segnali dalle città invisibili
 

Giro91 Mafie da morire
Dieci anni. Giovanni Falcone
a cura di pina la villa

23 maggio, ricorre l'anniversario della strage di Capaci. Da qualche giorno si susseguono, sulla stampa e in TV, le commemorazioni del decennio - perché sono diverse, le commemorazioni, che si tratti del decennio o di un semplice anniversario. Sono stati pubblicati e ripubblicati libri, sono anche scoppiate le polemiche tra polo e ulivo su chi ha ereditato o tradito di più. Credo che Falcone sia un uomo irriducibile a questo o quel partito e più vicino a una dimensione etica della propria esistenza e del proprio lavoro che si allontanano sempre più dal nostro orizzonte. Gli appunti di lettura che propongo sono un invito a riflettere anche su questo.

Alexandre Stille, Nella terra degli infedeli. Mafia e politica nella prima repubblica, Arnoldo Mondadori editore,1995
Sono circa quattrocento pagine di fatti, persone, date, risultanze di indagini, in cui finalmente sembra di poter trovare una logica alle notizie e agli articoli che, dagli anni settanta ad oggi, hanno "raccontato" la mafia, il pool antimafia, gli scandali - P2, Sindona, etc. Un grande affresco in cui è possibile riconoscere i buoni e i cattivi già nelle descrizioni fisiche e psicologiche dei vari personaggi.
Ne cito alcuni passi che mi sembra opportuno rileggere insieme, anche se tutto il libro è importante, assieme alla "Storia della mafia" di Salvatore Lupo, Donzelli. Ma, prima, il racconto di Giovanni Brusca, autore della strage.

"Al terzo "vai!", azionai il telecomando e successe quello che doveva succedere. Non è che l'esplosione fece "bum". Avvenne a ripetizione, perché i fustini esplodevano uno dietro l'altro. Sentii "tututum", "tututum", "tututum"…Onestamente sono rimasto scioccato anch'io.
Nella prima macchina, quella colpita in pieno, c'erano tutti gli uomini della scorta. Se l'auto di Falcone non avesse rallentato, sarebbe stata colpita in pieno. Ritardando, infatti, persi l'orientamento e non azionai il telecomando nel momento in cui Gioé mi diede il via. Se avessi premuto in quel momento, non avrei preso nulla. So solo che, quando azionai, la macchina del giudice venne tagliata a metà dall'esplosione e colpita in parte. Il dottor Falcone e la moglie morirono per l'impatto"(p. 104, Lodato, 1999) "Ho sentito fare "tititi", tipo pioggia…Tutti gli allarmi dei villini vicini si erano messi a suonare contemporaneamente" […] Incontrammo i primi posti di blocco solo quando arrivammo a Palermo. Eravamo soddisfatti per il risultato ottenuto, anche se ancora non sapevamo cosa fosse successo esattamente. Camminavamo tranquilli, ma nello stesso tempo scossi, perché avevamo combinato un casino" […] "Mi sono fatto accompagnare da La Barbera ad Altofonte e, strada facendo, lui mi riferì i commenti delle persone che aveva ascoltato tenendo i finestrini della macchina abbassati: "questi crasti, questi cornuti", parlando di noi. "Questi sdisonorati hanno ammazzato quel signore di Falcone." Mi raccontò anche che lui si era sentito "nicu, nicu", cioè piccolo, piccolo, che faceva l'indifferente. E addirittura, come uno scemo, chiedeva cosa fosse successo".

"Un ultimo particolare: vedendo la televisione e sentendo che uno degli attentatori aveva lasciato decine di mozziconi di sigarette fortemente masticati, la nipote di Antonino Gioé disse: "Zio, quello che ha ucciso Falcone è uno che ha il tuo stesso vizio"
Gioé raccontandomi l'episodio mi confidò: "Rimasi di ghiaccio". Erano i mozziconi dai quali gli investigatori, in un primo tempo, speravano di ricavare il DNA di almeno uno degli attentatori. Ma piovve molto quella notte, e questo ci aiutò. Fu un'altra delle sviste di quel giorno: le cicche di Gioé le avevamo raccolte a conclusione di ogni sopralluogo, di ogni prova, di ogni esperimento…

