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Giro91
Mafie da morire
Dieci anni. Giovanni Falcone
a cura di pina la villa
23 maggio, ricorre l'anniversario
della strage di Capaci. Da qualche giorno si susseguono,
sulla stampa e in TV, le commemorazioni del decennio
- perché sono diverse, le commemorazioni,
che si tratti del decennio o di un semplice anniversario.
Sono stati pubblicati e ripubblicati libri, sono
anche scoppiate le polemiche tra polo e ulivo
su chi ha ereditato o tradito di più. Credo
che Falcone sia un uomo irriducibile a questo
o quel partito e più vicino a una dimensione
etica della propria esistenza e del proprio lavoro
che si allontanano sempre più dal nostro
orizzonte. Gli appunti di lettura che propongo
sono un invito a riflettere anche su questo.
Alexandre Stille, Nella terra
degli infedeli. Mafia e politica nella prima repubblica,
Arnoldo Mondadori editore,1995
Sono circa quattrocento pagine di fatti, persone,
date, risultanze di indagini, in cui finalmente
sembra di poter trovare una logica alle notizie
e agli articoli che, dagli anni settanta ad oggi,
hanno "raccontato" la mafia, il pool
antimafia, gli scandali - P2, Sindona, etc. Un
grande affresco in cui è possibile riconoscere
i buoni e i cattivi già nelle descrizioni
fisiche e psicologiche dei vari personaggi.
Ne cito alcuni passi che mi sembra opportuno rileggere
insieme, anche se tutto il libro è importante,
assieme alla "Storia della mafia" di
Salvatore Lupo, Donzelli. Ma, prima, il racconto
di Giovanni Brusca, autore della strage.
"Al terzo "vai!",
azionai il telecomando e successe quello che doveva
succedere. Non è che l'esplosione fece
"bum". Avvenne a ripetizione, perché
i fustini esplodevano uno dietro l'altro. Sentii
"tututum", "tututum", "tututum"
Onestamente
sono rimasto scioccato anch'io.
Nella prima macchina, quella colpita in pieno,
c'erano tutti gli uomini della scorta. Se l'auto
di Falcone non avesse rallentato, sarebbe stata
colpita in pieno. Ritardando, infatti, persi l'orientamento
e non azionai il telecomando nel momento in cui
Gioé mi diede il via. Se avessi premuto
in quel momento, non avrei preso nulla. So solo
che, quando azionai, la macchina del giudice venne
tagliata a metà dall'esplosione e colpita
in parte. Il dottor Falcone e la moglie morirono
per l'impatto"(p. 104, Lodato, 1999) "Ho
sentito fare "tititi", tipo pioggia
Tutti
gli allarmi dei villini vicini si erano messi
a suonare contemporaneamente" [
] Incontrammo
i primi posti di blocco solo quando arrivammo
a Palermo. Eravamo soddisfatti per il risultato
ottenuto, anche se ancora non sapevamo cosa fosse
successo esattamente. Camminavamo tranquilli,
ma nello stesso tempo scossi, perché avevamo
combinato un casino" [
] "Mi sono
fatto accompagnare da La Barbera ad Altofonte
e, strada facendo, lui mi riferì i commenti
delle persone che aveva ascoltato tenendo i finestrini
della macchina abbassati: "questi crasti,
questi cornuti", parlando di noi. "Questi
sdisonorati hanno ammazzato quel signore di Falcone."
Mi raccontò anche che lui si era sentito
"nicu, nicu", cioè piccolo, piccolo,
che faceva l'indifferente. E addirittura, come
uno scemo, chiedeva cosa fosse successo".
