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Giro88
Palestina aprile 2002
Intervista a Noam Chomsky sulla situazione in Medioriente
Noam Chomsky sulla situazione
attuale in Medioriente
Intervista di Zed Magazine a
Chomsky, 2 aprile 2002
[Traduzione dall'americano di Sabrina Fusari - Associazione
PeaceLink - www.peacelink.it]
Z: C'è un mutamento qualitativo
in quanto sta avvenendo attualmente?
C: Penso che ci sia un mutamento qualitativo.
Lo scopo del processo di Oslo è stato descritto
accuratamente nel 1998 dallo studioso israeliano
Shlomo Ben-Ami, subito prima che questi entrasse
nel governo Barak, per poi diventare il capo negoziatore
di Barak a Camp David nell'estate del 2000. Ben-Ami
osservò che "in pratica, gli accordi
di Oslo si fondavano su di una base neocolonialista,
su di una vita di dipendenza di una parte sull'altra
e per sempre". Con queste finalità,
gli accordi Clinton-Rabin-Peres si prefiggevano
di imporre ai palestinesi "una dipendenza
quasi totale da Israele", dando luogo ad
una "situazione coloniale estesa" da
intendersi come "base permanente" per
una "situazione di dipendenza". La funzione
dell'Autorità Palestinese era quella di
controllare la popolazione interna di un protettorato
neocoloniale guidato da Israele. È così
che il processo si è sviluppato, passo
dopo passo, comprese le precisazioni dell'accordo
di Camp David. La posizione Clinton-Barak (rimasta
vaga ed ambigua) è stata accolta negli
Stati Uniti come "valida" e "magnanima",
ma guardando ai fatti, è chiaro che era
- come del resto viene comunemente descritta in
Israele - una proposta da bantustan: e si presume
sia questa la ragione per cui si è evitato
attentamente di mostrare cartine geografiche sulla
stampa mainstream statunitense. È vero
che Clinton e Barak si erano spinti di qualche
passo avanti verso una soluzione simile agli insediamenti
"bantustan" che il Sudafrica aveva istituito
nei giorni più bui dell'apartheid. Poco
prima di Camp David, i palestinesi della West
Bank erano confinati in oltre 200 aree sparse,
ed effettivamente l'accordo Clinton-Barak proponeva
un miglioramento: consolidamento in tre distretti,
sotto il controllo di Israele, praticamente separati
l'uno dall'altro e dal quarto distretto, una piccola
area di Gerusalemme Est, il centro della vita
palestinese e delle comunicazioni nella regione.
E naturalmente separati da Gaza, dove non era
chiaro cosa sarebbe avvenuto.
Ma ora, come si vede, questo piano è stato
accantonato a favore della demolizione dell'Autorità
Palestinese. Ciò comporta la distruzione
delle istituzioni del potenziale bantustan pianificato
da Clinton e dai suoi partner israeliani; negli
ultimi giorni, anche di un'organizzazione per
i diritti umani. Le figure palestinesi che erano
state designate quali controparti dei leader neri
dei bantustan vengono anch'esse attaccate, ma
non uccise, probabilmente per via delle ricadute
sul piano internazionale. L'illustre studioso
israeliano Ze'ev Sternhell scrive che il governo
"non si vergogna più di parlare di
guerra, quando ciò in cui è realmente
impegnato è un'operazione di polizia coloniale,
che ricorda l'occupazione, da parte della polizia
bianca, dei quartieri poveri neri in Sudafrica
durante l'era dell'apartheid". Questa nuova
politica rappresenta una regressione rispetto
al modello dei bantustan sudafricani di 40 anni
fa, modello a cui Clinton, Rabin, Peres, Barak
e i loro negoziatori aspiravano con il "processo
di pace" di Oslo.
Nulla di tutto ciò coglie di sorpresa quanti
hanno letto le analisi critiche degli ultimi 10
anni, tra cui una grande quantità di materiale
regolarmente pubblicato su Znet, dove si passano
in rassegna gli sviluppi della situazione passo
a passo. Come poi i leader israeliani intendano
esattamente mettere in atto questi programmi non
è chiaro - neanche a loro stessi, presumo.
Negli USA, e in Occidente, è conveniente
accusare Israele, e specialmente Sharon, ma questo
non è giusto e credo neanche molto onesto.
Molte delle peggiori atrocità commesse
da Sharon sono state realizzate sotto governi
laburisti. Come criminale di guerra, Peres si
avvicina a Sharon. Inoltre, la responsabilità
primaria ricade su Washington, e così da
30 anni. Questo per quanto riguarda sia il quadro
diplomatico generale, sia alcune particolari azioni.