"L'Italia reagì alla notizia dell'attentato a Falcone come se fosse stato ucciso un capo di Stato. Tutte le principali reti televisive sospesero i programmi per comunicare la notizia. "quando è giunta la notizia, i miei figli, che stavano guardando la televisione, hanno gridato: "NO!" come se avessero appreso improvvisamente di una sciagura familiare" ha scritto Claudio Magris, […] Nel carcere dell'Ucciardone, invece, i detenuti esplosero in applausi e grida di giubilo[…] Il Parlamento indisse una giornata di lutto nazionale e sospese le sedute fino a funerale avvenuto. In Sicilia fu proclamato uno sciopero generale; negozi e imprese chiusero i battenti per un giorno. [Stille, p. 325]
"Molti videro la morte di Falcone come un segno della morte dello Stato italiano. "Falcone doveva essere protetto più di ogni altra personalità nel nostro paese, perché nessuno come lui incarnava lo Stato" scrisse Claudio Magris sul "Corriere della Sera". "Se non si è saputo o voluto difenderlo , ciò significa che lo Stato non esiste"

Per Stille "è stata assai importante la battaglia intellettuale, oltre che giudiziaria, di Giovanni Falcone, il suo tentativo di estrarre Cosa Nostra dal reticolo delle sue relazioni esterne, politico-affaristiche, per poterla esaminare in se stessa; problema di strategia giudiziaria e repressiva che coincide in una certa misura con il nostro di studiosi, in quanto ciò che non si distingue non può essere nemmeno combattuto." (Stille, p. 351)

"La maxiordinanza [per il maxiprocesso che si tenne a Palermo nel 1986, alcuni passi si possono leggere in Corrado Stajano, (a cura di), Mafia: l'atto d'accusa dei giudici di Palermo, Roma, 1986]
, in gran parte stesa dallo stesso Falcone, è un documento straordinario: un grande affresco storico che ha il respiro di un romanzo tolstojano[…] lucida diagnosi di una società malata: come ne Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, vi è documentata la decadenza dell'antica aristocrazia siciliana, il suo graduale perdere terre e potere a vantaggio, in questo caso, della mafia emergente.
Simbolo del nuovo ordine è Michele Greco il Papa, che per gradi si impadronisce della fortuna del suo ex padrone, il conte di Tagliavia. Il primo passo dei greco consiste nel prendere in affitto, per meno di un milione al mese, un vasto fondo contenente numerose case coloniche e redditizi agrumeti. Poco dopo, per ragioni misteriose, i Greco ottengono la riduzione dell'affitto a meno della metà della somma originariamente pattuita. Una disperata mancanza di liquidità costringe i proprietari a mettere in vendita il fondo. Si presenta un solo potenziale acquirente, il quale offre più di 170 milioni di lire (valuta del 1974) e ne versa 150 di caparra. Ma a un certo punto, dichiarando di aver fatto male i conti e di non disporre del denaro necessario a concludere l'acquisto, questi, che pure è uno dei più ricchi costruttori di Palermo, ritira l'offerta, perdendo la caparra. La proprietà resta sul mercato per diversi anni senza che venga avanzata una sola offerta, finché alcuni membri della famiglia Greco la acquistano per una somma ridicola. Agisce come intermediario l'avvocato palermitano Luigi Gioia, deputato democristiano; è il garante del passaggio dall'ancien régime al nuovo mondo. […] Benché tra gli imputati non figuri nessun uomo politico, l'ordinanza spiega quanto Cosa Nostra abbia affondato i suoi artigli in profondità nel tessuto della realtà siciliana. Sono lucidamente analizzate le strutture del potere mafioso nell'isola: l'impero dei salvo e la loro vasta influenza sull'Assemblea regionale; gli imprenditori catanesi, i famigerati "quattro cavalieri dell'Apocalisse" e i loro rapporti con la mafia locale e con i politici a Roma; l'inquietante sfondo politico dell'assassinio del generale Dalla Chiesa e il ruolo della corrente di Andreotti in Sicilia.
Tutti questi rapporti sono documentati puntigliosamente e spassionatamente, allo scopo di costruire una serie di prove inattaccabili. Ma qua e là, sotto l'imperturbabilità del tono, affiorano l'amara ironia e lo sdegno morale di Falcone, cui si devono questi capitoli. Indagando sulla mafia catanese, il magistrato aveva trovato alcune fotografie di una festa nelle quali si vedevano il sindaco e diversi esponenti del consiglio comunale far baldoria con il noto capomafia Nitto Santapaola, che in quello stesso periodo insanguinava le strade della città con la sua spietata guerra di clan. C'è una nota di umorismo nero nella giustapposizione delle fotografie e delle evasive e poco convincenti dichiarazioni degli illustri cittadini di Catania. Una foto mostra un amichevole abbraccio tra Santapaola e Salvatore Lo Turco, all'epoca membro della commissione regionale antimafia. Per spiegare la situazione, Lo Turco dichiarò a Falcone che Santapaola lo aveva "conquistato con il suo tratto signorile e la sua gentilezza di modi" (Stille).