"Un ultimo particolare: vedendo
la televisione e sentendo che uno degli attentatori
aveva lasciato decine di mozziconi di sigarette
fortemente masticati, la nipote di Antonino Gioé
disse: "Zio, quello che ha ucciso Falcone
è uno che ha il tuo stesso vizio"
Gioé raccontandomi l'episodio mi confidò:
"Rimasi di ghiaccio". Erano i mozziconi
dai quali gli investigatori, in un primo tempo,
speravano di ricavare il DNA di almeno uno degli
attentatori. Ma piovve molto quella notte, e questo
ci aiutò. Fu un'altra delle sviste di quel
giorno: le cicche di Gioé le avevamo raccolte
a conclusione di ogni sopralluogo, di ogni prova,
di ogni esperimento
"L'Italia reagì alla
notizia dell'attentato a Falcone come se fosse
stato ucciso un capo di Stato. Tutte le principali
reti televisive sospesero i programmi per comunicare
la notizia. "quando è giunta la notizia,
i miei figli, che stavano guardando la televisione,
hanno gridato: "NO!" come se avessero
appreso improvvisamente di una sciagura familiare"
ha scritto Claudio Magris, [
] Nel carcere
dell'Ucciardone, invece, i detenuti esplosero
in applausi e grida di giubilo[
] Il Parlamento
indisse una giornata di lutto nazionale e sospese
le sedute fino a funerale avvenuto. In Sicilia
fu proclamato uno sciopero generale; negozi e
imprese chiusero i battenti per un giorno. [Stille,
p. 325]
"Molti videro la morte di Falcone come un
segno della morte dello Stato italiano. "Falcone
doveva essere protetto più di ogni altra
personalità nel nostro paese, perché
nessuno come lui incarnava lo Stato" scrisse
Claudio Magris sul "Corriere della Sera".
"Se non si è saputo o voluto difenderlo
, ciò significa che lo Stato non esiste"
Per Stille "è stata
assai importante la battaglia intellettuale, oltre
che giudiziaria, di Giovanni Falcone, il suo tentativo
di estrarre Cosa Nostra dal reticolo delle sue
relazioni esterne, politico-affaristiche, per
poterla esaminare in se stessa; problema di strategia
giudiziaria e repressiva che coincide in una certa
misura con il nostro di studiosi, in quanto ciò
che non si distingue non può essere nemmeno
combattuto." (Stille, p. 351)
"La maxiordinanza [per il
maxiprocesso che si tenne a Palermo nel 1986,
alcuni passi si possono leggere in Corrado Stajano,
(a cura di), Mafia: l'atto d'accusa dei giudici
di Palermo, Roma, 1986]
, in gran parte stesa dallo stesso Falcone, è
un documento straordinario: un grande affresco
storico che ha il respiro di un romanzo tolstojano[
]
lucida diagnosi di una società malata:
come ne Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa,
vi è documentata la decadenza dell'antica
aristocrazia siciliana, il suo graduale perdere
terre e potere a vantaggio, in questo caso, della
mafia emergente.
Simbolo del nuovo ordine è Michele Greco
il Papa, che per gradi si impadronisce della fortuna
del suo ex padrone, il conte di Tagliavia. Il
primo passo dei greco consiste nel prendere in
affitto, per meno di un milione al mese, un vasto
fondo contenente numerose case coloniche e redditizi
agrumeti. Poco dopo, per ragioni misteriose, i
Greco ottengono la riduzione dell'affitto a meno
della metà della somma originariamente
pattuita. Una disperata mancanza di liquidità
costringe i proprietari a mettere in vendita il
fondo. Si presenta un solo potenziale acquirente,
il quale offre più di 170 milioni di lire
(valuta del 1974) e ne versa 150 di caparra. Ma
a un certo punto, dichiarando di aver fatto male
i conti e di non disporre del denaro necessario
a concludere l'acquisto, questi, che pure è
uno dei più ricchi costruttori di Palermo,
ritira l'offerta, perdendo la caparra. La proprietà
resta sul mercato per diversi anni senza che venga
avanzata una sola offerta, finché alcuni
membri della famiglia Greco la acquistano per
una somma ridicola. Agisce come intermediario
l'avvocato palermitano Luigi Gioia, deputato democristiano;
è il garante del passaggio dall'ancien
régime al nuovo mondo. [
] Benché
tra gli imputati non figuri nessun uomo politico,
l'ordinanza spiega quanto Cosa Nostra abbia affondato
i suoi artigli in profondità nel tessuto
della realtà siciliana. Sono lucidamente
analizzate le strutture del potere mafioso nell'isola:
l'impero dei salvo e la loro vasta influenza sull'Assemblea
regionale; gli imprenditori catanesi, i famigerati
"quattro cavalieri dell'Apocalisse"
e i loro rapporti con la mafia locale e con i
politici a Roma; l'inquietante sfondo politico
dell'assassinio del generale Dalla Chiesa e il
ruolo della corrente di Andreotti in Sicilia.