Israele può agire nei limiti stabiliti
dal padrone di Washington, e raramente può
spingersi oltre.
Z: Qual è il significato
della Risoluzione del Consiglio di sicurezza emanata
lo scorso venerdì?
C: L'interrogativo principale era se sarebbe stata
inoltrata la richiesta di un ritiro immediato
di Israele da Ramallah e dalle altre zone palestinesi
in cui l'esercito israeliano era entrato per svolgere
l'offensiva attualmente in corso, o se sarebbe
stata almeno fissata una scadenza per tale ritiro.
Evidentemente, ha prevalso la posizione degli
Stati Uniti: vi è solo una vaga richiesta
di "ritiro delle truppe dalle città
palestinesi", senza specificazioni temporali.
Pertanto, la Risoluzione è in accordo con
la posizione ufficiale statunitense, ampiamente
ribadita sulla stampa: Israele è stata
attaccata ed ha il diritto all'autodifesa, ma
non deve esagerare nel punire i palestinesi, o
almeno non deve farlo in modo troppo visibile.
Ma i fatti - su cui non vi è contenzioso
- sono ben diversi. I palestinesi cercano di sopravvivere
sotto l'occupazione militare israeliana, che entra
ora nel suo trentacinquesimo anno. È sempre
stata aspra e brutale, grazie al decisivo apporto
militare ed economico e alla protezione diplomatica
degli USA, compreso il blocco del consenso internazionale,
che ormai si riscontra da lungo tempo, per una
soluzione politica e pacifica. Non vi è
simmetria in questo confronto, non vi è
la benché minima simmetria: e inquadrarlo
come un atto di autodifesa da parte di Israele
trascende le forme standard di distorsione delle
notizie per gli interessi del potere. Le severissime
condanne del terrorismo palestinese, che vanno
fatte e vengono fatte da 30 anni, non cambiano
questi fatti basilari.
Evitando scrupolosamente le questioni centrali
ed urgenti, la Risoluzione di venerdì scorso
è simile alla Risoluzione del Consiglio
di sicurezza del 12 marzo, che suscitò
grande e favorevole sorpresa perché non
solo gli USA non hanno esercitato il diritto di
veto, come di solito fanno, ma addirittura fu
emanata per iniziativa di Washington. La Risoluzione
parlava della "visione" di uno Stato
palestinese. Non arrivava quindi ai livelli del
Sudafrica, 40 anni fa, quando il regime dell'apartheid
non annunciò solo una "visione",
ma istituì Stati, governati dai neri, che
erano fattibili e legittimi almeno tanto quanto
ciò che USA ed Israele progettavano per
il territori occupati.
Z: Ma gli USA che cosa faranno
ora? E quali interessi statunitensi sono in gioco
a questo punto?
C: Gli USA sono una potenza globale. Quello che
avviene in Israele-Palestina è un esempio
tra tanti. Sono molti i fattori che entrano in
gioco nelle politiche statunitensi. La principale
in questa regione del mondo è il controllo
sulle maggiori riserve energetiche del pianeta.
L'alleanza USA-Israele ha preso forma in quel
contesto. Nel 1958, il Consiglio per la Sicurezza
Nazionale concluse che un "logico corollario"
dell'opposizione nei confronti del crescente nazionalismo
arabo "sarebbe stato sostenere Israele quale
unica potenza filo-occidentale di rilievo in Medioriente".
Si tratta di un'esagerazione, ma anche di una
conferma dell'analisi strategica generale, che
identificava nel nazionalismo locale la minaccia
primaria (come in altre parti del Terzo Mondo);
tipicamente, veniva chiamata "comunista",
anche se nella documentazione interna, ormai,
si ammette in generale che questo era un termine
propagandistico e che le problematiche relative
alla guerra fredda erano spesso marginali, come
in quel cruciale anno 1958. L'alleanza divenne
stabile nel 1967, quando Israele prestò
un importante servizio al potere statunitense
distruggendo le principali forze del nazionalismo
arabo laico, considerato una minaccia molto grave
al dominio statunitense nella regione del Golfo.
E le cose sono continuate così, anche dopo
il collasso dell'URSS. Oggi, l'alleanza USA-Israele-Turchia
è un caposaldo della strategia statunitense,
e Israele è praticamente una base militare
degli USA, tra l'altro strettamente integrata
con l'economia dell'alta tecnologia militare statunitense.