"Come ogni altra cosa all'interno di Cosa Nostra, anche il rapporto di potere tra mafia e politica era mutato negli ultimi quindici anni. All'epoca dei boss "moderati" il rapporto era fondato sul compromesso e la trattativa. Ma con l'aumento di ricchezza e potere generato dal traffico di droga, i nuovi capi erano divenuti più esigenti e imperiosi, mentre, d'altra parte, diventava più difficile per i politici mantenere rapporti con la mafia e agire nel suo interesse, a causa della maggiore attenzione della nazione verso il problema" (Lupo, storia della mafia, p. 266)
"Se si volesse trovare un filo conduttore nella carriera di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino, questo dovrebbe essere il riconoscimento di quanto influisca il mutare dei venti politici sulla lotta alla criminalità organizzata, lotta che è sempre proceduta a corrente alternata, con improvvisi soprassalti di energia scatenati dallo sdegno della nazione per certi delitti particolarmente odiosi. Ogni volta che la magistratura ha avuto l'appoggio del governo, i risultati sono stati notevoli. Dopo la prima guerra di mafia, negli anni Sessanta, Cosa Nostra fu costretta allo sbando per diversi anni, ma riprese più vigore che mai quando lo Stato perse interesse al problema, negli anni Settanta. La seconda guerra di mafia e l'assassinio del generale Dalla Chiesa portarono al maxiprocesso di Palermo. Ma il pool antimafia fu smantellato da forze politiche alle quali interessava una magistratura più docile e meno aggressiva. Con la morte di Falcone e Borsellino venne infine l'appoggio politico alle ultime riforme. Che la politica influisca sull'andamento della lotta alla mafia è messo in evidenza anche dalle statistiche. A un impegno da parte del governo ha sempre corrisposto, in passato, un aumento considerevole del numero di arresti e di processi e un calo degli omicidi e delle morti per overdose. Nei periodi di disinteresse da parte dello Stato, si è verificato esattamente il contrario.
L'esperienza degli ultimi quarant'anni mette in evidenza ciò che avrebbe dovuto essere chiaro fin dall'inizio: una classe dirigente che vive immersa nell'illegalità non è nella posizione adatta a condurre una seria e vigorosa campagna contro la criminalità organizzata. Non a caso i successi degli ultimi tempi sono stati accompagnati da un più generale tentativo di porre fine al sistema di corruzione dominante nelle istituzioni dello Stato [tangentopoli] (Stille, p. 372).