Tutti questi rapporti sono documentati puntigliosamente
e spassionatamente, allo scopo di costruire una
serie di prove inattaccabili. Ma qua e là,
sotto l'imperturbabilità del tono, affiorano
l'amara ironia e lo sdegno morale di Falcone,
cui si devono questi capitoli. Indagando sulla
mafia catanese, il magistrato aveva trovato alcune
fotografie di una festa nelle quali si vedevano
il sindaco e diversi esponenti del consiglio comunale
far baldoria con il noto capomafia Nitto Santapaola,
che in quello stesso periodo insanguinava le strade
della città con la sua spietata guerra
di clan. C'è una nota di umorismo nero
nella giustapposizione delle fotografie e delle
evasive e poco convincenti dichiarazioni degli
illustri cittadini di Catania. Una foto mostra
un amichevole abbraccio tra Santapaola e Salvatore
Lo Turco, all'epoca membro della commissione regionale
antimafia. Per spiegare la situazione, Lo Turco
dichiarò a Falcone che Santapaola lo aveva
"conquistato con il suo tratto signorile
e la sua gentilezza di modi" (Stille).
"Come ogni altra cosa all'interno
di Cosa Nostra, anche il rapporto di potere tra
mafia e politica era mutato negli ultimi quindici
anni. All'epoca dei boss "moderati"
il rapporto era fondato sul compromesso e la trattativa.
Ma con l'aumento di ricchezza e potere generato
dal traffico di droga, i nuovi capi erano divenuti
più esigenti e imperiosi, mentre, d'altra
parte, diventava più difficile per i politici
mantenere rapporti con la mafia e agire nel suo
interesse, a causa della maggiore attenzione della
nazione verso il problema" (Lupo, storia
della mafia, p. 266)
"Se si volesse trovare un filo conduttore
nella carriera di Giovanni Falcone e di Paolo
Borsellino, questo dovrebbe essere il riconoscimento
di quanto influisca il mutare dei venti politici
sulla lotta alla criminalità organizzata,
lotta che è sempre proceduta a corrente
alternata, con improvvisi soprassalti di energia
scatenati dallo sdegno della nazione per certi
delitti particolarmente odiosi. Ogni volta che
la magistratura ha avuto l'appoggio del governo,
i risultati sono stati notevoli. Dopo la prima
guerra di mafia, negli anni Sessanta, Cosa Nostra
fu costretta allo sbando per diversi anni, ma
riprese più vigore che mai quando lo Stato
perse interesse al problema, negli anni Settanta.
La seconda guerra di mafia e l'assassinio del
generale Dalla Chiesa portarono al maxiprocesso
di Palermo. Ma il pool antimafia fu smantellato
da forze politiche alle quali interessava una
magistratura più docile e meno aggressiva.
Con la morte di Falcone e Borsellino venne infine
l'appoggio politico alle ultime riforme. Che la
politica influisca sull'andamento della lotta
alla mafia è messo in evidenza anche dalle
statistiche. A un impegno da parte del governo
ha sempre corrisposto, in passato, un aumento
considerevole del numero di arresti e di processi
e un calo degli omicidi e delle morti per overdose.
Nei periodi di disinteresse da parte dello Stato,
si è verificato esattamente il contrario.
