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Giro93
Cosa succede in città...
Gli effetti del federalismo sulla politica siciliana
di Lelio Cusimano, da: Repubblica
edizione di palermo, 12 luglio 2002
Mentre la globalizzazione assimila
il mondo a un villaggio e mentre si lavora alla
costruzione dell'Europa, ebbene proprio ora l'Italia
rischia di andarsene in pezzi. Il processo federalistico
di devoluzione, che qualcuno già chiama
di dissoluzione, rischia di minare l'edificio
della civile convivenza schiudendo, in assenza
di precise regole, uno scenario che non promette
nulla di buono per le regioni poco sviluppate
come la Sicilia.
La partita è grossa, la posta in gioco
alta, l'attenzione comune ancora bassa. In ogni
caso impareremo tutti molto presto a conoscere
il nuovo "Titolo V" della Costituzione,
apprenderemo le sottili distinzioni tra le materie
esclusive e quelle concorrenti, ma principalmente
scopriremo la "bicameralina" la sede
cioè dove le pulsioni centraliste e le
spinte federaliste dovranno trovare un loro equilibrio,
rendendo in tal modo compatibili le legittime
aspettative di autogestione dei territori con
l'esigenza di salvaguardare una soglia minima
e irrinunciabile di potere centrale.
Gli effetti del nuovo federalismo
si estendono anche alle regioni a statuto speciale
come la Sicilia e schiudono scenari complessi,
nei quali ad esempio la ridistribuzione della
ricchezza, tra regioni ricche e povere, potrebbe
subire un sostanziale scardinamento, certo non
foriero di felici esiti.
Materia astrusa questa del federalismo, eppure
non relegabile nei salotti esclusivi degli addetti
ai lavori, solo che si considerino le possibili
ricadute pratiche, le conseguenze, per tutti i
cittadini, di scelte la cui comprensione è
per ora riservata a pochi eletti. In una materia
tanto complessa, un po' di cronaca recente forse
aiuta. Nel marzo del 2001 il Parlamento approvava
la legge di riforma del Titolo V della Costituzione;
nel successivo referendum popolare prevalsero
i sì in maniera schiacciante.
La riforma costituzionale cambia radicalmente
il potere di legiferare tra Stato, regioni ed
enti locali. Lo Stato riserva a se la potestà
di far leggi nelle materie di esclusiva competenza
(politica estera, giustizia, moneta, ordine pubblico,
istruzione, previdenza sociale), fissa i princìpi
generali nelle materie concorrenti (dove possono
legiferare le regioni) ed attribuisce agli enti
locali (e cioè province, comuni e città
metropolitane) l'autonoma organizzazione delle
proprie funzioni. Nell'aprile scorso il Consiglio
dei ministri, infine, approvava un disegno di
legge per adeguare l'ordinamento dello Stato alle
modifiche introdotte con il Titolo V della Costituzione;
il ddl La Loggia si appresta a iniziare l'iter
parlamentare.
Le opportunità del federalismo sono tante
ma anche i rischi non sono pochi. Un esempio tra
tutti potrebbe essere quello della fiscalità
locale, con il pericolo che si possano creare
tanti regimi fiscali differenti: venti se intervenissero
soltanto le regioni o addirittura 8 mila se ogni
comune italiano - come teoricamente possibile
- decidesse in proprio; la recente intesa interistituzionale
tra Stato, regioni ed enti locali dovrebbe però
allontanare questa eventualità e consentire
una armonica attuazione della riforma federalista.
È saltata tuttavia l'ipotesi di una cabina
di regia per gestire l'intero processo; e qui
diventa determinante la bicameralina, la commissione
composta da deputati e senatori, rappresentanti
di regioni, province, comuni e città metropolitane,
che è destinata a divenire la vera sede
del confronto istituzionale, l'arena nella quale
arrivano a sintesi costruttiva le tante forze
centrifughe e le mille sollecitazioni centripete
che inevitabilmente caratterizzeranno il confronto
dei prossimi mesi.
Intanto, dall'Università Federico II di
Napoli si leva l'allarme per il possibile buco
di milioni di euro nei bilanci delle regioni del
Sud; lo Stato infatti è impegnato ad assicurare
il livello «essenziale» dei servizi
pubblici con uniformità in tutto il Paese,
mentre le regioni devono garantire il livello
qualitativo dei servizi locali. Le risorse necessarie
dovrebbero scaturire da tributi ed entrate proprie,
dalla compartecipazione al gettito Iva e dal fondo
perequativo per i territori con minori capacità
fiscali. Ma nella prospettiva, oramai imminente,
del tanto atteso federalismo, quante delle regioni
più ricche saranno disponibili a cedere
risorse e in che misura? Se la partita interessa
le regioni povere, non minore interesse si registra
in quelle più ricche, le quali potrebbero
scorgere nel federalismo l'occasione per raddrizzare
a proprio favore la bilancia delle uscite che
oggi pende a favore delle regioni meridionali.
È comunque vero che i trasferimenti dalle
aree forti a quelle deboli finiscono spesso con
il tornare al mittente attraverso il meccanismo
dei consumi (al Nord si produce e al Sud si consuma
grazie anche ai flussi finanziari trasferiti dal
Nord), ma resta la questione della maturità
e della consapevole responsabilità degli
amministratori locali che potrebbero, con difficoltà,
resistere alle lusinghe di una maggiore dotazione
di risorse da destinare ai territori di appartenenza.
In questo scenario sembra particolarmente a rischio
la sanità pubblica, per la quale la copertura
finanziaria derivante dal progetto federalistico
potrebbe risultare incoerente «con l'obiettivo
dell'uniformità della tutela della salute».
In Sicilia a esempio la spesa farmaceutica galoppa
nel giugno di quest'anno al +18 per cento, mentre
il disavanzo complessivo della sanità già
supera i 2.500 miliardi di vecchie lire, di cui
1.300 circa restano a carico della Regione siciliana.
E domani?
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