In questo quadro persistente, è naturale
che gli USA sostengano la repressione israeliana
dei palestinesi e l'integrazione dei territori
occupati, compreso il progetto neocoloniale tratteggiato
da Ben-Ami, anche se le scelte politiche specifiche
vanno fatte in base alle circostanze. In questo
momento, i pianificatori di Bush continuano a
bloccare la misure per una soluzione diplomatica,
o perfino per la riduzione della violenza; è
questo il significato, ad esempio, del veto statunitense
sulla Risoluzione del Consiglio di Sicurezza del
15 dicembre 2001 che invocava misure verso la
messa in atto del Piano Mitchell e per l'introduzione
di osservatori internazionali per monitorare la
riduzione delle violenze. Per ragioni analoghe,
gli USA hanno boicottato gli incontri internazionali
tenutisi a Ginevra il 5 dicembre (dove si riuniva
l'Unione Europea, compresa la Gran Bretagna),
in cui si è ribadito che la Quarta Convenzione
di Ginevra si applica anche ai territori occupati,
in modo tale che determinate azioni USA-Israele
di cruciale importanza, condotte nella zona, sono
da ritenersi "gravi violazioni" della
Convenzione - crimini di guerra, in parole povere
- come previsto dalla Dichiarazione di Ginevra.
Questo non ha fatto che ribadire la Risoluzione
del Consiglio di Sicurezza dell'ottobre del 2000
(dove gli USA si sono astenuti) che confermava
l'applicabilità della Convenzione ai territori
occupati. Era poi anche la posizione ufficiale
degli USA, formalmente sostenuta, ad esempio da
George Bush I in veste di ambasciatore alle Nazioni
Unite. In questi casi, gli USA regolarmente si
astengono o fanno opera di boicottaggio, poiché
non vogliono assumere in pubblico una posizione
di contrarietà nei confronti del diritto
internazionale, specialmente alla luce delle circostanze
nelle quali le Convenzioni sono state ratificate:
per criminalizzare formalmente le atrocità
dei nazisti, comprese le azioni nei territori
da essi occupati. I media e l'ambiente intellettuale
in generale cooperano, "boicottando"
essi stessi questi spiacevoli fatti: in particolare,
il fatto che quale parte contraente, il governo
statunitense è legalmente obbligato dalla
solennità del trattato a punire chiunque
violi le Convenzioni, anche qualora si trattasse
della loro stessa leadership politica.
Ma questo non è che un piccolo campione
rappresentativo. Frattanto, il flusso di armi
ed aiuti economici per mantenere l'occupazione
con la forza e il terrore e per estendere gli
insediamenti continua senza tregua.
Z. Qual è la tua opinione
sul summit dei paesi arabi?
C: Il summit dei paesi arabi ha portato all'accettazione
generale del piano saudita, che ha ribadito i
principi generali del consenso internazionale
già raggiunto da molto tempo: Israele deve
ritirarsi dai territori occupati nel quadro di
un accordo di pace generale che garantisca il
diritto di tutti gli Stati della regione, compreso
Israele stesso e un nuovo Stato palestinese, a
vivere in pace e in sicurezza entro i confini
riconosciuti (praticamente la formulazione della
242 ONU, con l'aggiunta del riferimento ad uno
Stato palestinese). Non c'è nulla di nuovo
in tutto ciò. Sono i termini basilari della
Risoluzione del Consiglio di Sicurezza del gennaio
1976, sostenuta da quasi tutto il mondo, compresi
i principali paesi arabi, l'OLP, l'Europa, il
blocco sovietico, i paesi non allineati - cioè
da tutti quelli che contavano. Ma ha incontrato
l'opposizione di Israele e il veto degli USA e
dunque il veto della storia. Successive e simili
iniziative degli Stati arabi, dell'OLP e dell'Europa
occidentale sono state fino ad oggi bloccate dagli
Stati Uniti, compreso il piano Fahd del 1981.
Ma anche lo stesso racconto di tale blocco è
stato efficacemente bandito dalla storia, per
le solite note ragioni.
Il sistematico rifiuto degli Stati Uniti va però
fatto risalire a cinque anni prima, al febbraio
1971, quando il Presidente egiziano Sadat offrì
ad Israele un trattato di pace completa in cambio
del ritiro da parte di Israele dai territori egiziani
occupati, senza neanche sollevare la questione
dei diritti nazionali palestinesi o il destino
degli altri territori occupati. Il governo israeliano
laburista riconobbe che si trattava di un'offerta
sincera di pace, ma decise di rifiutarla, nell'intenzione
di estendere i propri insediamenti verso il Sinai
nord-orientale; cosa che ben presto fece, con
estrema brutalità, la causa immediata della
guerra del 1973. Il piano che riguardava i palestinesi
sotto l'occupazione militare è stato descritto
con sincerità ai colleghi di Gabinetto
da Moshe Dayan, uno dei leader laburisti più
aperti nei confronti della questione palestinese.