L'esperienza degli ultimi quarant'anni mette in
evidenza ciò che avrebbe dovuto essere
chiaro fin dall'inizio: una classe dirigente che
vive immersa nell'illegalità non è
nella posizione adatta a condurre una seria e
vigorosa campagna contro la criminalità
organizzata. Non a caso i successi degli ultimi
tempi sono stati accompagnati da un più
generale tentativo di porre fine al sistema di
corruzione dominante nelle istituzioni dello Stato
[tangentopoli] (Stille, p. 372).
Una pagina è dedicata alla
formazione dei due magistrati uccisi dalla mafia,
Falcone e Borsellino, nella Palermo degli anni
cinquanta.
"La storia del potere mafioso a Palermo si
potrebbe raccontare attraverso l'edilizia: isolato
per isolato, edificio per edificio; una fisionomia
inequivocabile che si esprime tanto nelle costruzioni
dozzinali e nell'infernale congestione della città
«nuova» quanto nel totale degrado
del centro storico. I mutamenti imposti alla città
furono così radicali che quasi nessuno
ne è stato immune. Le famiglie Falcone
e Borsellino non costituiscono eccezione.
Nati rispettivamente nel 1939 e nel 1940, Giovanni
Falcone e Paolo Borsellino vissero quel periodo
di trasformazione a pochi isolati di distanza
l'uno dall'altro, nel vecchio e alquanto malridotto
quartiere della Kalsa, nei pressi del porto. La
zona era stata per secoli una delle più
eleganti della città. Nel diciottesimo
secolo Goethe aveva ammirato le splendide prospettive
geometriche create dall'incrociarsi dei viali
che i nobili percorrevano in carrozza durante
il «passeggio» per vedere e farsi
vedere. I Falcone abitavano in via Castrofilippo,
nella casa dove aveva vissuto un prozio che era
stato sindaco della città; i Borsellino
nella vicina via della Vetriera, a due passi dalla
farmacia di famiglia. I due ragazzi giocavano
a calcio insieme in piazza Magione. Il quartiere
era decaduto parecchio dai tempi di Goethe, ma
conservava ancora parte dell'antica eleganza e
ospitava una sana mescolanza di professionisti
e operai, aristocratici e pescatori, imprenditori
e mendicanti.
Nel 1956 la casa dei Borsellino venne dichiarata
pericolante e la famiglia fu costretta al trasloco.
La famiglia [
] sopravvisse, mentre intorno
tutto andava in rovina. Gruppi di senzatetto occuparono
abusivamente l'edificio abbandonato e, costretti
a vivere senza energia elettrica e senza riscaldamento
[sic!], finirono per appiccarvi un incendio che
lo distrusse parzialmente. La casa dei Falcone,
invece, fu destinata alla demolizione per far
posto a una nuova strada. Invano i componenti
della famiglia si presentarono negli uffici delle
varie autorità cittadine con fotografie
che mostravano i soffitti dell'edificio affrescati,
nella speranza di farne riconoscere il valore
storico e artistico. La costruzione venne abbattuta
nel 1959, ma la strada che avrebbe dovuto passare
al suo posto non fu mai costruita, a testimonianza
della cieca e stolta pianificazione urbanistica
dell'epoca. Alle due famiglie non restò
altra scelta che migrare negli anonimi quartieri
dormitorio dove un tempo erano stati i sobborghi
periferici della città.
Probabilmente non è un caso che i due magistrati
[
] venissero dalla piccola ma solida borghesia
professionale della città. Il padre di
Falcone era chimico, quello di Borsellino farmacista.
La borghesia, in Sicilia come nel resto dell'Italia,
era stata la fascia sociale forse più sensibile
ai valori di nazionalismo e patriottismo avanzati
dal nuovo Stato nazionale e sostenuti con vigore
anche maggiore dal fascismo.«La nostra era
una famiglia molto religiosa e attenta ai valori
fondamentali del cittadino» racconta Maria
Falcone. «Noi bambini siamo cresciuti nel
culto della patria. Il fratello di mia madre morì
a diciotto anni nella guerra '15-'18, falsificando
il certificato di nascita perché aveva
diciassette anni e voleva partire volontario.