Una pagina è dedicata alla formazione dei due magistrati uccisi dalla mafia, Falcone e Borsellino, nella Palermo degli anni cinquanta.
"La storia del potere mafioso a Palermo si potrebbe raccontare attraverso l'edilizia: isolato per isolato, edificio per edificio; una fisionomia inequivocabile che si esprime tanto nelle costruzioni dozzinali e nell'infernale congestione della città «nuova» quanto nel totale degrado del centro storico. I mutamenti imposti alla città furono così radicali che quasi nessuno ne è stato immune. Le famiglie Falcone e Borsellino non costituiscono eccezione.
Nati rispettivamente nel 1939 e nel 1940, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino vissero quel periodo di trasformazione a pochi isolati di distanza l'uno dall'altro, nel vecchio e alquanto malridotto quartiere della Kalsa, nei pressi del porto. La zona era stata per secoli una delle più eleganti della città. Nel diciottesimo secolo Goethe aveva ammirato le splendide prospettive geometriche create dall'incrociarsi dei viali che i nobili percorrevano in carrozza durante il «passeggio» per vedere e farsi vedere. I Falcone abitavano in via Castrofilippo, nella casa dove aveva vissuto un prozio che era stato sindaco della città; i Borsellino nella vicina via della Vetriera, a due passi dalla farmacia di famiglia. I due ragazzi giocavano a calcio insieme in piazza Magione. Il quartiere era decaduto parecchio dai tempi di Goethe, ma conservava ancora parte dell'antica eleganza e ospitava una sana mescolanza di professionisti e operai, aristocratici e pescatori, imprenditori e mendicanti.
Nel 1956 la casa dei Borsellino venne dichiarata pericolante e la famiglia fu costretta al trasloco. La famiglia […] sopravvisse, mentre intorno tutto andava in rovina. Gruppi di senzatetto occuparono abusivamente l'edificio abbandonato e, costretti a vivere senza energia elettrica e senza riscaldamento [sic!], finirono per appiccarvi un incendio che lo distrusse parzialmente. La casa dei Falcone, invece, fu destinata alla demolizione per far posto a una nuova strada. Invano i componenti della famiglia si presentarono negli uffici delle varie autorità cittadine con fotografie che mostravano i soffitti dell'edificio affrescati, nella speranza di farne riconoscere il valore storico e artistico. La costruzione venne abbattuta nel 1959, ma la strada che avrebbe dovuto passare al suo posto non fu mai costruita, a testimonianza della cieca e stolta pianificazione urbanistica dell'epoca. Alle due famiglie non restò altra scelta che migrare negli anonimi quartieri dormitorio dove un tempo erano stati i sobborghi periferici della città.
Probabilmente non è un caso che i due magistrati […] venissero dalla piccola ma solida borghesia professionale della città. Il padre di Falcone era chimico, quello di Borsellino farmacista. La borghesia, in Sicilia come nel resto dell'Italia, era stata la fascia sociale forse più sensibile ai valori di nazionalismo e patriottismo avanzati dal nuovo Stato nazionale e sostenuti con vigore anche maggiore dal fascismo.«La nostra era una famiglia molto religiosa e attenta ai valori fondamentali del cittadino» racconta Maria Falcone. «Noi bambini siamo cresciuti nel culto della patria. Il fratello di mia madre morì a diciotto anni nella guerra '15-'18, falsificando il certificato di nascita perché aveva diciassette anni e voleva partire volontario. Il fratello di mio padre morì a ventiquattro anni, ufficiale di aviazione. Non era stato richiamato, faceva carriera militare. Averci sempre raccontato questi fatti sviluppava in noi bambini un amore per la patria al di sopra di tutto. In casa si parlava di loro con rispetto quasi ossequioso. "Hanno servito la patria!" ripeteva mio padre.»
La famiglia andava in chiesa ogni domenica. Per un certo periodo Giovanni fece il chierichetto. La madre mostrava pochi segni esteriori di affetto, ma comunicava al figlio un'idea molto siciliana di mascolinità. «Gli ripeteva spesso che gli uomini non piangono perché voleva che diventasse un uomo forte» racconta Maria. Il padre era più affettuoso, ma restava, come ogni padre dell'epoca, un severo patriarca. «Ci ha insegnato a lavorare, a fare il nostro dovere» disse una volta Falcone. «Era un uomo di forti principi morali. Una persona seria, onesta, molto legata alla famiglia[…] Una sola volta ho ricevuto uno schiaffo da lui. Eravamo in tempo di guerra e ruppi una bottiglia d'olio. Chi non ha vissuto quei momenti non può capire. Una bottiglia di olio d'oliva rappresentava un tesoro. La mia famiglia non era una famiglia agiata, si viveva di stipendio, anche allora statale.» In quella famiglia frugale, quasi austera, il padre andava fiero di non essere mai entrato in un bar a bere un caffè. "[…]
Falcone prese in considerazione la carriera militare, un anno all'Accademia navale poi a Palermo a Giurisprudenza. L'Università lo fece avvicinare al Partito comunista ma non ne ebbe mai la tessera.
"La Kalsa è un quartiere del porto, pieno di marinai e contrabbandieri. Da ragazzo, Falcone giocava a ping-pong con Tommaso Spadaro, il futuro «re della kalsa» grosso contrabbandiere di sigarette prima, di eroina poi. «Ho respirato odore di mafia fin da piccolo ma, in casa, mio padre non ne parlava mai. Era una parola proibita» ricordava Falcone. (Anni dopo, quando perseguì Spadaro, il boss non seppe trattenersi dal ricordargli chi dei due soleva vincere a ping-pong.)