Israele doveva affermare chiaramente che "non
abbiamo altra soluzione, continuerete a vivere
come cani. Chi vuole, può anche andarsene,
e vedremo dove ci porta questo processo".
A seguito di tale raccomandazione, il principio
guida dell'occupazione è stato rappresentato
da un'umiliazione incessante e degradante, oltre
alla tortura, al terrore, alla distruzione delle
proprietà, alla cacciata della popolazione
civile per fare spazio agli insediamenti, alla
presa di possesso delle risorse di base, principalmente
l'acqua.
L'offerta di Sadat del 1971 era conforme alla
politica ufficiale statunitense, ma Kissinger
riuscì a far prevalere la sua preferenza
per la soluzione da lui stesso definita "stallo":
niente negoziati, solo forza. Le offerte di pace
provenienti dalla Giordania furono anch'esse rigettate.
Da allora, la politica ufficiale degli USA consiste
nell'attenersi al consenso internazionale sul
ritiro (fino a Clinton, che ha di fatto abrogato
le Risoluzioni dell'ONU e le osservazioni sul
diritto internazionale); ma all'atto pratico,
la politica ha seguito la linea Kissinger, ossia
l'accettazione dei negoziati soltanto sotto costrizione
- così come Kissinger stesso era stato
costretto ad accettare i negoziati dopo la quasi-débâcle
della guerra del 1973, di cui egli ha una grossa
responsabilità - e alle condizioni ben
espresse da Ben-Ami.
La dottrina ufficiale ci insegna a concentrare
l'attenzione sul summit dei paesi arabi, come
se il problema fossero gli Stati arabi e l'OLP,
in particolare la loro intenzione di fare affondare
lo Stato di Israele. I media presentano il problema
come se si trattasse di vacillamenti, riserve
e limitazioni da parte del mondo arabo. È
vero che si può dire ben poco a favore
degli Stati arabi e dell'OLP, ma queste affermazioni
sono semplicemente false, come si capisce rapidamente
dando uno sguardo alla storia.
La stampa più seria ha ammesso che il piano
saudita ripropone in gran parte il piano saudita
Fahd del 1981, e ha affermato che tale iniziativa
era fallita per via del rifiuto da parte araba
di accettare l'esistenza di Israele. I fatti sono
però, ancora una volta, ben diversi. Il
piano del 1981 fu fatto fallire dalla reazione
israeliana, condannata perfino dalla stampa mainstream,
che la definì "isterica", e sostenuta
dagli USA. Occorre tenere conto anche del fatto
che Simon Peres ed altre presunte "colombe"
sostenevano che accettare il piano Fahd avrebbe
"messo in pericolo l'esistenza stessa di
Israele". Un indicatore di questa isteria
è la reazione dell'allora Presidente israeliano
Haim Herzog, anch'egli considerato una colomba.
Sostenne che il "vero autore" del piano
Fahd fosse l'OLP, e che fosse ancora più
estremo della Risoluzione del Consiglio di Sicurezza
del gennaio 1976 che era stata "preparata"
dall'OLP stessa, all'epoca in cui egli era ambasciatore
alle Nazioni Unite.
Tali affermazioni difficilmente possono essere
vere, ma sono un indicatore, da parte delle colombe
israeliane sostenute per tutto il tempo dagli
Stati Uniti, della paura disperata che si realizzi
un accordo politico. Il problema di base è
da ricondursi, allora come oggi, a Washington,
che ha sempre sostenuto il rifiuto da parte di
Israele di pervenire ad un accordo politico secondo
i termini stabiliti dall'ampio consenso internazionale,
e ribaditi in forma essenziale nell'attuale piano
saudita.
Finché non si permette a fatti elementari
come questi di entrare nella discussione, sostituendoli
alle solite rappresentazioni fuorvianti ed ingannevoli,
la discussione è in gran parte fuori tema.
E non dobbiamo farci attrarre in essa - ad esempio,
accettando implicitamente l'assunto in base al
quale gli sviluppi del summit dei paesi arabi
rappresenterebbero un problema cruciale. Sono
significativi, naturalmente, ma il fatto è
secondario. I problemi principali sono proprio
qui, negli Stati Uniti, ed è nostra responsabilità
affrontarli e risolverli, non scaricarli sugli
altri.
[In caso di pubblicazione di questo
articolo si prega di riportare la fonte (Z Magazine)
e il nome del traduttore.]
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