Il fratello di mio padre morì a ventiquattro
anni, ufficiale di aviazione. Non era stato richiamato,
faceva carriera militare. Averci sempre raccontato
questi fatti sviluppava in noi bambini un amore
per la patria al di sopra di tutto. In casa si
parlava di loro con rispetto quasi ossequioso.
"Hanno servito la patria!" ripeteva
mio padre.»
La famiglia andava in chiesa ogni domenica. Per
un certo periodo Giovanni fece il chierichetto.
La madre mostrava pochi segni esteriori di affetto,
ma comunicava al figlio un'idea molto siciliana
di mascolinità. «Gli ripeteva spesso
che gli uomini non piangono perché voleva
che diventasse un uomo forte» racconta Maria.
Il padre era più affettuoso, ma restava,
come ogni padre dell'epoca, un severo patriarca.
«Ci ha insegnato a lavorare, a fare il nostro
dovere» disse una volta Falcone. «Era
un uomo di forti principi morali. Una persona
seria, onesta, molto legata alla famiglia[
]
Una sola volta ho ricevuto uno schiaffo da lui.
Eravamo in tempo di guerra e ruppi una bottiglia
d'olio. Chi non ha vissuto quei momenti non può
capire. Una bottiglia di olio d'oliva rappresentava
un tesoro. La mia famiglia non era una famiglia
agiata, si viveva di stipendio, anche allora statale.»
In quella famiglia frugale, quasi austera, il
padre andava fiero di non essere mai entrato in
un bar a bere un caffè. "[
]
Falcone prese in considerazione la carriera militare,
un anno all'Accademia navale poi a Palermo a Giurisprudenza.
L'Università lo fece avvicinare al Partito
comunista ma non ne ebbe mai la tessera.
"La Kalsa è un quartiere del porto,
pieno di marinai e contrabbandieri. Da ragazzo,
Falcone giocava a ping-pong con Tommaso Spadaro,
il futuro «re della kalsa» grosso
contrabbandiere di sigarette prima, di eroina
poi. «Ho respirato odore di mafia fin da
piccolo ma, in casa, mio padre non ne parlava
mai. Era una parola proibita» ricordava
Falcone. (Anni dopo, quando perseguì Spadaro,
il boss non seppe trattenersi dal ricordargli
chi dei due soleva vincere a ping-pong.)
Sulla personalità di Giovanni
Falcone una piccola vicenda - un dettaglio significativo
- che risale al 1990.Falcone si candida al Consiglio
superiore della magistratura "dove avrebbe
potuto collaborare a influenzare la politica giudiziaria.
Si candida più che altro per andar via
da Palermo, anche se lui, come gli ricordavano
alcuni suoi amici, era più un investigatore
che un burocrate. Ma lui aveva delle idee maturate
negli anni per una riorganizzazione del lavoro
della magistratura e delle procure e si candidò."
Non premendogli più di tanto entrare al
CSM, Falcone decise di portare avanti le sue proposte
e lasciare che fossero i votanti a decidere. Ma
non si preoccupò di fondare la propria
campagna sui modi tradizionali, interventi a conferenze
e convegni, telefonate ad amici e colleghi, manovre
di corridoio, visite alle altre procure. Pensava
che, essendo la sua carriera e le sue opinioni
ben note, i colleghi avevano tutte le informazioni
necessarie per decidere se dargli o meno il voto.
Molti intesero questo atteggiamento come un'espressione
di arroganza. E altri candidati che avevano seguito
il vecchio sistema di "corteggiare la stampa"
gli furono preferiti. "Ora lei si immagini,
un magistrato che tutto il mondo ci invidiava,
non eletto al Consiglio superiore della magistratura!"
commenta il giudice Lo Voi" (Stille, pp.