Sulla personalità di Giovanni Falcone una piccola vicenda - un dettaglio significativo - che risale al 1990.Falcone si candida al Consiglio superiore della magistratura "dove avrebbe potuto collaborare a influenzare la politica giudiziaria. Si candida più che altro per andar via da Palermo, anche se lui, come gli ricordavano alcuni suoi amici, era più un investigatore che un burocrate. Ma lui aveva delle idee maturate negli anni per una riorganizzazione del lavoro della magistratura e delle procure e si candidò." Non premendogli più di tanto entrare al CSM, Falcone decise di portare avanti le sue proposte e lasciare che fossero i votanti a decidere. Ma non si preoccupò di fondare la propria campagna sui modi tradizionali, interventi a conferenze e convegni, telefonate ad amici e colleghi, manovre di corridoio, visite alle altre procure. Pensava che, essendo la sua carriera e le sue opinioni ben note, i colleghi avevano tutte le informazioni necessarie per decidere se dargli o meno il voto. Molti intesero questo atteggiamento come un'espressione di arroganza. E altri candidati che avevano seguito il vecchio sistema di "corteggiare la stampa" gli furono preferiti. "Ora lei si immagini, un magistrato che tutto il mondo ci invidiava, non eletto al Consiglio superiore della magistratura!" commenta il giudice Lo Voi" (Stille, pp. 290-291).

"Cosa Nostra si è collegata in maniera assolutamente nuova alla grande politica e ai grandi affari, ovvero alla grande stagione (speriamo conclusa) dello stato assistenziale e del governo "debole", disintegrato tra istituti ad hoc, leggi ad personam, lobby, fazioni, clientele e favori, Usl e regioni, tangenti per tutti, dell'affarismo rampante e dei poteri occulti. Per leggere tale sistema, che è il contesto in cui si è sviluppata la metastasi mafiosa, sarà necessaria una storia d'Italia, non bastando una storia della Sicilia” (Lupo, Storia della mafia, p. 272).

"I «veleni», i feroci scontri intestini, le viltà, gli eroismi e i tradimenti, le complicità o la semplice incomprensione delle urgenze di una battaglia di questa portata, come l'emergere di una linea di contrasto alla mafia vanno inseriti nel contesto della progressiva rottura di un blocco originariamente unitario che in Sicilia è quello politico-mafioso, come nel complesso del paese è quello politico-affaristico che possiamo genericamente chiamare democristiano.
Ma sicuramente l'attivismo di un piccolo nucleo di magistrati, che dalla mafia vengono poi trasformati in martiri, rappresenta il fattore incontrollabile per Cosa nostra, il luogo su cui si appunta maggiormente la reazione terroristica, ma anche il momento in cui tale reazione mostra più chiaramente i suoi effetti controproducenti"

