclo, dalla raccolta allo smaltimento: non solo elementi criminali, ma anche imprenditori ed amministratori pubblici privi di scrupoli». Mafiosi, impresari, pubblici funzionari, agenzie di intermediazione, analisti chimici, autotrasportatori e altri soggetti partecipano, con funzioni diverse, al medesimo illecito, a conferma della pervasività del problema e della sua estesa rete di interessi. Tranne quelli, ovviamente, delle comunità che, ignare, subiscono le conseguenze drammatiche degli interramenti di materiale nocivo.

Si continui a srotolare il nastro, senza alcuna pretesa di rendere completo il ventaglio di articoli che, negli anni, hanno lanciato l’allarme. Gennaio 2018, l’inchiesta “Stige” porta la Dda di Catanzaro a scoprire che le cosche calabresi avevano sotterrato rifiuti tossici e scarti industriali dell’Ilva di Taranto in Calabria. 2016, novembre, la rivista “IVG” pubblica online un articolo nel quale parla di rifiuti tossici interrati dalla ‘ndrangheta in Liguria, nello specifico a Borghetto Santo Spirito, e, facendo riferimento al già citato documento del Sisde, precisa: «tra la Calabria e il Nord Italia vi sono decine di discariche abusive, parte già individuate, che custodiscono circa settemila fusti di sostanze tossiche». Sostanze fra le quali è possibile annoverare l’uranio rosso, la cui gestione da parte delle cosche calabresi datava agli anni Ottanta e Novanta dello scorso secolo. Nello stesso articolo, l’autore evoca, poi, un servizio de “Le Iene” (sempre loro) che tentava di fare luce «sul mistero di Africo, un paesino calabrese nel quale le morti per tumore sono drammaticamente sopra la media». Ovviamente morti tumorali legate, secondo il sospetto corrente, al problema dei rifiuti pericolosi.

E si continua con il 2014, quasi dieci anni ormai da oggi: è “strilli.it”, quotidiano online calabrese, che esordisce dicendo: «non c’è una ‘terra dei fuochi’ solo in Campania. Una parte di territorio contaminato è anche qui nella nostra Calabria. Quella dimenticata». Quella raccontata da Carmine Schiavone – la cui audizione presso la Commissione parlamentare antimafia nel 1997 è stata desecretata nel 2013 ed è reperibile in Rete –, come sostiene “La Voce Cosentina” (22 marzo 2021). Il cugino di Francesco “Sandokan” Schiavone avrebbe più volte affermato che anche in Calabria la ‘ndrangheta, «sin dagli anni ’70, ha utilizzato il territorio per seppellire tonnellate e tonnellate di rifiuti di ogni tipo. E in più occasioni affermò che la vera “terra dei fuochi” non era solo la zona controllata dai casalesi ma la Calabria». Nell’articolo di “strilli.it” si sottolinea che, allora, due deputati pentastellati, Dalila Pesci e Paolo Parentela, presentarono un’interrogazione parlamentare ai ministri dell’Ambiente, della Salute e dell’Interno, ritenendo improrogabili una bonifica e un accurato studio epidemiologico per valutare gli effetti delle sostanze tossiche nei luoghi contaminati. Improrogabili, ma mai avvenuti.

Terre violentate, certo, ma anche i mari, va ricordato. Perché le “navi dei veleni” e le cosiddette “navi a perdere” sono parte integrante del fenomeno qui trattato e analizzate dalle commissioni antimafia della XVI e della XVII legislatura (2013 e 2018). Le seconde sono navi che si ritiene siano state fatte affondare nel Mediterraneo – dinanzi alla costa calabra, ma anche in altre realtà del Mare nostrum – per occultare carichi di rifiuti tossici, mentre le prime sono navi fatte rientrare in Italia, da dove erano partite, per via del carico nocivo che contenevano e che doveva essere smaltito altrove. Un complicato intreccio criminale, che vede interessati anche pezzi dello Stato e i nostri servizi segreti. Una vicenda tossica davvero, per quanto ancora colma di nebbie e di punti interrogativi. Una vicenda emersa già alla fine degli anni Ottanta, per ciò che concerne le “navi dei veleni”, e nel corso degli anni Ottanta e degli anni Novanta per quanto riguarda le seconde. In quest’ultimo caso, è stato un collaboratore di giustizia calabrese – morto nel 2012 –, ossia Francesco Fonti, a fornire una cronologia dei fatti in un memoriale consegnato nel 2003 alla Direzione nazionale antimafia; documento nel quale veicolava, alla pari delle dichiarazioni di Schiavone, l’idea di un reticolo di intrecci tra Stato, servizi segreti, imprese e cosche mafiose legati tra loro dal tema dello smaltimento di rifiuti tossici e radioattivi davanti alle coste della Calabria.

In seguito, Fonti è stato ritenuto un testimone poco attendibile dagli inquirenti, ma le sue dichiarazioni, al di là della loro discutibilità, colgono un dato che pare inattaccabile: una quantità enorme di materiale nocivo è stato, ed è, riversato sul nostro territorio e, in maniera significativa, in Calabria. Del resto, Fonti può anche essere stato un collaboratore di giustizia relativamente affidabile, ma alcuni anni fa, nel corso di un’intercettazione ambientale, due boss ‘ndranghetisti parlavano tra loro in questi termini: «Basta essere furbi, aspettare delle giornate di mare giusto, e chi vuoi che se ne accorga?», «E il mare? Che ne sarà del mare della zona se l’ammorbiamo?», «Ma sai quanto ce ne fottiamo del mare? Pensa ai soldi, che con quelli il mare andiamo a trovarcelo da un’altra parte».

Insomma, saltando di qua e di là, senza un ordine particolare né un particolare criterio, omettendo molti dati e molti fatti, è emerso un aspetto tutt’altro che irrilevante. Nel 2023, lanciamo un allarme sulla ‘ndrangheta che inquina la Calabria. Poi, volgiamo lo sguardo indietro e scopriamo che questo stesso allarme è stato lanciato mille altre volte, con monotona insistenza, da magistrati, giornalisti, parlamentari, collaboratori di giustizia, uomini della Dia, cittadini comuni, docenti universitari, istituzioni sanitarie. Scopriamo che, almeno dagli anni Settanta, le mafie scoprono il business, che lo fanno diventare una rilevante miniera d’oro, che aggregano nella cordata illecita i soliti “dintorni”, uomini dello Stato, sindaci, assessori, analisti chimici, i buoni impresari del Nord Italia e di altre buone terre europee (la Svizzera, la Germania, fra le altre), autotrasportatori, broker internazionali e via discorrendo. Sono passati almeno cinquant’anni da allora, non possiamo proprio parlare della Calabria come “nuova” terra dei fuochi; che sia inquinata, è indubbio, che sia “nuova”, è decisamente più discutibile. Purtroppo, non c’è niente di troppo nuovo, in questa vicenda. È la nota storia del mare che si apre e chiude, ciclicamente, lasciando qualche traccia di memoria qua e là, insufficiente per riconoscere in una notizia data come croccante e fresca il gusto rancido di una vicenda lontana nel tempo come i c’era una volta delle fiabe, ma con una morale un po’ meno edificante.

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