290-291).
"Cosa Nostra si è collegata
in maniera assolutamente nuova alla grande politica
e ai grandi affari, ovvero alla grande stagione
(speriamo conclusa) dello stato assistenziale
e del governo "debole", disintegrato
tra istituti ad hoc, leggi ad personam, lobby,
fazioni, clientele e favori, Usl e regioni, tangenti
per tutti, dell'affarismo rampante e dei poteri
occulti. Per leggere tale sistema, che è
il contesto in cui si è sviluppata la metastasi
mafiosa, sarà necessaria una storia d'Italia,
non bastando una storia della Sicilia (Lupo,
Storia della mafia, p. 272).
"I «veleni», i
feroci scontri intestini, le viltà, gli
eroismi e i tradimenti, le complicità o
la semplice incomprensione delle urgenze di una
battaglia di questa portata, come l'emergere di
una linea di contrasto alla mafia vanno inseriti
nel contesto della progressiva rottura di un blocco
originariamente unitario che in Sicilia è
quello politico-mafioso, come nel complesso del
paese è quello politico-affaristico che
possiamo genericamente chiamare democristiano.
Ma sicuramente l'attivismo di un piccolo nucleo
di magistrati, che dalla mafia vengono poi trasformati
in martiri, rappresenta il fattore incontrollabile
per Cosa nostra, il luogo su cui si appunta maggiormente
la reazione terroristica, ma anche il momento
in cui tale reazione mostra più chiaramente
i suoi effetti controproducenti"
Giovanni Falcone, in collaborazione
con Marcelle Padovani, Cose di cosa nostra, Rizzoli,
1991
Sono venti interviste fatte tra il marzo e il
giugno 1991, articolate in sei capitoli: Violenze,
Messaggi e messaggeri, Contiguità, Cosa
Nostra, Profitti e perdite, Potere e poteri.
Marcelle Padovani era corrispondente da Roma per
"Le Nouvel Observateur". Autrice anmche
dell'intervista a Leonardo Sciascia, La Sicilia
come metafora.
All'epoca delle interviste raccolte poi nel libro,
Falcone ha cinquantadue anni, è stato appena
nominato direttore degli Affari penali del ministero
di Grazia e Giustizia a Roma. La causa sembra
qui essere attribuita da falcone al fatto che
a Palermo non poteva più disporre dei mezzi
necessari alle sue inchieste. !il frazionamento
delle istruttorie aveva paralizzato i giudici
del pool antimafia. Era diventato il simbolo o
l'alibi di una battaglia disorganizzata."
La prima intervista risale al 1984. Si era creata
attorno a lui un alone di mistero. Alla fine però
scoprirono "un uomo diverso, allegro, pieno
di humour e di gioia di vivere[
]Un siciliano
illuminista [
] Uomo estremamente schivo,
che evitava come la peste gli argomenti personali
nel corso della conversazione."
P. 14, succinta biografia. Emerge la figura del
padre, con la frase di Falcone che c'è
anche in Stille: "Si vantava di non aver
mai messo piede in un bar in tutta la vita".
Nel 1964 supera il concorso per entrare in magistratura.
La morte, p. 15
"Devi dire che fin da bambino avevo respirato
giorno dopo giorno aria di mafia, violenza, estorsioni,
assassinii" prosegue a raccontare il suo
primo approccio alla mafia a p. 39.
"mi sono fatto le ossa a Trapani come sostituto
procuratore" Primi impegni, p. 40.
L'importanza di Buscetta e il linguaggio, p. 42
"Senza un metodo non si capisce niente"
"Occuparsi di indagini di mafia significa
procedere su un terreno minato: mai fare un passo
prima di essere sicuri di non andare a posare
il piede su una mina antiuomo"
"ho l'impressione che i nostri rapporti siano
sempre stati in codice". Parla di Buscetta
e fa alcune esempi a partire da p. 51 (le sigarette,
il capo, etc.). Tutto il capitolo è infatti
su Messaggi e messaggeri, ma la cosa interessante
è la comprensione e l'uso del codice linguistico
dei mafiosi da parte di Falcone.