Giovanni Falcone, in collaborazione con Marcelle Padovani, Cose di cosa nostra, Rizzoli, 1991
Sono venti interviste fatte tra il marzo e il giugno 1991, articolate in sei capitoli: Violenze, Messaggi e messaggeri, Contiguità, Cosa Nostra, Profitti e perdite, Potere e poteri.
Marcelle Padovani era corrispondente da Roma per "Le Nouvel Observateur". Autrice anmche dell'intervista a Leonardo Sciascia, La Sicilia come metafora.
All'epoca delle interviste raccolte poi nel libro, Falcone ha cinquantadue anni, è stato appena nominato direttore degli Affari penali del ministero di Grazia e Giustizia a Roma. La causa sembra qui essere attribuita da falcone al fatto che a Palermo non poteva più disporre dei mezzi necessari alle sue inchieste. !il frazionamento delle istruttorie aveva paralizzato i giudici del pool antimafia. Era diventato il simbolo o l'alibi di una battaglia disorganizzata."
La prima intervista risale al 1984. Si era creata attorno a lui un alone di mistero. Alla fine però scoprirono "un uomo diverso, allegro, pieno di humour e di gioia di vivere[…]Un siciliano illuminista […] Uomo estremamente schivo, che evitava come la peste gli argomenti personali nel corso della conversazione."
P. 14, succinta biografia. Emerge la figura del padre, con la frase di Falcone che c'è anche in Stille: "Si vantava di non aver mai messo piede in un bar in tutta la vita".
Nel 1964 supera il concorso per entrare in magistratura.
La morte, p. 15
"Devi dire che fin da bambino avevo respirato giorno dopo giorno aria di mafia, violenza, estorsioni, assassinii" prosegue a raccontare il suo primo approccio alla mafia a p. 39.
"mi sono fatto le ossa a Trapani come sostituto procuratore" Primi impegni, p. 40.
L'importanza di Buscetta e il linguaggio, p. 42
"Senza un metodo non si capisce niente"
"Occuparsi di indagini di mafia significa procedere su un terreno minato: mai fare un passo prima di essere sicuri di non andare a posare il piede su una mina antiuomo"
"ho l'impressione che i nostri rapporti siano sempre stati in codice". Parla di Buscetta e fa alcune esempi a partire da p. 51 (le sigarette, il capo, etc.). Tutto il capitolo è infatti su Messaggi e messaggeri, ma la cosa interessante è la comprensione e l'uso del codice linguistico dei mafiosi da parte di Falcone.
"I mafiosi, al pari di chiunque altro, devono essere trattati con franchezza e correttamente
"un giorno ho assistito a Palermo a una scena di strada estremamente significativa. Un tizio protesta contro un altro…p. 61
Perché i pentiti hanno parlato con me? p. 67 e segg.
"Conoscere i mafiosi ha influito profondamente sul mio modo di rapportarmi agli altri e anche sulle mie convinzioni. Ho imparato a riconoscere l'umanità anche nell'essere apparentemente peggiore; ad avere un rispetto reale , e non solo formale, per le altrui opinioni"
"E' il mio scetticismo una specie di autodifesa? Tutte le volte che istintivamente diffido di qualcuno, le mie preoccupazioni trovano conferma negli eventi. Consapevole della malvagità e dell'astuzia di gran parte dei miei simili, li osservo, li analizzo, e cerco di prevenirne i colpi bassi" (p. 71)"Conoscendo gli uomini d'onore ho imparato che le logiche mafiose non sono mai sorpassate né incomprensibili. Sono in realtà le logiche del potere, e sempre funzionali a uno scopo". Nel capitolo contiguità si parla del conservatorismo, della morale cattolica dei mafiosi, della doppia morale dei mafiosi.Una cultura di morte, i pentiti spesso hanno scelto la vita. (p. 83)
Le donne e la cultura della vita. (p. 85)
Palermo: "Io vi ho vissuto fino a venticinque anni e conoscevo a fondo la città. Abitavo nel centro storico, in piazza Magione, in un edificio di nostra proprietà. Accanto c'erano i catoi, locali umidi abitati da proletari e sottoproletari. Era uno spettacolo la domenica vederli uscire da quei buchi, belli, puliti, eleganti, i capelli impomatati, le scarpe lucide, lo sguardo fiero. Dopo tredici anni di assenza, sono tornato a Palermo nel 1978 e ho trovato una città che aveva cambiato faccia. Il centro storico era stato quasi abbandonato. E nella Palermo Liberty le ultime splendide ville erano state demolite per far posto a brutti casermoni. Ho trovato quindi una città deturpata, involgarita, che in parte aveva perso la propria identità. Sono andato ad abitare in Via Notarbartolo, una strada che scende verso via della Libertà, il cuore di Palermo." (p. 89)
"E' un difetto tipicamente latino, quello della personalizzazione. A Palermo c'è chi mi saluta con un "dottor Giovanni", dove il "dottore" è espressione di rispetto, mentre il "Giovanni" aggiunge un tocco di confidenzialità".

Rosaria Schifani, Felice Cavallaro, Oltre il buio, Rubettino editore, 2002.Rosaria Schifani è la vedova di uno dei tre agenti di scorta uccisi nella strage di Capaci.

Per la situazione oggi, per il "che fare?", leggere l'articolo di Giuseppe Di Lello sull'ultima pagina de Il Manifesto, che tocca i limiti dell'azione del movimento antimafia e indica la strategia dell'interdipendenza tra lotte sociali e lotte alla mafia, "la strategia della trasformazione e non dell'alternanza" ricordando, fra l'altro che il sistema maggioritario ha prodotto, in Sicilia, il successo di candidati di centrodestra in 61 collegi su 61. Senza dimenticare la lotta per i diritti "sociali, civili e politici: tutti i diritti per tutti, altrimenti si perde su tutta la linea e le commemorazioni di Falcone e di quanti sono caduti come lui diventano foglie di fico buone a coprire qualsiasi vergogna, interesse o anche furbizia".

 

Il Progetto
[Up] Inizio pagina | [Send] Invia questa pagina a un amico | [Print] Stampa | [Email] Mandaci una email | [Indietro]