segnali dalle città invisibili
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Resoconto del Festival di Pesaro

di Annamaria Licciardello

Dal 21 al 29 giugno si è svolta a Pesaro la 38° Mostra Internazionale del Nuovo Cinema. Nata nel 1964 sull'onda delle nouvelle vagues, che in quegli anni rinnovarono il cinema sia dal punto di vista produttivo che linguistico, la Mostra, tra alti e bassi, tra edizioni perfettamente riuscite per organizzazione e opere proposte e altre rovinose da tutti i punti di vista, continua la ricerca e l'invito ad inoltrarsi in cinematografie minori, marginali o semplicemente sconosciute al grande pubblico.

Quest'anno l'obiettivo era puntato sul nuovo cinema spagnolo con lo slogan: "non solo Almodovar". Proposito quindi audace, che si prefiggeva lo scopo di presentare i nuovi cineasti spagnoli, che si muovono tra genere e autorialità, ma che alla fine non ha soddisfatto le aspettative. I film che ho visto non andavano oltre un presuntuoso e formalistico approccio al mezzo filmico, con la creazione di paesaggi e personaggi forzatamente costruiti e storie inconsistenti e costellate di clichés, come in Pau i el seu germà (Pau e suo fratello) di Marc Recha, presentato come una delle perle della rassegna, oppure erano combattuti tra un voler-essere drammatico e un essere pericolosamente contiguo alla fiction-tv o alla soap-opera, come in El mar (Il mare) di Agustì Villaronga, e in La buena estrella (La buona stella) di Ricardo Franco. Mantengo, però, indugio sulla convinzione (o meglio la speranza) di non essere riuscita a vedere i film migliori della rassegna spagnola.

Di tutt'altro interesse sono stati i film di Daniel Schmid e i cortometraggi di Jay Rosenblatt. Il primo a cui e' stata dedicata la personale è un cineasta svizzero di vocazione cosmopolita, che ha lavorato in Germania, Francia, Portogallo, Giappone e Italia, non solo come cineasta ma anche come regista di opere liriche. Elementi riconducibili al belcanto, al melodramma e al teatrale sono ben presenti nei suoi film, costruiti tutti come universi artificiali e irreali, abitati da personaggi eccessivi nella loro immobilità e presenti nella loro fisicità muta. Ne ricorderei soltanto due: La Paloma, del 1974, un melodramma estenuato quasi fino alla stilizzazione ma puntellato di alcuni momenti kitsch di grande livello; e Il bacio di Tosca, del 1984, girato a Milano nella casa di riposo, che Giuseppe Verdi creò poco prima della morte per anziani musicisti e cantanti, e interpretato dagli stessi ospiti. Questo pseudodocumentario viene subito trascinato verso una zona intermedia e ambigua, in cui questi anziani artisti, pur essendo se stessi, recitano il modo in cui si percepiscono e "mettono in scena" ironicamente i loro ricordi di successo e fama, davanti alla macchina da presa come se fossero su un palcoscenico.

Jay Rosenblatt, filmmaker americano, ha presentato alla Mostra sette cortometraggi. Questi sono dei film di montaggio di materiale preesistente, il cosiddetto found-footage, che il cineasta ri-orienta e ribalta al fine di costruire un discorso “altro” che si arricchisce della presenza/assenza, decontestualizzazione/ricontestualizzazione delle immagini prescelte. Di solito il materiale utilizzato proviene da film hollywoodiani degli anni Cinquanta, dal cinema educational e scientifico, dall'home-movie. In The smell of burning ants (L'odore delle formiche che bruciano), del 1994, per esempio, costruisce con queste “immagini ritrovate” un documentario ironico sulla formazione del soggetto maschile dall'infanzia all'adolescenza con tutte le imposizioni culturali e psicologiche che questa comporta.

Di grande interesse è stata poi la sezione Eventi speciali, in cui sono stati presentati gli ultimi lavori di cineasti già affermati ma in continua ricerca, come Chantal Akerman, Jean Rouch, Michel Snow, Jean-Luc Godard e Anne-Marie Miélville; e la breve rassegna Docs in Europe, progetto del Coordinamento europeo dei festival per il restauro e la valorizzazione del documentario europeo sia del passato che del presente.

In ambito video, la retrospettiva sul lavoro di Roberto Nanni ha offerto dei momenti di vera emozione. Penso cioè al documentario Antonio Ruju. Vita di un anarchico sardo, del 2001, in cui l'ormai novantenne anarchico racconta alcuni momenti della sua vita, immerso in una quotidianità dimessa ma illuminata dall'intelligenza sagace e dall'ironia dell'uomo. Ma anche ai film più sperimentali (L'amore vincitore-conversazione con Derek Jarman, del 1993, Piccoli ostinati, del 1986-1990) in cui il lavoro sull'immagine con l'uso del super8, del 16mm e del video come moltiplicazione e stratificazione materica dell'immagine stessa si intreccia con un tessuto sonoro elaborato e mai banale.

Infine, non avendo assistito a un numero sufficiente di proiezioni, mi limito ad annotare la personale su Alain Fleischer, cineasta francese di film essenzialmente non narrativi, e la rassegna di video, con documentari, fiction e sperimentazioni, che, pur essendo ospitata in una saletta angusta e ingiusta verso lo spettatore, è riuscita a creare e mantenere un certo seguito.

Vorrei osservare in margine e con una certa preoccupazione una diminuzione del pubblico, soprattutto giovanile, l'indifferenza della città verso la Mostra che ospita, una ghettizzazione dell'intero avvenimento. L'auspicio è che la Mostra rimetta in discussione i propri assunti e sia capace di creare una progettualità nuova, capace di evitare una marginalizzazione irreversibile e di riattivare quello spirito di ricerca e di stimolo che caratterizzava la Mostra negli anni passati. Forse appuntamenti come la Mostra di Pesaro sono soltanto anacronistici lasciti di un passato cinematografico e non, che nel nuovo millennio del capitalismo postfordista ha la stessa fantasmatica e nostalgica funzione del modernariato.

 

Il Progetto
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