"I mafiosi, al pari di chiunque altro, devono
essere trattati con franchezza e correttamente
"un giorno ho assistito a Palermo a una scena
di strada estremamente significativa. Un tizio
protesta contro un altro
p. 61
Perché i pentiti hanno parlato con me?
p. 67 e segg.
"Conoscere i mafiosi ha influito profondamente
sul mio modo di rapportarmi agli altri e anche
sulle mie convinzioni. Ho imparato a riconoscere
l'umanità anche nell'essere apparentemente
peggiore; ad avere un rispetto reale , e non solo
formale, per le altrui opinioni"
"E' il mio scetticismo una specie di autodifesa?
Tutte le volte che istintivamente diffido di qualcuno,
le mie preoccupazioni trovano conferma negli eventi.
Consapevole della malvagità e dell'astuzia
di gran parte dei miei simili, li osservo, li
analizzo, e cerco di prevenirne i colpi bassi"
(p. 71)"Conoscendo gli uomini d'onore ho
imparato che le logiche mafiose non sono mai sorpassate
né incomprensibili. Sono in realtà
le logiche del potere, e sempre funzionali a uno
scopo". Nel capitolo contiguità si
parla del conservatorismo, della morale cattolica
dei mafiosi, della doppia morale dei mafiosi.Una
cultura di morte, i pentiti spesso hanno scelto
la vita. (p. 83)
Le donne e la cultura della vita. (p. 85)
Palermo: "Io vi ho vissuto fino a venticinque
anni e conoscevo a fondo la città. Abitavo
nel centro storico, in piazza Magione, in un edificio
di nostra proprietà. Accanto c'erano i
catoi, locali umidi abitati da proletari e sottoproletari.
Era uno spettacolo la domenica vederli uscire
da quei buchi, belli, puliti, eleganti, i capelli
impomatati, le scarpe lucide, lo sguardo fiero.
Dopo tredici anni di assenza, sono tornato a Palermo
nel 1978 e ho trovato una città che aveva
cambiato faccia. Il centro storico era stato quasi
abbandonato. E nella Palermo Liberty le ultime
splendide ville erano state demolite per far posto
a brutti casermoni. Ho trovato quindi una città
deturpata, involgarita, che in parte aveva perso
la propria identità. Sono andato ad abitare
in Via Notarbartolo, una strada che scende verso
via della Libertà, il cuore di Palermo."
(p. 89)
"E' un difetto tipicamente latino, quello
della personalizzazione. A Palermo c'è
chi mi saluta con un "dottor Giovanni",
dove il "dottore" è espressione
di rispetto, mentre il "Giovanni" aggiunge
un tocco di confidenzialità".
Rosaria Schifani, Felice Cavallaro,
Oltre il buio, Rubettino editore, 2002.Rosaria
Schifani è la vedova di uno dei tre agenti
di scorta uccisi nella strage di Capaci.
Per la situazione oggi, per il
"che fare?", leggere l'articolo di Giuseppe
Di Lello sull'ultima pagina de Il Manifesto, che
tocca i limiti dell'azione del movimento antimafia
e indica la strategia dell'interdipendenza tra
lotte sociali e lotte alla mafia, "la strategia
della trasformazione e non dell'alternanza"
ricordando, fra l'altro che il sistema maggioritario
ha prodotto, in Sicilia, il successo di candidati
di centrodestra in 61 collegi su 61. Senza dimenticare
la lotta per i diritti "sociali, civili e
politici: tutti i diritti per tutti, altrimenti
si perde su tutta la linea e le commemorazioni
di Falcone e di quanti sono caduti come lui diventano
foglie di fico buone a coprire qualsiasi vergogna,
interesse o anche furbizia".
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